ALTRE VISIONI DI UNA SOCIETA’ DEI BENI COMUNI

Il benecomunismo neo-medioevale di Mattei

Biopolitica, Moltitudine, Comune, secondo Hardt-Negri

Il diritto di avere diritti, Rodotà e i Beni comuni

(settembre 2014)

In Benicomunismo1 non ho analizzato né fatto riferimento ad altre visioni di una società fondata sui Beni comuni, che hanno circolato nel dibattito politico degli ultimi anni in Italia. Pur con terminologie a volte simili, si tratta di impostazioni del tutto diverse dalla mia, con ben pochi punti  di contatto. All’epoca della pubblicazione di quel mio libro non mi pareva utile fare distinzioni o polemiche rispetto a letture dei Beni comuni che in alcuni casi mi sembravano fantasiose e più che altro costruzioni ideologico-letterarie come nel caso di Ugo Mattei o di Michael Hardt e Antonio Negri, senza credibili ricadute politiche o strategiche; o in altri casi, come per l’impostazione giuridica di Stefano Rodotà, non rientravano nella trattazione che avevo sviluppato e nella quale l’aspetto legislativo, pur non trascurabile, non mi pareva preminente. E soprattutto mi interessava esporre in primo luogo la mia proposta teorica, politica e filosofica – e cioè la visione di una società post-capitalistica del tutto diversa dal “socialismo reale”, che facesse dei solidi conti con esso, recidendone ogni legame – piuttosto che innestare un conflitto tra concezioni dei Beni comuni (benicomunismo vs benecomunismo, socialismo del XXI secolo vs Comune o neomedioevalismo comunitario) che di veramente simile hanno per lo più solo un po’ di terminologia.

Pur tuttavia, visto l’interesse in Italia verso analisi e tesi riguardanti una possibile società dei Beni comuni – pur se differenziate o divergenti – ritengo opportuno tornare sull’argomento e approfittare non solo per chiarire le diversità ma soprattutto per precisare meglio, nel confronto, la mia visione di benicomunismo. La quale, «non procede per teorema e per dimostrazione deduttiva, ma per via empirica, a tratti in modo decisamente esplorativo, per tentativi, per salti e ritorni e quindi per necessità induttiva; e tuttavia con disciplina maieutica»2; e intende dunque inserirsi nel vivo della pratica del conflitto sociale e politico, ma pure in  dialettica con le elaborazioni altrui che cercano di collegare teoria e prassi. In questo confronto, distinguerò tra le tesi ed analisi (con riferimento a Mattei e a Hardt-Negri) che sono davvero altra cosa rispetto a quanto fin qui da me scritto su una possibile società post-capitalista; ed elaborazioni che, pur in parte condivisibili, intendono definire una società rispettosa di diritti e Beni comuni, della quale sembra però che si ipotizzi la possibile realizzazione nel quadro del capitalismo (con riferimento primario agli scritti di Rodotà). Per la prima parte di analisi, mi sarà di aiuto il testo di Ermanno Vitale Contro i beni comuni (sottotitolo Una critica illuminista)3, un pamphlet aspramente polemico in particolare con quello che si è volutamente presentato come manifesto programmatico dei Beni comuni, il volumetto di Ugo Mattei Beni comuni (sottotitolo Un manifesto)4. La critica di Vitale è altrettanto aspra nei confronti dello scritto di Hardt-Negri, Comune. Oltre il privato e il pubblico, e decisamente più benevola, invece, nei confronti dei testi di Rodotà sui diritti e sui Beni comuni.

Il benecomunismo neo-medioevale di Mattei

Gran parte delle critiche di Vitale sono condivisibili, malgrado alcune forzature presenti fin dal titolo (Vitale non è contro i Beni comuni, ma contro l’uso onnicomprensivo di tale categoria, soprattutto se messa al servizio di teorie fantasiose, prive di basi fattuali) e l’interpretazione del “manifesto” di Mattei come se fosse davvero espressione dei movimenti in difesa dei Beni comuni o addirittura un testo traviante nei confronti di coloro che vi sono impegnati.

«Cosa offre il “Manifesto dei beni comuni” alla “meglio gioventù”, che resiste e rifiuta la servitù volontaria imposta dalle cosiddette leggi di mercato, che sta tentando di vivere una vita degna di essere vissuta, di trovare forme di socialità alternative al ‘mors tua vita mea’, che ricerca il nobile ideale di un modello di società radicalmente alternativo a quello proposto dalla privatizzazione e finanziarizzazione del pianeta? Nella migliore delle ipotesi, un viaggio verso il nulla che presto si rivelerà tale, salvo che per qualche leader e/o ideologo che al momento opportuno saprà riciclarsi in fretta; nella peggiore, nel caso cioè che la teoria dovesse diventare pratica, una vita comunitaria che ci riporterebbe ad esperienze politiche consegnate alla storia»5.

Tanta è la preoccupazione che Vitale nutre verso le posizioni di Mattei da spingerlo a fare una sorta di invito/monito alla dissociazione rivolto a quegli «studiosi che si sono messi ad usare la parola tanto accattivante “beni comuni” e che non si riconoscono in questo manifesto».

«Se non ci si dissocia apertamente, un manifesto è un manifesto, e in qualche modo detta la linea…Personalmente esprimo un radicale dissenso, perché ritengo generica, infondata e mistificatrice la proposta che si avanza. Sotto l’aspetto di una proposta rivoluzionaria – una comunità politica fondata sulla primazia dei “beni comuni”- si nasconde una visione del mondo premoderna, una regressione romantica al medioevo, visto come luogo di una vita comunitaria felice ed ecologicamente equilibrata. Per contro, l’Illuminismo, come dagli autori conservatori e reazionari, è visto come la matrice ideologica non dei diritti dell’uomo e del cittadino, non del pensiero critico contro la superstizione ma, al contrario, del mero individualismo possessivo e del processo di accumulazione originaria del capitale»6.

Ora, a parte il suono inquietante del termine dissociazione, ho l’impressione che Vitale si sia lasciato troppo influenzare da un altro Manifesto, il quotidiano che da decenni cerca di conferire autorevolezza a questa o quella teoria up to date (salvo abbandonarle all’oblio una volta che l’onda superficiale, che le ha innalzate, rifluisce) in ben circoscritte aree di opinione “di sinistra”. Perchè basta frequentare anche saltuariamente i movimenti in difesa dei Beni comuni per verificare che il testo di Mattei di danni non ne ha fatti, visto che le parti «romanticamente regressive, premoderne e antilluministe», che effettivamente abbondano nello scritto, sono scivolate via senza effetti, mentre casomai hanno dato un contributo non disprezzabile alcuni passaggi giuridici di scritti più concreti, e scevri da regressioni premoderne, dello stesso Mattei e del gruppo di giuristi che ha lavorato con Rodotà negli ultimi anni. Vale comunque la pena di utilizzare questo aspro scambio dialettico per separare il grano dall’oglio, segnalando quanto di fantasioso, inutile e disorientante ci sia in elaborazioni che usano la terminologia dei Beni comuni per costruire castelli in aria, ma non sorvolando su questioni serie presenti anche nello scritto di Mattei (e negli altri oggetto di polemica), a cui la pars construens del pamphlet di Vitale non risponde con altrettanta efficacia. In tal senso, alcune considerazioni di Mattei nell’introduzione al “manifesto” sono inconfutabili anche per chi non ama la terminologia benicomunista. Per esempio:

«Il principale bersaglio critico del “Manifesto per i beni comuni” è l’assetto istituzionale del potere globale oggi dominante: la tenaglia tra la proprietà privata, che legittima i comportamenti più brutali della moderna corporation, e la sovranità statuale, che instancabilmente collabora con la prima per creare sempre nuove occasioni di mercificazione e privatizzazione dei beni comuni»7. O anche: «Presenterò qui il tema dei beni comuni rifiutando la separazione tra giuridico, economico e politico…Ritengo fondamentale la piena integrazione tra ambito teorico e prassi politico-sociale, perché la tutela dei beni comuni richiede innanzitutto la piena coscienza politica della loro centralità»8. E infine: «L’immaginario moderno assume come naturale lo sfruttamento dei beni comuni, tramite un processo di consumo che ne costituisce un’inevitabile privatizzazione a favore di chi meglio sa goderne e trarne profitti…In questo quadro l’accumulazione originaria attraverso la conquista di beni comuni è oggi anche la privatizzazione di quanto realizzato in comune con la fiscalità generale, come il trasporto pubblico, le reti delle “utilities” e delle telecomunicazioni, lo sviluppo urbanistico, i beni culturali e paesaggistici,le scuole (intese in senso ampio come cultura e conoscenza), gli ospedali e le strutture che fondano la convivenza civile (compresi difesa, carceri, sistemi di disposizione dei rifiuti e molti altri)»9.

Fin qui, dunque, niente di “retrogrado” o “reazionario”, ma considerazioni ampiamente condivisibili sia a livello teorico sia nelle pratiche di lotta in difesa dei Beni comuni. L’uscita dal seminato, che giustamente Vitale critica, avviene in realtà, da parte di Mattei, sulla base di tre tesi, tre convinzioni teorico-ideologiche, che ritengo sbagliate e deformanti la realtà attuale e quella dei secoli passati. La prima tesi si fonda pur tuttavia su una considerazione esatta:

«Quando lo Stato privatizza una ferrovia, una linea aerea o la sanità o cerca di privatizzare il servizio idrico o l’Università, espropria la comunità dei suoi beni comuni, in modo analogo e speculare rispetto a ciò che succede quando si espropria una proprietà privata per costruire  un’opera pubblica…In un processo di privatizzazione il governo non vende quanto è suo, ma quanto appartiene “pro quota” a ciascun componente  della comunità, così come quando espropria un campo per costruire un’autostrada esso acquista coattivamente una proprietà che non è sua. Ogni processo di privatizzazione deciso dall’autorità politica espropria ciascun cittadino della sua quota-parte del bene comune espropriato, proprio come avviene nel caso dell’espropriazione di un bene privato. Tuttavia, mentre la tradizione costituzionale liberale tutela il proprietario privato nei confronti dell’autorità pubblica attraverso l’istituto dell’indennizzo, nessuna tutela giuridica, e men che meno costituzionale, esiste nei confronti dello Stato che trasferisce al privato beni della collettività (beni comuni) che non siano detenuti in proprietà privata (pp.V-VI)».

Da questa sacrosanta constatazione Mattei non ne ricava però la necessità di impedire, attraverso nuove forme di organizzazione dei poteri politici, le privatizzazioni e le espropriazioni dei Beni comuni, ma ritiene che la soluzione sia opporre a questa espropriazione collettiva e usurpatrice

«la tutela militante dei beni comuni come un genere dotato di autonomia giuridica e strutturale, nettamente alternativa tanto alla proprietà privata quanto a quella pubblica, intesa come demanio e/o patrimonio dello Stato e delle altre forme di organizzazione politica formale. Ciò è tanto più urgente nella misura in cui..il governo, controllato capillarmente da interessi finanziari globali, dissipa fuori da ogni controllo i beni comuni…Ecco emergere tutta l’importanza teorica e pratica dell’elaborazione tecnica-giuridica di una nozione di beni comuni (o di proprietà comune) come istituto diverso e alternativo rispetto al dominio sia privato sia pubblico (pp.VII-VIII-XVIII)».

Dunque, la via di salvezza sarebbe l’istituzione formale – con l’inserimento nelle Costituzioni – di una terza forma di proprietà, né privata né pubblico-statale. La storia passata delle terze vie è tortuosa, lastricata di teorie e pratiche quasi mai socializzanti e mai risolutive. Ma Mattei, forse affascinato dal clamore che le ha sempre accompagnate, ci si avventura e ci si perde, cercando improbabili riferimenti storici in una sorta, come scrive Vitale, di «medioevo benecomunista popolato non da servi della gleba che cercavano di sfuggire alla loro condizione nascondendosi nelle città, ma da allegre brigate di liberi lavoratori che in spirito di solidarietà utilizzavano in maniera ecologicamente perfetta le risorse naturali, guidati dall’”intelletto generale”, che più prosaicamente possiamo definire quelle consuetudini e tradizioni che li condannavano ad una vita misera, breve e brutale»10. Questa ideologizzazione di una terza via tra pubblico e privato e la  ricerca di spettacolari scenari paralleli tra il Medioevo storico e la fase attuale, descritta come un “nuovo Medioevo”, avviene malgrado Mattei sembri cosciente che il vero problema da risolvere non è la fuoriuscita dalla proprietà pubblica in cerca di forme di proprietà “terzista” ma l’abuso che di tale proprietà fa una ben precisa classe che se ne è impossessata, di fatto privatizzando il pubblico e utilizzandolo a propria discrezione. Scrive infatti:

«Consentire al governo di vendere liberamente beni di tutti per far fronte alle proprie necessità contingenti di politica economica è, sul piano costituzionale, tanto irresponsabile quanto lo sarebbe sul piano familiare consentire al maggiordomo di vendere l’argenteria migliore per sopperire alla sua necessità di andare in vacanza…Il governo dovrebbe essere il servitore del popolo sovrano, e non viceversa. Certo, il maggiordomo (governo) deve poter disporre dei beni del suo padrone (beni comuni della collettività) per poterlo servire bene ma deve esserne amministratore fiduciario e non certo proprietario, libero di abusarne alienandoli e privatizzandoli indiscriminatamente. I beni comuni, infatti, una volta alienati o distrutti non esistono più e non sono riproducibili e facilmente recuperabili… Ecco perché la questione dei beni comuni non può non avere valenza costituzionale: è nelle Costituzioni, infatti, che i sistemi politici collocano le scelte di lungo periodo sottratte al rischio di arbitrio del governo in carica»11

A parte la discutibile metafora nobiliare con tanto di maggiordomo e servitù – dovuta probabilmente alla immersione nel clima da nuovo Medioevo – appare qui la consapevolezza che la magagna non sta nella forma pubblica della proprietà ma nella usurpazione effettuata non da “maggiordomi” ma da potenti e intoccabili possessori delle casse pubbliche e dei meccanismi statali decisionali, che abusano dei Beni comuni «alienandoli e privatizzandoli indiscriminatamente». E che dunque non di inventarsi “terzismi” si tratta, ma di trovare le forme democratiche e socializzanti in materia di Beni comuni che impediscano privatizzazioni abusive. Problema assolutamente politico e di rapporti di forza sociali, che non verrebbe affatto risolto con l’introduzione nella Costituzione di una terza forma di proprietà, dovendosi comunque stabilire chi eserciterebbe la gestione di questa terza forma: e si presenterebbe la stessa possibile usurpazione privatistica dei Beni comuni se essa venisse affidata a personale professionistico interessato ad approfittare, individualmente o come gruppo, di tale gestione. D’altra parte, tornando alla metafora nobiliare, se una famiglia così benestante da avere un maggiordomo scoprisse che egli «per andare in vacanza si vende l’argenteria migliore», non deciderebbe certo di cambiare la proprietà della magione familiare affidandola ad un possessore terzo, ma caccerebbe a calci in culo il maggiordomo! Mi pare, poi, che un secondo, profondo errore analitico spinga Mattei negli impresentabili meandri del vecchio e nuovo Medioevo e dei successivi, scombinati e fantasiosi paralleli storici.

«Il vero mutamento paradigmatico risulta prodotto dalla crescita esponenziale di nuovi soggetti sovrani globali, grandi produttori diretti e indiretti di diritto. Mi riferisco a quelle grandi società private multinazionali che sono cresciute a dismisura negli ultimi decenni e che concentrano una quantità di potere gerarchico per molti versi superiore a quello degli Stati moderni, compresi quelli più potenti…In mancanza di qualsiasi spazio per la separazione dei poteri e per lai democrazia partecipativa, la volontà sovrana degli Amministratori delegati è assoluta quanto quella del “dominus” romano…La presenza di immense organizzazioni politico-economiche assolte da responsabilità sociale costituisce punto di partenza e di arrivo del nuovo medioevo globale, perché sono proprio il gigantismo di questi soggetti ed il loro essere attori globali a renderli più forti degli Stati. Il nuovo medioevo è popolato da questi “mostri” a caccia di profitto, proprio come le compagnie di ventura e gli eserciti mercenari che saccheggiavano liberamente l’Europa»12.

Ho cercato di dimostrare in Benicomunismo l’inconsistenza del luogo comune sulle multinazionali che sarebbero più potenti persino degli Stati più forti: e a quella specifica analisi rimando su tale tema. Ma qui è davvero curioso notare come, da questa erronea lettura del ruolo degli Stati e delle multinazionali, Mattei tragga conclusioni non di chiusura di spazi per i Beni comuni, bensì di aperture analoghe a quelle, a suo dire, medioevali.

«Gli spazi politici del comune, ossia dell’organizzazione giuridico-politica tradizionale, fondata sul godimento autogestito dei beni comuni…si accrescono in modo inversamente proporzionale alla forza centralizzatrice dello Stato. Laddove le istituzioni dello Stato sono forti sul territorio e riescono a rendere coerenti la teoria e la prassi dell’assolutismo (monopolio sul diritto e sulla violenza legittima) i beni comuni, e le comunità di riferimento, si rattrappiscono e tendono a sparire a favore del binomio proprietà privata-Stato»13.

Insomma, il presunto indebolimento degli Stati a favore di quelle corporations che solo poche righe prima Mattei aveva paragonato a «mostri a caccia di profitto, come gli eserciti mercenari che  saccheggiavano l’Europa» nel Medioevo, aprirebbe paradossalmente spazi al potenziamento dei Beni comuni, presentando dunque il nuovo Medioevo come un ambiente sociale più favorevole – rispetto al dominio novecentesco degli Stati – per l’espansione della proprietà terza (né privata né statale) perché esso offrirebbe pluralismo e policentrismo come nel “vecchio” Medioevo.

«Nel trentennio trascorso tra la “rivoluzione” reagan-thatcheriana e oggi, è mutata l’intera struttura giuridico-politica della modernità (degli oltre trecento anni precedenti14), fondata su uno Stato sovrano, onnipotente, creatore del diritto vigente all’interno dei suoi confini…Lo sviluppo giuridico in Europa fu caratterizzato, come del resto ovunque, da fenomeni di profondo pluralismo e policentrismo, e il cosiddetto ordine giuridico medioevale restò molto significativo in Europa ben all’interno del XIX secolo. Il Medioevo era caratterizzato da un gran numero di fonti del diritto in vigore su uno stesso territorio, fra loro scarsamente coordinate ed in rapporto certo non gerarchico…Contro questo pluralismo, fatto di mediazione e di diritto prodotto e applicato “dal sotto in su”, si scontrò per secoli la pretesa assolutistica dei nuovi sovrani statuali…Occorre ricordare che gran parte della resistenza alla modernizzazione e all’assolutismo statuale fu condotta (ed è tuttora condotta in molti luoghi del globo) proprio in difesa di quei beni comuni che nell’ordine giuridico medievale costituivano non solo una importantissima base di sostentamento dei ceti contadini e artigiani, ma anche un sistema politico partecipato e legittimo di autogoverno delle popolazioni autoctone»15.

Su queste basi Mattei crea una mitologia e un fantasioso percorso di mutazioni sociali e politiche che, attraverso più di cinque secoli, avrebbe portato l’umanità a passare dal dominio dei Beni comuni alla loro distruzione o marginalizzazione. E in tale ricostruzione, del tutto fuori dalla realtà storica, l’elemento decisivo sarebbe stato, ancor prima della “conquista” delle Americhe, il fenomeno delle enclosures16, il vero starter della  presunta distruzione del “comune”.

«I due episodi-chiave di questa vicenda sono rispettivamente le “recinzioni” dei beni comuni e la “conquista” del Nuovo Mondo. Il più poderoso processo di recinzione dei beni comuni si svolge, non a caso, in Inghilterra, ossia nel paese che agli albori della modernità aveva raggiunto il più alto tasso di centralizzazione statuale in Europa. E in effetti furono proprio le “enclosures” inglesi a segnare un momento importantissimo di quell’alleanza storica tra istituzioni della statualità e proprietà privata che ha stritolato i beni comuni, marginalizzandoli per secoli prima della loro riemersione contemporanea come effetto collaterale del nuovo Medioevo…In Inghilterra i primi fenomeni massicci avvengono nel corso del XV secolo, ma è nel XVI, XVII e XVIII che la tenaglia ai danni del comune si chiude interamente, divenendo ideologia dominante del capitalismo e della modernità. Le recinzioni inglesi costituiscono l’archetipo delle privatizzazioni, ossia del privare i “commoners” dei loro beni comuni…L’espulsione dei contadini dalle terre trasformate in allevamenti fu una vera e propria tragedia sociale. Gli scacciati avevano ben poca scelta: potevano dedicarsi al brigantaggio, o cercare di raggiungere centri urbani per dedicarsi all’accattonaggio o andare a incrementare l’esercito di riserva delle nascenti “corporations” industriali…La legge intervenne per addomesticare le masse degli scacciati, convertendoli in lavoratori salariati, attraverso lo sviluppo di istituzioni come carceri, manicomi e case per poveri…Una serie di leggi draconiane, le “poor laws”, si fece carico di colpire, con durezza inusitata, le masse un tempo contadine e ora nullafacenti che confluivano nelle città»17.

Una volta imboccata la strada di una ricostruzione storica fantasy, Mattei si avvoltola in passaggi  sconcertanti. Innanzitutto, la periodizzazione: questa presunta distruzione epocale dei Beni comuni, la cui massima fioritura viene attribuita al basso Medioevo europeo, è poi addirittura spalmata su otto secoli e ruota tutta intorno alla privatizzazione delle terre, come se l’unico vero Bene comune sia il terreno coltivabile o forestale. L’inizio sembrerebbe coincidere con la presa del potere in Inghilterra di Guglielmo di Normandia (detto il Conquistatore) dopo la battaglia di Hastings nel 1066, visto che gli si attribuisce la realizzazione di «un modello di centralizzazione del potere statuale attraverso una struttura amministrativa gerarchica, accompagnata dalle prime istituzioni giudiziarie centralizzate, volte a dispensare un diritto comune regio su tutto il territorio (p.32-33)». Dopodiché, con un salto temporale di circa 150 anni, Mattei cita la Magna Charta del 1215 (considerata il primo documento costituzionale dell’Occidente) per ricordare che essa «fu accompagnata da un documento, noto come “Charter of the forest”, che garantiva i beni comuni di quella parte dei sudditi di sua maestà (la stragrande maggioranza) che non godeva di ricchezza e di proprietà privata e garantiva al popolo l’accesso libero alle foreste e all’uso dei beni comuni in esse contenuti (legname, frutta , selvaggina, acqua ecc…)», ma aggiungendo che tale garanzia fu  «probabilmente la disposizione di un testo costituzionale più disattesa della storia (p.33)»

Dunque, sembrerebbe che nel XIII secolo la privatizzazione delle terre fosse in Europa operazione pressoché conclusa. Ma successivamente Mattei cita (p.35) un brano dalla Utopia di Tommaso Moro18 del 1516, da cui parrebbe che l’operazione di «cingere ogni terra di stecconate ad uso di pascolo, senza nulla lasciare alla coltivazione, diroccando case e abbattendo borghi, risparmiando le chiese solo perché vi abbiano stalla i maiali e mutando in deserto tutti i luoghi abitati e quanto c’è di coltivato sulla terra (p.36)» fosse pienamente realizzata nell’Inghilterra dell’inizio del Seicento. Più avanti, Mattei sposta ancora la conclusione della vicenda verso la fine del Settecento, quando la «tenaglia ai danni del comune si chiude interamente, divenendo ideologia dominante del capitalismo e della modernità». Ora, è già assai improbo prendere sul serio una ricostruzione storica che spalma la distruzione dei Beni comuni su otto secoli circa, tanto più che la partita sembra giocarsi esclusivamente sulla privatizzazione della terra e dei suoi prodotti comunitari. Ma ci sono altri due aspetti ancor più impresentabili in questa fantasiosa filosofia della Storia. Il primo riguarda la tesi sconcertante che il Medioevo fosse una sorta di idilliaco regno dei Beni comuni, di cui Mattei esalta il presunto, solidale collettivismo, in una descrizione della realtà storica romanzata che oscilla tra il bucolico e il reazionario.

« Gran parte della resistenza alla modernizzazione e all’assolutismo statuale fu condotta in difesa dei beni comuni che nell’ordine giuridico medioevale costituivano non solo un’importantissima base di sostentamento dei ceti contadini e artigiani, ma anche un sistema politico partecipato e legittimo di autogoverno delle popolazioni…Il mondo medioevale europeo appariva caratterizzato da un sistema sociale pluralistico e a potere diffuso, in cui operavano, al di fuori dei rapporto gerarchici, diversi protagonisti politici…La dimensione relazionale  dell’”essere” insieme era largamente dominante rispetto a quella materiale dell’”avere”, anche perché la produzione di beni privati era molto limitata sul piano tecnologico…La vita sembrava svolgersi in una dimensione che potremmo definire, senza alcun romanticismo, come ecologica e qualitativa. Ecologica perché organizzata intorno ad una struttura comunitaria in equilibrio, in cui il tutto (la comunità) non si riduce all’aggregato delle sue parti (gli individui), ma presenta tratti che ricevono senso proprio dalla capacità di soddisfare esigenze comuni…Il contadino si relaziona rispetto al campo come rispetto ad una realtà viva con cui stabilire un rapporto ecologico. La società contadina è fondata su un’intelligenza generale che è parte tanto dell’essere che dell’avere…La modernità nasce con la distruzione del comune e con la sostituzione universale del paradigma dell’avere a quello dell’essere. Insieme al comune, muore anche l’intelletto generale, quello che presiede ad un’organizzazione ecologica e sostenibile della società (pp.25-27-28-30-32)».

Nel tentativo di costruire un inverosimile parallelo storico, Mattei ci racconta un Medioevo di sua invenzione, «profondamente pluralista e policentrico..con un gran numero di fonti di diritto non gerarchiche», fatto «di mediazioni e di diritto prodotto e applicato dal basso», tenacemente resistente contro «l’assolutismo statuale», difensore strenuo dei Beni comuni e dotato di «un sistema politico partecipato e legittimo di autogoverno delle popolazioni», inserito a sua volta in «un sistema sociale pluralistico e a potere diffuso». Insomma, un’Età dell’oro. E l’elegia include anche le grandi categorie dell’esistenza, ontologiche e antropologiche, come quando il nostro neo-medioevalista arriva a sostenere, con la più sfacciata temerarietà, che nel Medioevo «la dimensione relazionale dell’”essere” era largamente dominante rispetto a quella dell’”avere”» e che la vita vi si svolgeva «in una dimensione ecologica e qualitativa..intorno ad una struttura comunitaria in equilibrio con le sue parti» e addirittura «fondata su un’intelligenza generale, parte tanto dell’essere che dell’avere». Cosicché, con la recinzione delle terre, sarebbe avvenuta, all’interno delle società europee, «la sostituzione universale del paradigma dell’avere a quello dell’essere» e nientedimeno che «la morte dell’intelletto generale». Il raptus affabulatorio diviene in queste parti del testo così frenetico da introdurre nella realtà odierna trovate sconcertanti come quella riguardante l’Africa, laddove Mattei cerca di dimostrare che i Beni comuni sparirebbero laddove le istituzioni statali sono forti, mentre fiorirebbero ove lo Stato è debole:

«A scopo esemplificativo, sarà sufficiente identificare due poli estremi, l’uno nella metropoli statunitense, dove non vi è alcun luogo sottratto alla tenaglia “proprietà privata-autorità ufficiale”, l’altro nel villaggio africano, dove proprietà privata e disciplina dello Stato sono del tutto residuali, a fronte di un’organizzazione giuridico-politica fondata sui beni comuni. Infatti, la teoria dello Stato coloniale, tanto assoluta quanto quella dello Stato metropolitano – e anzi, ancor più assoluta – non ha storicamente avuto la forza, in Africa, di organizzare una prassi ad essa coerente, e di ciò hanno beneficiato fino ad oggi i beni comuni (p.12)».

Insomma, il continente più travagliato del pianeta – quello ove le vere realtà universali sono non già i Beni comuni ma i mali comuni, e cioè la miseria estrema, la fame e le stragi provocate, oltre che dalla guerra, anche da malattie curabili – sarebbe una sorta di Bengodi dei Beni comuni, grazie ad una fantomatica «organizzazione giuridico-politica» di stampo benicomunista. Dopodiché, non ha avuto vita difficile Vitale nel ridicolizzare la trama fantasy del vecchio e nuovo Medioevo.

«Non si rivendica la pubblicità di alcuni beni fondamentali: se ne rivendica la gestione come “comune”, sul modello di una presunta auto-organizzazione che avrebbe gestito, all’interno di una comunità di pari, prati, boschi, foreste di un Medioevo immaginario…L’ideologia benecomunista di Mattei sembra non sapere o non voler riconoscere quanto dolore si annidasse in quelle vite di servi della gleba, quanta fame e carestie, quanta sottomissione a pratiche comunitarie orribili e discriminatorie nei confronti dei soggetti più deboli ed indifesi, o a forme di quella religiosità superstiziosa che ancora oggi produce morte e sopraffazione dell’uomo sull’uomo, pur non venendo da forme di dominio capitalistico. La violenza e la brutalità purtroppo precedono il capitalismo, ma Mattei pare aver dimenticato la dura lezione di Hegel sulla storia come bancone da macellaio…La vita nei campi non era affatto allegra: era dura, impastata di una rassegnazione alla morte precoce, compresa quella dei propri figli appena nati o in tenera età»19

Vitale contesta anche la mitizzazione, in negativo, delle enclosures e il loro uso «come concetto “passepartout”, che pretende di spiegare tutto e alla fine non spiega nulla», riportando valutazioni del tutto opposte di altri studiosi, che ridimensionano drasticamente sia il carattere di Beni comuni degli open fields prima delle recinzioni, sia i presunti effetti disastrosi successivi sull’agricoltura.

«Nel caso dell’”open field village” la presenza di aree di proprietà comune è complemento necessario per un sistema agro-pastorale che al contempo garantisce ai proprietari o ai gestori dei terreni privati la minimizzazione degli investimenti e dei rischi specifici associati alla forte variabilità dei raccolti…Come hanno dimostrato Shaw-Taylor e Winchester per l’Inghilterra, Vivier per la Francia, Warde per la Germania sud-occidentale e De Moor per le Fiandre, il bene comune non era in molti casi tanto comune, in quanto i diritti consuetudinari di sfruttamento del bene, specialmente quelli più importanti economicamente, costituivano appannaggio di una ristretta cerchia di privilegiati, tipicamente proprietari terrieri abbienti. Ad esempio, Shaw-Taylor dimostra che solo un 15% dei lavoratori agricoli dei 10 villaggi (in 4 contee del sud dell’Inghilterra) da lui studiati avesse diritto di pascolo- il più importante in termini di sussistenza – sui “commons” degli insediamenti…Sono studi che non solo rigettano le vecchie tesi di proletarizzazione del contado ad opera delle “enclosures” (come suggerisce Shaw-Taylor, il carattere largamente proletario dei contadini era largamente affermato ben prima delle “Parliamentary Enclosures”) ma anche confermano la chiara e definita delimitazione della comunità degli aventi diritto»20.

Questi ed altri autorevoli studi smentiscono non solo l’idilliaco quadro di un Medioevo dove i campi, i boschi, le foreste sarebbero stati Beni comuni a disposizione di tutti, ma anche l’effetto catastrofico delle enclosures, avanzando invece «tesi secondo le quali la produzione agricola aumentò sensibilmente con la fine degli “open fields”; e questo risultato, certo attraverso molti passaggi dolorosi, aprì la via alla possibilità per tutti di vivere una vita meno brutale, senza essere falcidiati dalla fame e dalle malattie»21. Come ad esempio sostiene Karl Polanyi22:

«La terra recintata valeva il doppio o tre volte tanto quella non recintata. Là dove la coltivazione fu continuata, le possibilità di lavoro non diminuirono e le disponibilità alimentari aumentarono notevolmente. La produzione della terra aumentò nettamente specialmente là dove venne affittata. Anche la conversione del terreno arabile in pascolo non risultò completamente a detrimento della popolazione locale nonostante la distruzione delle abitazioni e la diminuzione del lavoro che implicava. Dalla seconda metà del XV secolo l’artigianato si diffondeva e un secolo più tardi cominciava ad essere elemento caratteristico della campagna. La lana prodotta dagli allevamenti dava impiego ai piccoli fittavoli e agli artigiani cacciati dal lavoro nei campi e i nuovi centri dell’industria laniera assicuravano un reddito a molti artigiani»23.

Insomma, come annota Vitale, «anche per Polanyi, come in fondo per Marx, le “enclosures” furono solo un aspetto, e neppure il più importante, di una valanga di sconvolgimenti sociali che si abbatté sull’Inghilterra tra la fine del medioevo e gli inizi della rivoluzione industriale»24. Ma al di là dell’effettivo peso delle recinzioni sulle grandi trasformazioni sociali in Inghilterra e in Europa, è davvero incomprensibile l’enfasi e la centralità attribuite da Mattei al fenomeno, su cui viene costruita un’intera filosofia della storia e dei Beni comuni, coinvolgendovi con notevole superficialità giganteschi processi del pensiero europeo, come l’Illuminismo, e rilevanti pensatori trascinati in un conflitto da stadio tra ultras pro o anti Beni comuni.

«A seguito delle recinzioni, per un fenomeno centrale allo sviluppo della coscienza della modernità, i beni comuni sono stati espulsi, cancellati come categoria politico-culturale dotata di una qualunque dignità costituzionale…La stessa modernità nasce con quel fenomeno di mercificazione violenta dei beni comuni (soprattutto della terra viva: Gaia) che trova nelle “enclosures” inglesi e nella conquista (delle Americhe) i suoi momenti fondativi. Nella cultura politica dell’Illuminismo i beni comuni sono esclusi dal novero delle categorie politiche e giuridiche rispettabili e vengono relegati a luoghi del pre-moderno, del selvaggio e del medioevale»25.

Pre-moderno, “selvaggio” e medioevale che invece avrebbero consentito una vita elegiaca a «molte popolazioni nel mondo, capaci di vivere per secoli in mirabile equilibrio ecologico con la natura, essendo dotate di quell’intelligenza comune che l’individualismo possessivo della modernità ha delegittimato ed eroso progressivamente…Laddove l’illuminismo si è legittimato convincendo l’umanità di averla svegliata dal sonno e dalla superstizione medioevale, oggi il riconoscimento dei beni comuni (su cui si fondava in gran parte la vita medioevale) può aiutarci ad aprire gli occhi rispetto alla superstizione tecnologica prodotta dal delirio di onnipotenza della modernità illuminista che ancora ottenebra le nostre menti di consumatori (pp.51-52)».

Insomma, un quadro paradisiaco malgrado la grande maggioranza di tali popolazioni abbia pagato nei secoli il «mirabile equilibrio ecologico» con fame atavica e diffusa, con povertà endemica, falcidiata da malattie e pestilenze in continuazione, priva di istruzione e cure sanitarie, sottomessa a poteri politici, militari e religiosi ancora più oligarchici, indiscutibili e feroci degli attuali, e last but not least, nell’arco di una vita media che non superava la metà di quella attuale. Oltre alla sfrontata mitizzazione di tale passato, appare altrettanto sbalorditiva la totale identificazione dei Beni comuni con la “terra viva”, con una Gaia mistica26, madre e contenitrice di tutti i “comuni”. Ora, se può essere discutibile il ruolo dei “campi liberi” e delle recinzioni, è del tutto incontestabile che la stragrande maggioranza di quelli che oggi vengono diffusamente considerati Beni comuni non erano neanche vagamente considerati tali non solo durante il Medioevo ma anche nei primi due secoli di capitalismo conclamato, facendo per lo più capolino nel senso comune solo nel Novecento e, fino al secondo dopoguerra, solo nell’Occidente sviluppato. Prima, in gran parte del mondo l’idea, ad esempio, che l’istruzione e la scuola, la salute e la cura sanitaria potessero essere considerati Beni comuni a disposizione di tutti gli individui di ogni collocazione sociale era pura fantascienza. Nel Medioevo, poi, nessun diritto all’istruzione o alla salute/cura sanitaria pubbliche ha mai riguardato la grande maggioranza di quell’umanità. E lo stesso si può, a maggior ragione, dire per i trasporti o l’energia, l’informazione o la cultura in genere: tutti questi aspetti del “comune” sono di recente acquisizione, e se oggi siamo massimamente impegnati perché si affermino incontestabilmente come tali è perché le porte aperte nel Novecento per la loro collettivizzazione e socializzazione rischiano di richiudersi.

Appare dunque sorprendente come Mattei cancelli il ruolo che il pubblico ha avuto nell’estensione dei diritti collettivi e dei Beni comuni, seppure in uno scontro permanente tra statalizzazione burocratica e tentativi di reale socializzazione di beni e diritti. Poiché tale cancellazione appare clamorosa, l’intera operazione mi sembra, come tutta la proposta di una proprietà “terza”, una fantasiosa fuga dalla ricerca delle vie per la socializzazione pubblica dei Beni comuni mediante forme innovative di democrazia partecipata. Non che Mattei ignori del tutto il problema della gestione democratica della cosa pubblica e dei Beni comuni:

«I beni comuni sono la base della democrazia partecipativa autentica, fondata sull’impegno e sulla responsabilità di ciascuno nel raggiungimento dell’interesse di lungo periodo di tutti. Considerare l’acqua come bene comune – o la scuola o la rendita fondiaria o l’informazione – significa innanzitutto creare una barriera politica alta contro ulteriori processi di privatizzazione. Allo stesso tempo, non significa affatto trasferire la gestione di questi beni comuni a strutture dello Stato o di enti locali legittimate dalla delega della rappresentanza politica generale e dal principio burocratico. Significa, viceversa, studiare ed elaborare strutture di governo partecipato e autenticamente democratico, capaci di attrarre gli amministratori più motivati, incentivarne il perseguimento di una logica transnazionale e transgenerazionale, quale quella ecologica, e controllarne l’operato esercitando il diritto fondamentale all’accesso da parte di tutti (pp.60-61)».

Ma invece di chiarire quali dovrebbero essere queste «strutture di governo partecipato e autenticamente democratico», e di precisare quali poteri dovrebbero avere gli “amministratori motivati” per modificare la realtà, Mattei si rifugia di nuovo in un mondo fatto di comunità pacificate e di una Nuova Umanità che sacrifica ogni esigenza individuale in un afflato collettivo.

«Si va imponendo sempre più una visione che vede Gaia (la terra vivente) come una comunità di comunità ecologiche, legate tra loro in una grande rete, un network di relazioni simbiotiche e mutualistiche, in cui ciascun individuo non può che esistere nel quadro di rapporti e relazioni diffusi, secondo modelli di reciprocità complessa (p.101)».

Comunità che ricordano pericolosamente l’alveare citayo come modello: «L’alveare non si riduce alla somma algebrica delle api, ma comprende anche le relazioni tra le diverse componenti (operaie, guardiane, regina), quelle tra il gruppo e i suoi beni (nido) e prodotti (miele) (p.28)».

Al di là della nebulosità di questa «grande rete di relazioni simbiotiche» e del linguaggio mistico-esoterico (la Terra/Gaia come Grande Madre dell’umanità), Mattei sembra davvero pensare ad un alveare umano, dove la persona e le sue esigenze specifiche spariscono, dissolte in una comunità simbiotica, mediante un’auto-procurata eutanasia dei diritti individuali e delle libertà personali.

«Prima vengono gli interessi di tutti (umani e non), concepiti come un ecosistema di relazioni di reciproca dipendenza, e solo successivamente gli interessi individuali. Poiché gli individui non sono concepibili come monadi isolate (in natura, l’individuo solo necessariamente soccombe e muore), i beni comuni smascherano gli assunti irrealistici dell’individualismo borghese. Il loro riconoscimento promuove la costruzione di un immaginario comune in cui la libertà individuale va considerata come parte del mondo dell’essere, consistente nella facoltà di accedere e godere dei beni comuni e delle relazioni sociali comunitarie e politiche che essi rendono possibile (p.49)».

In realtà, dietro i misticismi, le comunità simbiotiche, le esaltazioni dell’Essere contro l’Avere e la pretesa di decidere per tutti/e cosa sia il vero Essere e cosa l’indegno Avere, quali i comportamenti virtuosi e quali i “brutali appetiti dell’avere”, dietro il sogno, facilmente mutabile in incubo, della fine del conflitto tra il singolo e la collettività e tra i diversi gruppi sociali si cela invariabilmente la pulsione autoritaria e impositiva. Come sottolinea seccamente Vitale: «Se ci si attesta sulla metafora della comunità ecologica come alveare, allora siamo interamente in una dimensione olistica, organicistica e fortemente gerarchica che è l’esatto contrario di una società fondata sui diritti della persona e del cittadino. L’alveare è il modello di una “comunità naturale” militarmente organizzata»27. Perché di comunità apparentemente solidali e compatte, ma in realtà gerarchiche e militarizzate, dentro le quali i diritti e le libertà individuali venivano annullati a forza, la storia umana ne ha viste un’infinità:

«Il costituzionalismo di matrice illuministica è emendabile dai suoi errori storici – tra i quali quello di considerare sacra la proprietà – senza bisogno di sostituire ad esso pericolose e sinistre visioni olistiche della convivenza sociale. Dietro l’apparenza della comunità di liberi ed eguali, che vivono in spirito di fratellanza e prendono decisioni all’unanimità dopo approfondita discussione, finora si sono manifestate comunità reali spesso innervate dalla gerarchia e dalla sottomissione, dominate dagli “anziani” o dai cacicchi; luoghi in cui, sotto le pretese delle consuetudini, degli usi e dei costumi ancestrali, si consumano pesanti discriminazioni, comunità in cui la commistione tra politica, morale e religione è la regola. Il dissenso turba la concordia che deve regnare nella comunità. E la concordia, la sterilizzazione del conflitto fondato sulla pluralità di interessi e ragioni, è quella imposta dalla aristocrazia interna alla comunità»28.

Una comunità fondata sulla cancellazione dei conflitti tra i singoli e i gruppi sociali non è solo utopica: in genere, ha connotati fortemente reazionari, repressivi, gerarchici. Anche in una società davvero democratica avremo conflitti e differenziazioni, sia nell’intendere cosa siano i Beni comuni sia nelle modalità di gestione e fruizione di essi. Il vero salto di qualità non è l’abolizione del conflitto ma la sua regolazione democratica, non è l’assegnazione dei Beni comuni a non meglio identificate “comunità simbiotiche” ma la loro socializzazione nell’ambito di una proprietà davvero pubblica, in grado cioè di non farsi espropriare dai funzionari del capitale di Stato e dalla classe politica istituzionale. D’altra parte l’unico tentativo concreto di dar vita ad una terza forma di proprietà, né pubblica né privata, in sintonia con un poderoso movimento di difesa dei Beni comuni come quello per l’acqua pubblica, esperito dalla Commissione Rodotà, ha dimostrato platealmente la fragilità di questo terzaforzismo e della via giuridica per sciogliere un così intricato nodo.

«La Commissione Rodotà, istituita nel giugno 2007…incaricata di proporre una legge delega di riforma del terzo libro del Codice civile (riguardante le forme di proprietà) nelle parti relative alla proprietà pubblica, si è immediatamente trovata di fronte al dilemma dei beni comuni. Infatti, anche in quella sede di riforma giuridica ci si è resi conto che l’essenza dei beni comuni non poteva essere colta dal paradigma della proprietà pubblica né da quello della proprietà privata, caratterizzanti il nostro diritto dei beni, poiché entrambi incardinati sull’esclusione e sulla concentrazione del potere nelle mani di un soggetto sovrano, pubblico o privato…Secondo l’impostazione della Commissione, quelli comuni intanto sono beni in quanto siano accessibili a tutti, declinando quindi la logica dell’inclusione, totalmente antagonista a quella classica dell’esclusione…I beni comuni, in quel tentativo di porli in un sistema di diritto civile, vanno collocati fuori commercio e devono essere gestiti con strumenti a vocazione pubblicistica (estranei alla logica del profitto) al fine primario di soddisfare i diritti fondamentali della persona»29.

Solo che sia la Legge delega – di cui, come ricorda Mattei «nessun partito si è fatto realmente sostenitore» – sia la Commissione sono finite nel “cestino” parlamentare, malgrado esse abbiano dato «fondamento teorico e spessore tecnico alla piattaforma politico-culturale del movimento referendario sull’Acqua bene comune, ricevendone significativa forza politica e creando in Italia un innovativo rapporto simbiotico tra cultura accademica (che ha redatto i quesiti referendari e difeso di fronte alla Corte Costituzionale le ragioni dell’Acqua bene comune) e prassi di movimento, coordinato dal Forum dei Movimenti per l’Acqua (p.85)». E quest’ultimo si ritrova, pur dopo la clamorosa vittoria referendaria, a battagliare non solo con i capitalisti privati ma ancor più con il funzionariato politico e di Stato che gestisce privatisticamente il bene pubblico Acqua come tutti gli altri.

Biopolitica, Moltitudine, Comune, secondo Hardt-Negri

Il problema dei problemi resta dunque quali forme di democrazia integrale e partecipata possano garantire la socializzazione reale dei Beni comuni economici, sociali ed ambientali. Problema non affrontato sul serio, però, nemmeno dalla produzione sul tema di Michael Hardt e Antonio Negri, secondo bersaglio polemico del pamphlet di Vitale. Trattare i testi di Negri – seppure negli ultimi anni resi un po’ più concreti dalla collaborazione con Hardt – è compito impervio che avevo finora quasi sempre evitato, se non quando (fu il caso di Impero, e della diffusione delle sue sballate tesi tra molti militanti in una fase delicata per il movimento altermondialista e per la mobilitazione contro la guerra) essi impattavano negativamente sull’attività politica dei movimenti sociali. Ne è consapevole Vitale, così introducendo la critica al volume Comune.Oltre il privato e il pubblico30:

«La dotta narrazione – o forse meglio la commedia – filosofica che imbastiscono gli autori è rutilante e ricchissima: escono ed entrano di continuo una miriade di nomi maggiori e minori. I riferimenti alla storia contemporanea e alle scienze sociali impressionano per la loro vastità ed eterogeneità, al punto che è difficile anche per il lettore che ha ricevuto una formazione filosofica – o forse proprio per questo – vedere una chiara linea di sviluppo dell’argomentazione che viene proposta, insomma l’andare al sodo. Sembra quasi che gli autori si divertano a giocare a rimpiattino col lettore: tutte le volte che gli pare di aver faticosamente afferrato un concetto, ecco che esso viene corretto, ribaltato o dissolto qualche pagina dopo. Questo è anche un modo per avere ragione sempre, per poter dire: “guarda che non hai capito bene”…Non mancano i fiumi di retorica…vi faccio grazia delle frasi “biopolitiche” che a me risultano incomprensibili, siamo insomma dalle parti dei “principi delle tenebre”, per dirla con Bobbio»31.

Non so se lo sconcerto di Vitale di fronte alla spregiudicatezza negriana nel trattare la filosofia come le scienze sociali, l’economia come la politica, può essere confortato da quanto ho scritto in Benicomunismo – riprendendo valutazioni di un decennio precedente – riguardo alle sconcertanti tesi sostenute in Impero32, a proposito del ruolo non-imperialistico degli Usa e, anzi, della bontà imperiale Usa se confrontata con la ferocia dei “vecchi” Stati imperialisti europei: tesi clamorosamente smentite, solo pochi mesi dopo l’uscita del libro, dall’invasione statunitense prima dell’Afghanistan e poi dell’Iraq. Le ripropongo comunque per i nostri attuali lettori/trici.

«“Impero”colpisce per le capacità affabulatorie di Negri, per le sue doti di funambolo e giocoliere delle categorie filosofiche, per la sua abilità nel proporre formule interpretative indipendentemente dalla realtà, che richiama quella dello scrittore di fantascienza che, a partire da dati reali ma esasperati, inventa mondi irreali seppure plausibili; e la fantascienza apre sovente orizzonti di pensiero, divenendo però inutilizzabile o dannosa se presa come base per l’azione politica. Che di un giocoliere del pensiero si tratti, di uno scaltro esponente di quella fantascienza politica che si bea delle proprie costruzioni teoriche disinteressandosi dell’aderenza alla realtà, Negri lo ha confermato nel giro di pochi mesi quando, preso atto che la Storia andava in tutt’altra direzione e la guerra riesplodeva nella sua forma barbara, ha buttato per aria l’intero impianto del suo libro, ancora fresco di stampa, con un’intervista  che usava argomenti persino più scervellati di quelli di “Impero”. Di assolutamente nuovo rispetto all’impianto di ‘Impero’ c’è che la reazione americana all’11 settembre si sta configurando come un colpo di reni contrario e regressivo rispetto alla tendenza imperiale. Una controspinta, un backlash33imperialista dentro e contro l’Impero…Il gruppo andato al potere con Bush è un gruppo reazionario…gente rimasta a lato delle terza rivoluzione industriale e che la guarda con ostilità..La gravità della situazione sta in questa contraddizione gravissima, che ricorda la reazione dei nazionalismi34 al mutamento di scenario degli anni ’30. Può succedere di tutto (A.Negri, intervista al Manifesto, 14 settembre 2002) . Bush che ri-diventa imperialista, i nemici della “terza rivoluzione industriale”, il backlash di “vecchie strutture di potere emarginate” dall’Impero: di nuovo la fantasia sfrenata, nessun riscontro concreto, un’incontrollata inventiva per nulla preoccupata di una qualche coerenza e logica»35.

Le doti di «funambolo delle categorie filosofiche» si confermano  anche in Comune – l’ultimo scritto del duo Hardt-Negri (del 2010) che sembra chiudere la trilogia iniziata con Impero e proseguita con Moltitudine36– insieme con l’amore per (e la fuga in) quelle che l’autore stesso chiama astrazioni concettuali, cioè metacategorie onnicomprensive, fascinose al primo ascolto ma sfuggenti e indefinite nel concreto, inafferrabili e contraddittorie, tanto apodittiche quanto camaleontiche. Resta anche in Comune  quella vena science fiction o fantasy, che estremizza alcune trasformazioni sociali e politiche assolutizzandole in mutamenti epocali e inventa categorie della realtà socio-politica, presentate come realtà assoluta, univoca e globalmente nuovista. Il tutto condito da uno sfoggio di erudizione filosofica e letteraria che sembra avere lo scopo di épater le bourgeois, di affabulare il lettore, nonché, grazie ad un profluvio di citazioni e di rimandi internazionali tra cattedre universitarie, di agevolare la diffusione mondiale dell’opera. Infine, qua e là, la prosa, soprattutto quando maneggiare la concretezza diventa arduo, cede il posto alla poesia, anzi alla lirica, al sogno: e qualche volta, per dirla brutalmente, anche ad un colto cazzeggio, a trovate surreali rese potabili solo dal linguaggio delle citazioni annesse.

Tutto questo caratterizza lo stile di Negri anche in Comune. Ma ad onor del vero, la stretta collaborazione con Michael Hardt alla lunga alcuni frutti positivi li ha dati, ben più visibili qui che non in Impero o Moltitudine. Innanzitutto, Hardt ha portato, rispetto agli scritti precdenti di Negri rimasti per lo più chiusi nel recinto italico, un respiro internazionale, grazie agli innumerevoli riferimenti a vicende, conflitti, retaggi e richiami storici di quei tre quarti del globo non inclusi nell’Occidente e sovente ignorati al di fuori della letteratura e saggistica terzomondista. Tali richiami, ben distribuiti, attraggono il lettore/trice internazionale, anche laddove si alternino alle fantasiose astrazioni negriane. Hardt, pur senza impedire i voli verso l’Iperuranio del suo sodale, qua e là riesce a contemperarli con brani di trattazione politica e sociale con i piedi piantati a terra e sovente condivisibili nello specifico, malgrado gli assai improbabili punti di approdo generali. Al punto che Comune mi sembra meritare una trattazione meno drastica di quella che riservai ad Impero una decina di anni fa, ma anche rispetto allo scritto di Vitale che liquida gli autori in poche note: troppo poche se si fa poi il confronto con l’attenzione dedicata a Mattei, le cui tesi sono più povere, improvvisate e male argomentate rispetto a quelle del duo “moltitudinario”. Cercherò dunque di separare anche qui il grano dalla pula37, non scartando gli spunti di analisi accettabili. La trattazione di Comune segue più o meno la seguente “scaletta”.

1) Il punto di partenza del libro è la dimostrazione, attraverso un lungo excursus storico e filosofico, del fatto che la Repubblica è «dalle grandi rivoluzioni borghesi fino ai giorni nostri, una repubblica della proprietà. Il concetto di proprietà e la sua difesa si confermano come il fondamento di tutte le Costituzioni politiche moderne…Primordiale necessità della società borghese è il diritto di proprietà in quanto fondamento della repubblica. Il diritto di proprietà non è un’eccezione, ma una precondizione assolutamente necessaria per l’esistenza della repubblica»38. Dunque, non si esce dal dominio della proprietà privata (e statale) se non uscendo dalle attuali forme repubblicane.

2) Il cuore di questo possibile superamento risiederebbe nelle trasformazioni della produzione capitalistica e delle forze-lavoro indotte dallo strabordare della produzione immateriale e biopolitica. Il concetto di biopolitica, come quello di biopotere, è ripreso dichiaratamente dai lavori di Foucault39. Per quest’ultimo, la biopolitica è l’insieme delle leggi, regole, norme e pratiche che un potere statale (e in genere un potere) stabilisce ed applica per gestire e controllare, sorvegliando e punendo, la vita biologica dei cittadini/e. Il potere esercitato, biopotere appunto, è stato però analizzato da Foucault per lo più in ambiti extra-produttivi, tralasciando fabbriche, uffici e altri luoghi del lavoro, e concentrando l’attenzione soprattutto sui luoghi di maggior costrizione, sorveglianza e punizione, come il carcere, l’ospedale, il manicomio, la caserma e su tematiche universali come la malattia, la sessualità, la riproduzione, la morte. Ma mentre Foucault aveva dedicato la massima attenzione all’incidenza di quei poteri sulla vita degli individui, Hardt-Negri leggono la biopolitica decidendo «di adottare una distinzione terminologica, suggerita da Foucault ma che egli non utilizza con sistematicità, quella tra biopotere e biopolitica. Il primo può essere sommariamente definito come il potere sulla vita, il secondo come il potere della vita che resiste e determina una produzione di soggettività alternativa al biopotere»40.

Dunque, biopolitica come politica degli umani che resistono al biopotere, che vi contrappongono altre forme di vita e di produzione, di organizzazione sociale, di soggettività conflittuali e antagonistiche. Ma la portata esplosiva della biopolitica riguarda, secondo i due autori, soprattutto le trasformazioni indotte nella produzione perché oramai «il lavoro vivo produttivo di beni immateriali, proprio come il lavoro cognitivo e il lavoro intellettuale, eccede sistematicamente i vincoli che gli sono imposti…e quando la produzione immateriale diventa egemone, tutti gli elementi del processo capitalistico devono essere considerati in una nuova luce, talvolta in termini completamente rovesciati rispetto ai discorsi canonici del materialismo storico…Le forme della produzione capitalistica consistono sempre più nelle relazioni sociali e nelle forme di vita. La produzione capitalistica, in altre parole, sta diventando biopolitica»41. E in quanto tale, essa non riuscirebbe più né a controllare davvero né ad integrare le forze-lavoro, che tenderebbero a fuoriuscire dagli schemi capitalistici, avviando un esodo (must del pensiero negriano) produttivo, sociale e politico, base di un possibile processo rivoluzionario di superamento del capitalismo.

3) Protagonista della biopolitica e dell’esodo dalla produzione capitalistica è per Hardt-Negri, che hanno introdotto da tempo questo termine, la moltitudine, categoria che i due riprendono da Spinoza, da decenni nume tutelare di Negri, che da esso, come da una cornucopia, estrae in continuazione spunti, tesi, definizioni e soggetti, e che anche in Comune fa la parte del leone, seppur in coabitazione con Foucault e con un Kant minore che, in fantasioso contrasto con un Kant maggiore difensore della proprietà, «non solo osa conoscere ma vuole sapere come osare»42. Nello schema teorico di Comune, la moltitudine occupa più o meno la stessa centralità che la classe operaia ha avuto per Marx e per il comunismo novecentesco. Solo che, mentre il Marx politico descriveva la classe operaia come un unicum in via di omogeneizzazione compatta e anti-sistema, trascurando la realtà di forze-lavoro spesso conflittuali tra di loro, qui non prevale l’omogeneità ma piuttosto l’indeterminatezza, la nebulosità e la contraddittorietà del soggetto stesso.

Hardt-Negri partono dalla corretta constatazione dell’inesistenza di un unico soggetto anticapitalista che possa trascinare gli altri ed egemonizzarli, e dalla pluralità dei possibili protagonisti della trasformazione. Ma, nell’ansia dell’usuale ricerca della astrazione concettuale che si imprima nelle menti come una realtà oggettiva, spingono all’eccesso questo buon punto di partenza, offrendo della moltitudine un caleidoscopio di facce diverse e contrastanti. In alcuni passaggi sembra che il duo voglia riferirsi ai poveri o comunque a tutti coloro che, pur interni alla produzione, in genere io definisco i senza potere e senza proprietà: «La povertà della moltitudine non va intesa come uno stato di miseria o di privazione, e neppure come una specie di mancanza, ma denota la produzione di un genere di soggettività che si afferma in un corpo politico plurale ed aperto, opposto sia all’individualismo sia all’unitario ed esclusivo corpo sociale dei proprietari (p.51)». Ma già poche righe dopo la moltitudine si caratterizza per la “mancanza di confini” e dunque può comprendere quasi tutta la popolazione: «Gli elementi originari per comprendere la relazione costitutiva tra moltitudine e povertà sono stati fissati nel corso delle lotte politiche nell’Inghilterra del Seicento. Con il termine “moltitudine” si indicava la compagine costituente il corpo politico a prescindere dallo status e dalla proprietà. Se da un lato questa definizione era indicativa degli strati più bassi della società e dei senza proprietà, dall’altro denotava un corpo sociale aperto ed inclusivo, caratterizzato dalla mancanza di confini e dal suo essere una formazione “in progress” e mista in cui confluiscono i gruppi e gli ordini sociali più diversi (p.51)». Cosicché, non solo spariscono le differenze di classe e di ceto, ma persino quelle tra ricchi e poveri, tra proprietari e senza proprietà, e la moltitudine diviene un gigantesco e indistinto calderone dove si mescola quasi l’intera umanità, finendo per apparire l’equivalente colto delle mille facce della ggente (si direbbe a Roma).

4) Il quadro generale in cui si inserirebbero le azioni dirompenti della biopolitica e della moltitudine è quello di una nuova epoca, l’altermodernità, che uscirebbe dalla falsa alternativa tra la modernità capitalistica, fondata sulla proprietà privata o di Stato, e l’antimodernità di una opposizione di pura resistenza. Hardt e Negri vanno alla ricerca, in giro per il mondo, di questa altermodernità, che in molti passaggi appare sovrapponibile a quello che abbiamo chiamato altermondialismo, e che in tale veste rappresenta effettivamente un cambio di strategia di trasformazione, di modalità di costruzione dei soggetti politici e delle alleanze anticapitaliste. Hardt-Negri tracciano una stretta connessione tra l’altermondialismo (soprattutto quello manifestatosi in America Latina nell’ultimo ventennio e nell’intreccio tra movimenti, governi, Forum sociali mondiali) e altermodernità:

«Quando tra la fine degli anni Novanta e i primi anni del nuovo millennio si moltiplicarono le manifestazioni di protesta in Europa e in Nord America in occasione degli incontri tra i leader mondiali, i media si affrettarono a definirle “antiglobaliste”. I militanti e i partecipanti alle manifestazioni non erano a loro agio in questa definizione dato che, pur contestando l’ordine costituito dalla globalizzazione, non si opponevano alla globalizzazione in quanto tale. Le proposte che avanzavano avevano come oggetto forme alternative ma pur sempre globali, sostenute da una rete globale di comunicazione. Il nome che fu coniato, al posto di “antiglobalista”, fu quello di “alterglobalista” o “altermondialista”. Questa correzione è indicativa di una linea di fuga che sfugge alla rivalità simmetrica degli opposti e sposta l’accento dalla resistenza all’alternativa. Un analogo spostamento ci permette di dislocare il terreno di discussione intorno a modernità ed antimodernita. L’”altermodernità” è in conflitto con la modernità come l’antimodernità, ma indirizza nettamente le forze verso una prospettiva di autonomia (p.108)».

Al di là dell’ambivalenza linguistica e del consueto gigantismo dei termini impiegati per definire un’intera epoca storica, in questa parte vi sono spunti condivisibili sulle novità sociali e politiche indotte dai nuovi movimenti, con epicentro in America Latina. Ad esempio, quando si sottolineano le modalità di costruzione dei nuovi movimenti sociali in quel continente ma anche gli insegnamenti sulle alleanze nei processi di resistenza anticapitalista e di trasformazione dell’esistente. Dalla lotta del 2000 a Cochabamba  per l’acqua come Bene comune a quelle per il controllo sociale del gas naturale nella regione di El Alto nel 2003, una mobilitazione popolare ininterrotta è riuscita «ad articolare tra loro una grande varietà di rivendicazioni economiche e sociali in una rete organizzativa orizzontale…Questo cambiamento non era tuttavia indicativo di un tramonto della classe operaia e neppure di un declino della lotta di classe ma di una crescita della complessità del proletariato e di una nuova fisionomia delle lotte (pp.113-116)».

5) Biopolitica e moltitudine, esodo e altermodernità convergono – secondo i due autori –  verso il comune. Attenzione: non verso una società dei Beni comuni, che anzi questi ultimi non vengono  identificati in una trattazione organica su cosa siano qui ed oggi, se vadano costituzionalizzati o più direttamente conquistati e socializzati tramite la lotta, se siano una realtà storica e storicizzabile, e quindi mutevole, o un terreno assoluto e a-storico di riconoscimento dei diritti umani universali. Il concetto di comune di Hardt-Negri è l’astrazione più astratta dell’intero libro, una specie di pan-categoria, al contempo la più assolutistica e la più sfuggente. A momenti essa sembra riguardare tutto ciò che è vita in comune; altre volte diventa addirittura la rappresentazione dell’intero esistente che ci circonda, della natura e della vita universale in cui siamo immersi. Ad esempio:

«Le ricerche sulla plasticità e mutabilità della natura hanno direttamente e immediatamente a che fare con il tema del comune, dato che la natura non è altro in fondo che un sinonimo del comune…Mentre in una prima accezione il termine è inteso come il mondo naturale che si trova al di fuori della società, l’accezione biopolitica del comune permea tutte le dimensioni della vita; essa cioè non chiama in causa soltanto l’aria, l’acqua, gli elementi, la flora, la fauna e la vita animale, ma anche gli elementi costitutivi della socialità umana, le lingue, i costumi, i gesti, gli affetti (p.176)». O ancora: «Il comune di cui si sta parlando non è soltanto la terra che condividiamo, ma anche il linguaggio che creiamo, le pratiche sociali che costituiamo, le forme della socialità che definiscono i nostri rapporti e così via (p.145)».

Dunque, il comune includerebbe qualsiasi cosa metta in relazione gli umani, ogni materialità o spiritualità compartecipata, terra, natura, lingua, idee, sentimenti. Ma il comune è anche l’intera metropoli, anzi tutte le metropoli perché, «la metropoli è la fabbrica in cui si produce il comune… è la sede della produzione biopolitica in quanto è lo spazio del comune, della vita in comune, della condivisione delle risorse, dei beni di scambio e delle idee. Il comune che costituisce la base della produzione biopolitica non è tanto la natura comune degli elementi materiali come la terra, i minerali, l’acqua e il gas, bensì una sfera artificiale che comprende i linguaggi, le immagini, i saperi, gli affetti, i codici, i costumi e le pratiche (p.252-3)». La metropoli sarebbe la fonte vera, più della terra e della natura, della produzione: e il comune diverrebbe la vita in comune, ingigantendo ulteriormente l’inconsistenza del concetto, tanto più evanescente quanto più onnicomprenso.

6) Secondo Hardt-Negri i poteri che si contrappongono alla produzione biopolitica e che impediscono l’instaurazione di una società fondata sul “comune” sono in prima battuta quelli della «repubblica della proprietà», nel senso di proprietà privata e “pubblica”, laddove i due autori considerano il pubblico irredimibile dallo Stato e dalla gestione dei suoi funzionari, e dunque  irrecuperabile per una vera socializzazione, realizzabile solo con una terza forma di proprietà.

«L’alternativa tra pubblico e privato è simmetrica all’alternativa, altrettanto politicamente perniciosa, tra capitalismo e socialismo…Il socialismo e il capitalismo sono entrambi dei regimi della proprietà che escludono il comune. Il progetto politico di istituzione del comune, proprio perché taglia trasversalmente queste false alternative – né privato né pubblico, quindi né capitalista ma neppure socialista – apre un nuovo spazio per la politica (p.9)…Che il comune sia espropriato e il suo valore sia recintato in mani private o pubbliche, e cioè sotto il comando capitalistico o il controllo governamentale, il risultato è lo stesso: il ciclo della produzione biopolitica è stentato e corrotto (p.272)…La produzione biopolitica appartiene al comune. Né il pubblico né il privato possono gestirla né contenerla (p.274)».

Se dunque sul piano locale i poteri e le proprietà del capitalismo privato e di Stato sono considerati egualmente perniciosi, sul piano planetario la definizione del potere appare più intricata e incerta. Nel decennio intercorso tra la pubblicazione di Impero (nel 2000 negli Usa e all’inizio del 2002 in Italia) e quella di Comune, Hardt e Negri hanno dovuto metabolizzare – e cercare di giustificare – la clamorosa sconfessione delle loro tesi su un Impero buono oramai instaurato a livello globale, a dominanza statunitense e procedente non con le classiche armi dell’aggressione e del dominio militare o dell’egemonia economica e finanziaria, ma con la cooptazione politica e il progressivo assorbimento di tutte le singolarità, devianze e ostilità, grazie all’esercizio sapiente e multilaterale di un «biopotere molecolare e relazionale», incarnato dalla presidenza Clinton. L’anno successivo alla pubblicazione del volume negli Usa esplodevano le Twin Towers e gli Stati Uniti, trascinandosi dietro un manipolo di alleati, invadevano, con i più classici meccanismi imperialistici, prima l’Afghanistan e poi l’Iraq, dando vita a due “tradizionali” sporche guerre (altro che Impero “buono) che continuano tuttora a insanguinare e immiserire l’intera area. Come ho già ricordato, la prima pezza che i due autori cercarono di mettere nel vestito lacerato di Impero fu peggiore del buco: Negri si inventò la teoria del backlash, cioè di un’estrema e violenta reazione, «un colpo di reni contrario e regressivo rispetto alla tendenza imperiale, un backlash imperialista dentro e contro l’Impero» provocato da «vecchie strutture di potere, in controtendenza rispetto ai caratteri del biopotere imperiale, dal gruppo reazionario al potere con Bush»43. Negli anni successivi poi, Negri è giunto ad una conclusione ancora più fantasmagorica, sostenendo la tesi di un colpo di Stato negli Usa. Tale tesi si ripresenta anche in Comune, ma con un ruolo marginale perché, secondo i due autori, il “colpo di Stato” è  fallito e il cammino dell’Impero è ripreso dopo un «prolungato detour di un decennio attraverso le riesumate avventure dell’imperialismo (p.209)».

«Il tentativo di creare un ordine unilaterale dominato dagli Stati Uniti è stato un colpo di Stato all’interno del sistema globale, e cioè un drammatico atto di insubordinazione di tutti i poteri “aristocratici” dell’ordine imperiale che si stava affermando.. nel tentativo di concentrare i poteri dell’ordine globale nelle mani degli Stati Uniti (pp.209-210)… (Ma) il tentativo di imporre un controllo unilaterale da parte degli Stati Uniti sul mondo globale è definitivamente abortito…La crisi economica e finanziaria ha fatto naufragare definitivamente i sogni di gloria dell’imperialismo Usa. Alla fine del primo decennio del XXI secolo, il fallimento militare, politico ed economico dell’unilateralismo è sotto gli occhi di tutti. Non rimane altra scelta che confrontarsi con la formazione dell’Impero (pp.207-208-213)».

Il tentativo surreale – da Spiderman della geopolitica, arrampicati sugli scivolosi specchi di un guerra permanente che ha dimostrato l’inesistenza di un Impero “buono” – di narrare le pesanti sconfitte dell’imperialismo Usa in termini di fallimenti golpisti, nelle pagine di Comune passa però in secondo piano rispetto al tentativo di ri-presentare, in nuove vesti, il cosiddetto Impero – a volte descritto come già costituito, altre volte in via di formazione e sovente mutato in una generica governance imperiale – fondato su equilibri di poteri che, a parte l’uso deviante dei termini impero e imperiale, corrisponde assai più alla realtà geopolitica globale di quanto facessero i precedenti tentativi analitici. Usando anche gli scritti di Saskia Sassen44, così viene delineato il mix di strutture nazionali e sovranazionali, statali ed extrastatali che costituirebbero la governance mondiale:

«Saskia Sassen ci mostra che gli Stati nazionali e il sistema di rapporti tra Stati sono edifici che rimangono ancora in piedi ma non sono più i soli e sono profondamente trasformati, e in che misura le condizioni dell’ordine globale sono cambiate al punto che né gli Stati Uniti né nessun altro pretendente al trono possono esercitare un controllo unilaterale per portare avanti con successo dei progetti imperialistici. D’altro canto, nessuna struttura interstatale è oggi in grado di governare e di regolare l’ordine globale. Gli assemblaggi che Sassen ritiene siano al governo di tale ordine sono costituiti da un mix di istituzioni e autorità nazionali, sovranazionali ed extranazionali (p.227)».

In questo quadro che fotografa correttamente l’attuale realtà geopolitica mondiale, la cosiddetta governance (traducibile forse con il neologismo governamentalità) assume un significato più articolato di quello di un semplice governo statale:

«Un’ampia e variegata schiera di studiosi impiegano il termine “governance”per definire la novità di queste autorità e di questi assemblaggi che si stanno formando all’interno e all’esterno degli Stati. Il termine “governance globale” è normalmente impiegato per indicare le strutture che producono e applicano le norme…concependo l’ordine globale come un sistema ibrido che comprende lo Stato, le imprese e altre potenti organizzazioni…La “governance globale” è irriducibile ad una gestione fondata sull’unità del comando e della legittimazione derivanti da un unico centro di potere. Si tratta di un’orchestrazione di strumenti per la pianificazione e il coordinamento consensuali in cui una molteplicità di soggetti, statuali e non, lavorano di concerto. Nella dimensione globale il processo della decisione politica può svolgersi solo mediante l’intesa tra questi attori. Oggi l’ordine globale è definito da norme eterogenee, statuti e leggi che sottendono un insieme eterogeneo di istanze e poteri (pp.228-229-230)».

Nell’insieme, è una lettura della dislocazione dei poteri mondiali condivisibile, pur restando io convinto della preminenza del potere degli Stati più forti rispetto alle strutture transnazionali, assai spesso dipendenti da tali Stati. Ma che è di certo lontana anni-luce dal concetto di Impero, che presuppone un dominio incontrastato da parte di un’unica e centralizzata fonte di potere; mentre non contrasta con la presenza di imperialismi o sub-imperialismi, cioè con la volontà di uno o più Stati di esercitare un predominio politico, economico e militare su nazioni più deboli.       

7)  Il volume di Hardt-Negri contiene un ultimo blocco di questioni rilevanti, quello da cui ci si sarebbe aspettato il maggior numero di risposte – peraltro annunciate come imminenti paragrafo dopo paragrafo – e di precise definizioni; e ove, invece, la vaghezza è notevole, le risposte latitano e persino le doti immaginifiche vanno spegnendosi, lasciando il posto a interrogativi pur legittimi e a considerazioni non peregrine, ma che contrastano con l’assertività e la creazione affabulatoria dei precedebti capitoli. Si tratta dei temi che riguardano: a) la transizione dalla “repubblica della proprietà e del biopotere” al nuovo mondo della realizzazione dei diritti fondamentali e della socializzazione dei Beni comuni; b) l’organizzazione politica necessaria per dare corpo alla transizione (e/o alla rivoluzione); c) la rappresentanza della moltitudine, o più chiaramente, l’organizzazione democratica di una nuova società post-capitalistica. Su tali punti mi sarei aspettato fuochi d’artificio finali – oltretutto ripetutamente annunciati – ed invece ci si imbatte in pagine ben più sobrie della media del testo, dubitative ma fin troppo reticenti, e dove si spegne anche la scoppiettante produzione di termini da neo-lingua. Ne riporto alcuni passaggi, partendo dalle questioni dei processi rivoluzionari e di transizione, che per i due autori passerebbero per la distruzione delle identità sociali, economiche, di classe, di genere, di religione e di etnia.

«Il processo rivoluzionario di abolizione dell’identità è mostruoso, violento, traumatico. Non cercare di salvare te stesso, dato che è questo se stesso che va sacrificato. Molti ritorneranno a riva cercando di rimanere sul posto invece che lanciarsi nelle acque sconosciute di un mondo senza razze, senza genere e senza altre formazioni identitarie. La soppressione delle identità implica la distruzione di tutte le istituzioni che corrompono il comune, come la famiglia, l’impresa e la nazione. Questo passo implica anche un violento scontro con i poteri costituiti e esso richiederà un costo assai più grave e più doloroso di quello richiesto da uno spargimento di sangue. La rivoluzione non è per i deboli di cuore. E’ per i mostri. Ci tocca perdere quello che siamo per guadagnare quello che possiamo diventare (p.337)».

Oppure, adattando in salsa moderna la ricetta marxiana de «lo Stato si abbatte e non si cambia»:

«La moltitudine non ha alcun interesse a conquistare il controllo degli apparati di Stato, neppure per orientarli verso altri fini. La moltitudine ha interesse a mettere le mani sugli apparati di Stato solo per smantellarli, considerando lo Stato non come il garante della libertà ma come la sede del dominio che non si limita ad assicurare lo sfruttamento capitalistico e a difendere il potere della proprietà, ma tutela e garantisce la stabilità delle gerarchie identitarie. Il coinvolgimento politico nelle istituzioni statuali è certamente utile e necessario per l’agibilità delle lotte contro la subordinazione. La liberazione, però, non può che proporsi la loro distruzione (p.353)».

Ma questa furente e sanguigna pars destruens riservata «ai mostri» – che promette prezzi più dolorosi che “semplici” spargimenti di sangue, nonché distruzioni di qualsiasi istituzione (anche familiari, e pure una assai inquietante cancellazione di ogni identità), che addirittura potrebbero far retrocedere «sulle rive da cui erano salpate» persino le moltitudini protagoniste dell’ipotetica insurrezione/rivoluzione – lascia poi il posto a intenti decisamente meno bellicosi, con tempi molto lunghi e distesi, quasi prodotti di una naturale evoluzione sociale: fino a prospettare addirittura un progetto di riforma e umanizzazione del capitalismo, che Hardt e Negri sembrano offrire generosamente al Capitale stesso, pur nella consapevolezza che esso non li ascolterà.

«Non siamo partigiani dell’apocalisse, siamo interessati a decifrare i sintomi delle malattie del capitalismo partendo da due premesse di fondo: il capitale non potrà continuare a comandare per l’eternità; proseguendo nell’esercizio del suo potere, esso creerà le condizioni di un modo di produzione e di una società che gli potrebbero succedere. Sarà un processo estremamente lungo, quanto la transizione dal feudalesimo al capitalismo e non sappiamo quando sarà oltrepassata la soglia. Siamo però nelle condizioni di riconoscere – nell’autonomia della produzione biopolitica, nella centralità del comune, nella loro irresistibile separazione dallo sfruttamento e dal comando capitalistico – la formazione di una nuova società che cresce nel guscio della vecchia (p.301)».

Dunque processi lunghissimi – se prendiamo per buona l’analogia con il passaggio dal feudalesimo al capitalismo, visto che il protocapitalismo comparve nelle città mercantili tra il Duecento e il Trecento, quindi una transizione di circa 500 anni -, un’evoluzione senza passaggi traumatici “per mostri”, con la nuova società che cresce progressivamente “nel guscio della vecchia”, senza apocalisse ma “decifrando le malattie del capitale”. Versione della transizione opposta alla precedente e che, a poche pagine di distanza, tiene conto di un’umanità assai più reale rispetto a quella astratta, pronta a distruggere vincoli familiari, religiosi e etnici, e a cancellare ogni sorta di identificazione personale ed utilitaristica.

«L’evento insurrezionale capace di distruggere le strutture del potere potrebbe essere sufficiente e la società perfetta potrebbe fiorire in modo spontaneo. Malauguratamente, la natura umana è lungi dall’essere perfetta. Siamo tutti ancora presi e complici delle trame e delle pastoie dell’identità, delle gerarchie, della corruzione e dell’ordine costituito. La rivoluzione è un processo di liberazione: non solo un vento distruttivo, ma anche e soprattutto un lungo e consistente processo di trasformazione in grado di creare una nuova umanità…Lo scopo delle rivoluzioni deve essere la democrazia e dunque la direzione e il contenuto della transizione rivoluzionaria sono qualificati dalla crescita e dalla maturità democratica della moltitudine. Le persone non sono spontaneamente capaci di cooperare liberamente tra loro per governare il comune (pp.359-360)».

Quindi, niente più rivoluzione per mostri: e toni dissimili anche dalla terza variante di transizione che Hardt e Negri prospettano come riforma pacifica e consensuale del capitalismo stesso, in un paragrafo titolato, senza veli, Un programma riformista per il capitale.

«Per salvare il capitale è necessaria una politica fondata sulla libertà, sull’uguaglianza e sulla democrazia della moltitudine… Il capitale è sulla strada della distruzione, la distruzione non solo degli altri ma anche di se stesso. Come salvarlo da questo destino mortale?  Nell’era biopolitica, i farmaci di Keynes non funzionano e contribuiscono persino a provocare la malattia. Questo non vuol dire che le riforme non siano più possibili. Non è poi così difficile tirare fuori una lista di riforme, anche se è piuttosto improbabile che l’aristocrazia globale abbia l’intenzione e sia capace di realizzare delle riforme significative (pp.305-6)».

Intenzioni integralmente riformiste ora, ben lontane dalla rivoluzione per mostri prospettata poche pagine prima, alle quali seguono i provvedimenti che risanerebbero il capitalismo, se questo avesse l’accortezza di seguire le ricette dei medici multitudinari accorsi al suo capezzale:

«Assicurare le infrastrutture materiali di cui è priva la maggior parte delle popolazioni del mondo…garantire una infrastruttura sociale e intellettuale per sostenere le singolarità produttive, strumenti linguistici, reti affettive per consolidare relazioni, infrastrutture cognitive, della comunicazione e della formazione culturale, l’educazione superioremezzi adeguati per assicurare i prerequisiti tecnologici e i risultati della ricerca scientifica…garantire la libertà di movimento, con l’introduzione della cittadinanza globale…assicurare un reddito minimo garantito su scala nazionale o globale, pagato ad ognuno indipendentemente dal lavoro che fa, che sia, a un tempo, funzionale agli interessi del capitale…costruire forme e regole di partecipazione democratica a tutti i livelli della governamentalità per permettere alla moltitudine di apprendere ad autogovernarsi attraverso la cooperazione (pp.306-7-8-9)».

Ma dopo queste giravolte tra rivoluzioni “per mostri” e riforma del Capitale, i due si rivolgono una domanda ovvia: «Alcuni lettori potranno chiedersi: ma non eravate dei rivoluzionari? Perché vi siete messi in testa di proporre delle riforme per salvare il capitale? Quello che cerchiamo di fare è elaborare un’altra idea di transizione..(che) implica la più grande autonomia possibile della moltitudine sia dal potere della proprietà privata sia dall’intervento dello Stato…Se vuole perseguire i suoi interessi e autoconservarsi, il capitale deve incentivare il potere e l’autonomia della moltitudine che nel frattempo diventano sempre più grandi. Quando l’accumulazione dei poteri della moltitudine oltrepasserà un certo livello, la moltitudine sarà in grado di padroneggiare autonomamente la ricchezza comune (pp.309-310)». Più o meno la stessa illusione di Marx-Engels e del comunismo “scientifico”, convinti che il capitalismo creasse di per sé i propri becchini, quella classe operaia che avrebbe finito inevitabilmente per padroneggiare l’intero meccanismo produttivo, rendendo superfluo il Capitale e i padroni. Invece il capitalismo ha fatto, sotto la spinta delle lotte dei salariati, una serie di riforme (welfare, Stato come capitalista collettivo in grado di padroneggiare “l’anarchia” dei singoli padroni, diffusione dei consumi sociali ecc.) senza che tale attività di autoconservazione rendesse il proletariato capace di autogovernarsi e di realizzare un progetto sociale, economico, politico davvero alternativo a quello esistente.

8) Quindi, le tesi di Hardt-Negri sui grandi temi della rivoluzione e della transizione, oltre ad essere  generiche, fanno a pugni l’un l’altra, prevedendo allo stesso tempo: a) un processo hard,  da mostri”, più terribile che nei “tradizionali” spargimenti di sangue insurrezionalisti, in quanto distruttore anche delle plurisecolari strutture familiari, religiose, etniche e di ogni forma di identità; b) una transizione soft, analoga per durata forse a quella tra feudalesimo e capitalismo, basata sulla partecipazione e presa di coscienza dei settori popolari, con una cessione progressiva di potere da parte del sistema capitalistico; c) una riforma consensuale del capitalismo esistente, ma  sapendo che per realizzare una pacifica staffetta neoconsensuale ci vorrebbe una corresponsabilità da parte dell’”aristocrazia capitalistica” che quasi certamente non ci sarà.

Malgrado possa sconcertare che su temi di tale rilievo si possano proporre ben tre percorsi opposti, senza approfondire neanche le chances concrete che si avrebbero in ognuna delle tre vie, tuttavia questa trattazione è pur sempre più articolata di quella riguardante le nuove forme della politica della moltitudine che dovrebbero guidare l’intero processo, nonché di quella indirizzata verso una nuova e integrale democrazia che permetta realmente di sottrarre il “pubblico” dalle mani del capitalismo privato e di Stato, consegnando alla popolazione l’utilizzo, lo sviluppo e la gestione dei Beni comuni. E’ infatti sorprendentemente ancor maggiore la genericità e indefinitezza dei due autori sui temi delle forme politiche moltitudinarie e della nuova rappresentanza democratica; ed immagino che i lettori/trici più fiduciosi nelle invenzioni funamboliche di Negri siano rimasti delusi dall’incertezza delle conclusioni del libro: e non perché si ignori la grande difficoltà di questi temi, ma per l’eccesso di semplificazione e di assertività che aveva percorso tutto il volume, vedendole poi sparire al momento di stringere sui punti cruciali, come quei romanzi che, dopo una rutilante costruzione di personaggi, storie e trame, si perdono nelle pagine del gran finale.

«La molteplicità delle singolarità nel contesto biopolitico del comune..non sono in grado di costruire spontaneamente la loro autonomia politica. E’ necessaria un’organizzazione politica per generare degli eventi politici (p.170)… Nell’attuale contesto, ancora più che in passato, le forme organizzativefondate su una leadership unica e centralizzata e sulle gerarchie non sono né realistiche né desiderabili (p.171)…Non c’è più posto per un’avanguardia politica che pretenda di guidare o di rappresentare le masse. C’è solo la rete delle soggettività che cooperano e comunicano (p.248)… Moltitudine è il nome di un processo politicamente organizzato che  valorizza l’eterogeneità delle singolarità coinvolte nella lotta e assicura il coordinamento delle loro azioni e cerca di preservare la loro eguaglianza mediante organizzazioni strutturate  per linee orizzontali. Questo fenomeno – scrive Alvaro Garcia Linera (n.d.a. vicepresidente della Bolivia) – ci costringe a inventare nuovi strumenti di articolazione della società, non più in termini di una fusione gerarchica ma in quelli di una serie di reti provvisorie e orizzontali (p.116)».

Gran parte di queste considerazioni sono condivisibili e assai simili a quelle che ho esposto in Benicomunismo, relativamente sia a quell’arcobaleno sociale e politico che è oggi lo schieramento potenzialmente anticapitalistico, sia al rifiuto di una gerarchia tra i conflitti anti-Sistema e dei tentativi di reductio ad unum tra le varie resistenze e opposizioni, sia al ripudio della deleteria concezione dell’avanguardia politica che rappresenti in sé e sintetizzi tutte le contraddizioni e i conflitti anticapitalistici. Solo che la conclusione, per quel che riguarda l’organizzazione politica per la transizione, dovrebbe prevedere forme di alleanze e coalizioni tra diversi, che invece Hardt e Negri trovano insufficienti, lasciando intravedere però una visione assolutistica, una allarmante e impossibile tabula rasa di ogni identità, con il parto di un unicum sociale da formicaio, singolarmente assonante con le pur deprecate forme leniniste, bolsceviche e del “socialismo reale”.

«Abbiamo necessità di capire come può essere strutturato un processo democratico che sappia sviluppare la formazione della moltitudine e il processo rivoluzionario. Quando parliamo di intersezioni che contribuiscono alla costituzione della moltitudine, intendiamo qualcosa di diverso da termini quali “alleanza” e “coalizione”. Le alleanze e le coalizioni sono forme di organizzazione che si costituiscono per combattere un nemico comune sul fondamento delle lotte e delle forme di subordinazione di diversi soggetti e gruppi sociali. Le alleanze e le coalizioni non trascendono mai la rigidità delle identità, non essendo nelle condizioni di lottare per la liberazione dalle identità. L’articolazione che si verifica nelle intersezioni insurrezionali collega le identità come gli anelli di una catena, e al contempo trasforma le singolarità in un processo di liberazione nel corso del quale esse costruiscono il comune  (pp.347-8)».

E’ davvero ben singolare che Hardt e Negri, dopo aver descritto come sia variegato il fronte dei soggetti conflittuali e come su questo fronte non si possa esercitare nessuna reductio ad unum né la sovrapposizione di un’avanguardia politica unificante, minimizzino il ruolo delle alleanze e delle coalizioni, pretendendo un impossibile e preoccupante annullamento delle identità, che in concreto hanno a che fare con i più immediati interessi materiali di settori sociali ed individui che non possono essere cancellati, ma armonizzati solo garantendone l’espressione e la rappresentanza proprio nella forma delle coalizioni politico-sociali. Il tutto in un processo mobile e permanente, in cui si modificano le identità, le alleanze e i temi di accordo ma anche di conflitto “in seno al popolo”, che non eliminerà mai del tutto divergenze di opinioni e di interessi e la dialettica tra raggruppamenti sociali e individui: a meno di pensarla come tanti marxisti, e cioè di ritenere che, una volta abolita la proprietà privata, finiranno tutti i conflitti e si vivrà in un’angelica armonia.

Tema tanto più cruciale quando si passa a trattare il problema dei problemi, la nuova democrazia integrale, le istituzioni decisionali che dovrebbero garantire la vera socializzazione dei Beni comuni. E qui la vaghezza è davvero eccessiva e rende del tutto indefinita l’idea del comune.

«La rappresentanza restringe la produzione del comune minando la necessità della libertà e del pluralismo…L’egemonia che si crea con la divisione tra rappresentanti e rappresentati è un ostacolo per la produzione del comune…La democrazia, non l’aristocrazia che si costituisce attraverso la rappresentanza, ha il compito di promuovere la produzione del comune (pp.304-5)…Sono le singolarità a costituire le istituzioni le quali, in questo modo, si trovano immerse…in un processo decisionale istituzionalizzato costituito da una miriade di microtraiettorie politiche…L’obiezione che potrebbero farci gli scienziati politici e i giuristi è che l’istituzione di cui parliamo non può costituire la base della sovranità…Secondo noi, invece, le istituzioni non sono un potere costituito, ma un potere costituente. Le norme e gli obblighi istituzionali sono gli effetti di interazioni regolari, ma sono anche aperte ad un processo evolutivo (pp.355-6-7)».

Fin qui siamo alla descrizione, seppur molto generica, di un iper-anarchismo, caratterizzato dal rifiuto di ogni forma di rappresentanza e di delega, anche su mandato e a tempo limitato, dove le istituzioni, fatte di sole singolarità, sarebbero «immerse in un flusso permanente..in un processo decisionale costituito da una miriade di microtraiettorie politiche» (???), con leggi e Costituzioni in via di continua trasformazione (Hardt e Negri riprendono una boutade di Thomas Jefferson secondo il quale ad ogni cambio di generazione – ogni venti anni, più o meno – bisognerebbe ribellarsi contro qualsiasi governo e cambiare la Costituzione), ove non si capisce con chi, come, quando e dove (in mega-raduni negli stadi di calcio? in Rete? in assemblee permanenti di milioni di “singolarità”?) si prenderebbero le decisioni significative per la vita della società e della produzione. I due autori non possono non percepire l’estrema fumosità del tutto ed azzardano un’ipotesi di conversione in positivo dell’attuale governance imperiale, dalla quale sembrano  affascinati e dentro la quale, evidentemente, intravedono germi di vera democrazia.

«Manca ancora il sostegno di una struttura costituzionale, governamentale e giuridica…Ci viene in aiuto una fonte apparentemente estranea ai nostri propositi: le strutture e le pratiche della governance che stanno emergendo come le forme predominanti del potere all’interno dell’Impero…La governance non ha alcun bisogno di stabilità e di regolarità per esercitare il potere, dato che è assegnata alla gestione delle crisi ed è chiamata ad intervenire su uno stato di eccezione permanente…Siamo del parere che sia necessario appropriarsi del concetto di governance, sovvertire la sua declinazione imperiale e trasformarla nell’organo della democrazia e della rivoluzione. A questo proposito abbiamo trovato delle risorse nel federalismo in cui alcuni studiosi identificano le funzioni della governance globale. A differenza dei modelli tradizionali, questa declinazione del federalismo è irriducibile ad una forma di Stato, bensì è l’infrastruttura di un’ampia gamma di poteri…Il passaggio dal governo alla governance può essere descritto come il passaggio da un sistema compatto ed unificato ad una configurazione plastica e pluralistica. La governance rende vano qualsiasi tentativo di unificazione dei sistemi giuridici globali…Gli organi e le pratiche di governance non possono che essere contingenti ed aleatori (pp.369-370-371)».

Insomma, la confusione regna sovrana, visto che addirittura ci si vorrebbe appropriare della governance imperiale, descritta come massimamente flessibile e «fluttuante sul turbolento modo ondoso della società globale»: il tutto mixato con un “non tradizionale federalismo“ che  garantirebbe l’irriducibilità alle forme statuali (??? il federalismo, vecchio o nuovo, è pur sempre una forma di statualità). Alla fin fine, di fronte a tanta nebulosità e improvvisazione, pare assai preferibile la seguente ammissione di impotenza teorica e politica:  «L’esodo della moltitudine dalla repubblica della proprietà, dal comando sulla produzione e da tutte le gerarchie, è il miglior esempio di una decisione comune. Come si prende una tale decisione? E’ previsto un voto? Non siamo ancora in grado di descrivere dettagliatamente le strutture e le funzioni di una democrazia di questo genere, ma possiamo dire che la sua costruzione è imprescindibile per curare le malattie del capitale (p.305)». Della serie: in realtà non abbiamo la più pallida idea di quale organizzazione democratica, quali istituzioni e rappresentanze servirebbero davvero per garantire una nuova società, ma siamo certi della loro necessità. Che è sempre meglio di niente!

Queste, dunque, riassunte in otto temi, le argomentazioni teoriche e politiche del testo di Hardt- Negri: ed esponendole, ho cercato di operare una distinzione tra il grano qua e là accettabile e la pula affabulatrice, che a mio parere determina solo confusione per quelle forze sociali e quei militanti che si oppongono al capitalismo privato e di Stato, ed è del tutto inutile per la ricerca di nuove strade verso una società dei Beni comuni o benicomunista. E alla distinzione tra la sostanza accettabile e la “fuffa” inutilmente ammaliante, dedicherò qualche altra pagina, riprendendo i concetti-base proposti dai due autori, iniziando dal rutilante concetto di biopolitica. Non vi è dubbio che l’attenzione di Foucault al controllo che variegati poteri esercitano sulla fisicità, sui comportamenti e sulla vita quotidiana degli individui anche al di fuori delle strutture produttive, gestendone e punendone le devianze, abbia contribuito a migliorare le conoscenze degli oppositori del sistema capitalistico, mostrando come esso non sia un monolite centralizzato ma si avvalga, per controllare gli individui, di mille leve operative, dotate spesso di una loro autonomia di potere. E, sulla scia di Foucault, è altrettanto utile che si descriva quanto la mercificazione dell’immaginario, di sentimenti, desideri e sogni sia parte rilevante dell’espansione del dominio capitalistico.  Ma sono errate e devianti le estrapolazioni e le estremizzazioni che i due autori ne traggono, ingigantendo e assolutizzando i dati a favore delle proprie tesi e ignorando gli elementi che porterebbero a conclusioni opposte: così come i tentativi, tipici di tutta la produzione teorica negriana, di presentare delle categorie politiche e dei soggetti sociali come nuove leve per sollevare il mondo (l’altro ieri l’operaio sociale, ieri i cognitivi o intellettuali-massa, oggi la moltitudine) e per scavalcare di colpo tutti i problemi e le contraddizioni presentatisi negli ultimi decenni nei conflitti sociali e politici anticapitalistici. Ad esempio:

«Le forme della produzione capitalistica consistono sempre più nelle relazioni sociali e nelle forme di vita. La produzione capitalistica, in altre parole, sta divenendo biopolitica…(con) l’egemonia tendenziale della produzione immateriale nei processi della valorizzazione capitalistica. “La dimensione immateriale dei prodotti” scrive André Gorz, ovverosia il loro valore estetico, sociale e simbolico “prevale sulla loro realtà materiale”. Le immagini, l’informazione, il sapere, gli affetti, i codici e le relazioni sociali stanno per controbilanciare il rilievo della materialità delle merci nella valorizzazione capitalistica. Ciò non significa che la produzione di beni materiali stia sparendo o stia diminuendo quantitativamente, ma che il loro valore è sempre più subordinato a fattori immateriali. Siamo di fronte alla svolta biopolitica dell’economia (pp.137-8)»

Ho trattato ampiamente il tema della produzione immateriale e del lavoro intellettuale massificato in Benicomunismo, sottolineando in particolare come sia in grande espansione il ruolo dei simboli, delle immagini, dei valori estetici e culturali nella produzione e vendita di merci. Ma questo non significa un rovesciamento completo di pesi specifici tra la materialità del prodotto e la sua presentazione simbolica: alla fin fine il capitalismo continua a produrre soprattutto oggetti concreti per persone concrete che comprano la sostanza materiale della merce, al di là dei simboli. In ogni caso, ciò che è davvero sbagliato non è tanto l’ingigantimento del simbolico e dell’immateriale, quanto le conseguenze che se ne traggono come possibilità di autonomia che le forze-lavoro riceverebbero da questa mitizzata, epocale e salvifica «svolta biopolitica dell’economia».

«Oggi l’accumulazione capitalistica è in gran parte esterna ai processi produttivi, cioè assume la forma di un’espropriazione del comune, è un’attività predatoria che si dispiega con la sottrazione e la trasformazione in proprietà privata sia dei beni pubblici sia della ricchezza prodotta socialmente (p.143…Il lavoro biopolitico è sempre più autonomo (pp.146-7)…tende a generare proprie forme di cooperazione e produce il valore sempre più autonomamente (p.155)…Il lavoro biopolitico, e dunque le attività cognitive, affettive, comunicative, è caratterizzato dalla creatività in quanto espressione del comune (p.314)… Il capitale ha di fronte a sé delle forme della forza lavoro sempre più autonome, antagoniste, non gestibili (pp.287-8-9)…La conoscenza, disseminata ovunque come intellettualità di massa, è diventata la prima forza produttiva distaccandosi dal sistema di controllo…non solo non è più un’arma del potere capitalistico, ma più il capitale deve valorizzarsi mediante la produzione di conoscenza e più questa sfugge al suo controllo (p.269)».

Hardt e Negri – con un processo idealistico simile a quello che portò il Marx politico ad enfatizzare la potenza della classe operaia, la sua presunta omogeneità interna e i suoi caratteri irriducibili al dominio capitalistico – vogliono trarre dalle trasformazioni dei processi produttivi una linea di tendenza oggettivamente liberatoria, che andrebbe solo organizzata politicamente per giungere al naturale successo. Nel tentativo di motivare ed entusiasmare gli oppositori del Capitale, finiscono  per capovolgere la realtà, facendo passare per liberazione del lavoro “biopolitico” quello che è un salto di qualità nella sua precarizzazione, sfruttamento e subordinazione. Vediamo perché.

1) Che l’accumulazione capitalistica sia una “attività predatoria” e che si avvalga del massimo utilizzo dei corpi e dei beni collettivi non è certo una novità dell’”attuale fase biopolitica”: senza tale attività l’accumulazione originaria del Capitale non si sarebbe mai realizzata. Singolare che ciò sia dimenticato dai due, che pure dedicano pagine a ricordare quanto sia stata decisiva la  schiavitù – il massimo di “attività predatoria” e di uso senza limiti dei corpi – di decine di milioni di africani per l’accumulazione del capitale negli Stati Uniti. Ma che tale accumulazione sia “esterna” ai processi produttivi, in quanto “espropriazione del comune”, è del tutto irreale: sta accadendo esattamente il contrario, il Capitale cerca di mettere in produzione tutti i Beni comuni possibili, scuola e sanità, acqua e territorio, cultura ed energia.

2) Altrettanto fuori della realtà è che il lavoro “biopolitico” sia «sempre più autonomo» e produca «il valore sempre più autonomamente». Esattamente all’opposto: i lavori dell’intellettualità di massa – affettivo e di cura, creativo e cognitivo ecc. – sono sempre più sussunti nella produzione capitalistica, sempre più sottomessi, precarizzati senza limiti, distanti mille miglia dalle certezze, garanzie ed autonomie – quelle davvero reali – del lavoro intellettuale di buona parte del secolo scorso; la dipendenza delle forze-lavoro “biopolitiche” dal Capitale non è «sempre più debole» ma sempre più forte. E lo stesso vale per la galassia del piccolo lavoro autonomo, o presunto tale, le partite IVA, le cooperative di comodo, i piccoli committenti della grande industria, il piccolo lavoro agricolo, commerciale, artigiano, della ristorazione e dell’accoglienza, tante attività culturali e ricreative: schiacciati tra la grande produzione privata assistita e il capitalismo di Stato dipendente dai partiti, tra il fallimento e la subordinazione totale ai capitali forti; mentre neanche le professioni “nobili” di un tempo nè larga parte della middle class sono più al sicuro da questa deriva di sottomissione e perdita di autonomia. Insomma, sono i processi produttivi capitalistici ad aver invaso tutta la società, i Beni comuni e il mitico comune, e non il contrario.

3) Che la conoscenza, indicata come la prima forza produttiva, si sia «distaccata dal sistema di controllo» capitalistico, che non sia più «un’arma del potere», determinando addirittura la «destabilizzazione del potere industriale», è pura fantascienza. Non fosse altro perché i due sono (o sono stati) docenti universitari, dovrebbero conoscere bene quanto in questi anni il Sistema abbia sottoposto scuola, università e ricerca ad aziendalizzazione, mercificazione e subordinazione all’ economia liberista, riducendone l’autonomia ai minimi storici; mentre le utopie sull’effetto liberatorio del web si scontrano con la prosaica realtà che le imprese a maggiori tassi di valorizzazione e di profitto sono le varie Google, Facebook, Twitter, Instagram, WhatsApp ecc.

Una analoga idealizzazione è quella della moltitudine, concetto del quale ho già sottolineato la assoluta vaghezza, ma a cui Hardt e Negri assegnano doti palingenetiche, pur se qua e là cercano di cautelarsi dalle accuse di mitomania ideologica e politica, citando autori che sottolineano gli aspetti negativi della moltitudine, di cui però neanche essi danno una precisa definizione. Per esempio:

«Paolo Virno45 ritiene che le disposizioni politiche della moltitudine siano estremamente ambivalenti, essendo essa caratterizzata altrettanto radicalmente sia dalla solidarietà sia dall’aggressività…e che dunque la discussione sulla positività della moltitudine deve essere condotta con sobrietà, tenendone sempre presente il lato oscuro. Etienne Balibar46ha rilevato che il concetto di moltitudine non garantisce sull’orientamento progressivo e antisistemico del suo agire. La moltitudine può in egual misura sostenere il sistema dello sfruttamento globale oppure resistere ed opporsi ad esso…Per Slavoj Zizek47 e Alain Badiou48 non c’è alcuna ambivalenza nella moltitudine dal momento che essa è perfettamente in linea con il dominio. Zizek sostiene che la moltitudine sia una mascheratura che agisce come sostegno del dominio capitalistico…anche quando crede di essere disposta alla resistenza, l’azione della moltitudine non fa altro che replicare e confermare la qualità del comando capitalistico…Secondo Badiou, la concezione di una moltitudine creativa e antisistemica è una fantasticheria allucinatoria. Ciò che viene spacciato come resistenza – dice Badiou –non è altro che una componente nella progressione del potere»49.

Non c’è replica a queste critiche da parte di Hardt e Negri, anzi sembra che ci sia una sintonia con i critici della “moltitudine” e con il loro pessimismo sulla natura umana: «Non è forse più realistico riconoscere che, lungi dall’essere fondamentalmente buoni, gli uomini sono fondamentalmente cattivi…caratterizzati da un’aggressività potenzialmente illimitata?… Una prospettiva realistica, che sollecita il pensiero politico a comprendere l’umanità per quello che è e non per quello che vorremmo che fosse, è estremamente importante. Gli esseri umani non sono naturalmente buoni…e, come ha visto Spinoza, spesso combattono per la loro servitù come se combattessero per la loro salvezza…Tuttavia, la concezione pessimistica dell’antropologia politica prende atto dell’esistenza del male, ma lo considera come un’invariante che blocca qualsiasi tentativo di comprenderne la genesi: il male esiste e basta…(Ma) impostando l’antropologia politica su supposti dati invarianti, si finisce in un vicolo cieco. Il problema non è sapere se la natura umana è definita dalle invarianti quanto cosa può diventare. La natura umana può essere in continua trasformazione (pp.193-196)».

Considerazioni metodologiche condivisibili, ma che i due usano per svicolare da una spiegazione su cosa sia realmente la moltitudine e da dove derivi la convinzione che essa sia «l’unica figura che nel nostro tempo sia in grado di fare la rivoluzione (p.181)»: «La moltitudine non è un soggetto politico bello e fatto, ma un programma di organizzazione politica (p.174)…va intesa non come un’attualità, ma come un fare, un essere che non è dato una volta per tutte ma che non fa che trasformarsi, arricchirsi, costituirsi continuamente sotto l’azione delle pratiche (p.178)». Insomma, un’indefinita speranza, un idealistico archetipo, un mito affabulatorio, simile a quello costruito dal Marx politico sul Proletariato Unito, salvifico e palingenetico! In un brodo di indeterminatezza che è poi lo stesso che avvolge l’altrettanto inafferrabile comune che non indica l’insieme dei Beni comuni riconsegnati alla socialità pubblica, ma a volte l’intera vita in comune, altre volte la natura o la metropoli o tutto ciò che circonda il vivente o l’insieme delle istituzioni sociali, ed è anche la famiglia, l’impresa, la nazione. Insomma, una sorta di parola-jolly, mito multiuso.

Dunque, paradossalmente, in Comune manca in primo luogo quanto il titolo prometteva: una seria trattazione dei Beni comuni, di cosa oggi può essere considerato tale, di come mettere al centro dei conflitti la conquista/recupero di essi da parte della collettività e di come si possa costruire un’alleanza/coalizione per una transizione benicomunista. E, massimo buco nero, manca una riflessione corposa su come si socializza il pubblico, su quali strutture di nuova democrazia possono togliere dalle mani dei professionisti politici l’attuale proprietà “pubblica” e impedirne la privatizzazione mascherata da statalizzazione. Perché è del tutto inutile inventarsi una terza forma di proprietà oltre il privato e il “pubblico”, se poi non ci si garantisce che per essa non scattino gli stessi meccanismi elitari che ne consegnino il possesso effettivo ad un’altra stirpe di professionisti politici, stavolta del comune, cioè ad una nuova casta di comunardi istituzionalizzati.

Certo, il tema (che ho ampiamente trattato in Benicomunismo) di una democrazia integrale, in grado di consentire una reale socializzazione dei Beni comuni essenziali, è questione maledettamente complessa, addirittura il problema dei problemi, al cui riguardo non abbiamo ancora esperienze  sociali decisive e di un buon respiro temporale. Ma a maggior ragione è impensabile, se si vuole trattare seriamente la problematica di una nuova società oltre il capitalismo, sorvolare sul tema, giocare con gli archetipi e poi alla fine improvvisare una trovata d’effetto, con affabulanti calembour come la sconcertante proposta di uso rivoluzionario della governance imperiale. E’ vero che nella gestione globale del capitalismo attualmente non esiste un vero centro, una gerarchia precisa e codificata, e che ci sono vari elementi conflittuali e incerti contrappesi: ma il tutto opera nella più avvolgente oscurità per ciò che riguarda le procedure democratiche, con forme decisionali oligarchiche, lontane anni-luce dal senso di democrazia partecipata, consapevole, competente, cristallina e socializzata che appare indispensabile per una transizione benicomunista, verso l’affermarsi di una articolata società dei Beni comuni. Insomma, l’unica cosa per la quale di certo non vale la pena di spendere “sudore, lacrime e sangue” è la sostituzione della cosiddetta governance imperiale con una governance altrettanto elitaria, seppur verbalmente comunarda.

P.S. Non ho menzionato le boutades di Hardt e Negri sull’amore e sul riso. Pur essendo il primo un tema di rilievo, non ho preso sul serio il suo uso “biopolitico” e “moltitudinario”: né  credo che i due autori pensino davvero che l’amore sia «il cuore pulsante del programma che abbiamo sviluppato, senza il quale il resto sarebbe un ammasso senza vita (p.184)». E ho letto come un puro “cazzeggio” sessantantottino le pagine conclusive del libro, dalle quali magari i lettori/trici, in cerca di indicazioni sui percorsi verso la nuova società, si sarebbero potuti aspettare ben altro che questo fanciullesco elogio del riso: «Di fronte all’inaudita arroganza del potere, la risposta più adeguata è ridere…Nella lotta continua contro le istituzioni che corrompono il comune, spargeremo molte lacrime, eppure continueremo a ridere. Nell’antagonismo contro lo sfruttamento capitalistico, contro il potere della proprietà e contro i distruttori del comune, soffriremo tremendamente, eppure continueremo a ridere. Tutti saranno sepolti da una risata (pp.380-381)». Se davvero credessi che le suddette categorie siano fondamentali nell’impianto di Comune – e che, di fronte all’ingiustizia sociale, alla miseria e alla guerra dilaganti, ci si possa atteggiare con il riso permanente, come la Maria Antonietta delle brioches da offrire al popolo della Rivoluzione francese – dovrei concludere la mia valutazione del libro nello stesso modo crudo di Vitale: ok, tutti saranno sepolti da una risata, ma «magari due più di altri»50.

Il diritto di avere diritti: Rodotà e i Beni comuni

Vitale riserva a Stefano Rodotà, terzo “bersaglio” della sua polemica contro i benecomunisti (anche se non mi pare che Rodotà si consideri tale), ben altra considerazione: e di certo, completamente diversa, rispetto agli autori fin qui analizzati, è la stile della trattazione dei Beni comuni da parte di Rodotà. Nessuna affabulazione o fascinose astrazioni, niente categorie e concetti tanto spettacolari quanto indefiniti, molta concretezza, persino pignoleria nelle analisi, nelle citazioni e nei richiami, come si addice ad un buon giurista. Ne è consapevole Vitale che nella sua disamina – che fa riferimento quasi esclusivamente a Beni comuni: una strategia globale contro lo human divide51 – parte con una constatazione positiva, rilevando innanzitutto una sorta di presa di distanza, da parte di Rodotà, nei confronti di lavori e di teorie come quelli di Mattei e di Hardt-Negri.

«Una proposta che punta a trovare una collocazione giuridica ai beni comuni…è avanzata da Stefano Rodotà. Volendo condurre una riflessione su basi storiche e teoriche sfuggendo alle “venature fondamentalistiche e alle trappole ideologiche di cui è disseminata la riflessione sui beni comuni”, Rodotà prende le distanze da “ricostruzioni che portano con sé chiari riferimenti alla premodernità, di cui talora si propone una rivalutazione”52. Insomma, nessuna concessione ad un medioevo romanticamente idealizzato. In secondo luogo, “la parola ‘comune’ può indurre un equivoco, che consiste nel ritenere che la dimensione propria di tali beni sia quella comunitaria. Qui continua a giocare un ruolo la storica suggestione del rapporto tra la piccola comunità e quei beni che consentivano agli appartenenti ad un gruppo di esercitare il diritto di pascolo, di legnatico, di attingere acqua. Nella fase che stiamo vivendo, invece, un tratto caratteristico dei beni comuni è il movimento ascensionale che li ha portati dalla periferia al centro del sistema, rendendo  improponibili le suggestioni tratte dai modelli del passato”53. Insomma, elucubrare sulle “enclosures” e sulla cattiva modernità è tempo perso. Infine, “se si fa astrazione dai soggetti e dai bisogni ai quali i beni comuni sono collegati, si imbocca una strada pericolosamente vicina a quella che ha portato alla costruzione della natura come ‘soggetto morale’, con i conseguenti interrogativi su chi sia legittimato a parlare in suo nome e alle tentazioni autoritarie di chi ritiene la sua tutela sottratta a qualsiasi procedura democratica”54. Forse qui si allude a Gaia, o alla Pacha Mama, o a Vandana Shiva? Se così fosse, come a me pare, del “benecomunismo” di un “manifesto” Rodotà fa carta straccia»55.

Per la verità, Rodotà non si riconoscerebbe nella definizione di benecomunista non già per le nette differenze con le posizioni dei neomedioevalisti o dei biopolitici moltitudinari, ma perché il suo centro di riflessione, la sua leva per migliorare il mondo non sono tanto i Beni comuni quanto i diritti universali, di cui i Beni comuni sono emanazione ed incarnazione. Cosa che appare in grande evidenza nell’ampia opera, successiva al testo citato da Vitale, Il diritto di avere diritti56, che fin dal titolo chiarisce gli  interessi cruciali dell’autore.

«La lotta per i diritti è l’unica, vera, grande narrazione del millennio appena iniziato. Si distende sull’intero mondo globalizzato, costruisce modalità nuove dell’azione e soggetti che la incarnano, e va oltre l’indispensabile difesa contro ogni potere oppressivo, perché si presenta come la sola in grado di contrapporsi alla volontà di imporre una nuova e invincibile legge naturale, quella del mercato, con la sua pretesa di definire anche le condizioni per il riconoscimento dei diritti»57.

Nello scontro con il dominio del Capitale e della mercificazione, Rodotà legge una lotta globale per l’affermazione dei diritti fondamentali, per il recupero dei “vecchi”, in via di espropriazione, e per la conquista dei nuovi e universali: lotta che vede scendere in campo nuovi e originali protagonisti.

«Un innegabile bisogno di diritti, e di diritto, si manifesta ovunque, sfida ogni forma di repressione, innerva la stessa politica. E così, con l’azione quotidiana, soggetti diversi mettono in scena una ininterrotta dichiarazione di diritti…Certo non i “soggetti storici” della grande trasformazione moderna, la borghesia e la classe operaia, ma una pluralità di soggetti oramai tra loro connessi da reti planetarie. Non un “general intellect”, né una indeterminata moltitudine, ma una molteplicità di donne e uomini che trovano, e soprattutto creano, occasioni politiche per non cedere alla passività e alla subordinazione…Torna, forte, l’appello ai diritti fondamentali, che percorre il mondo in forme inedite, incontra nuovi soggetti, costruisce un diverso modo d’intendere l’universalismo, fa parlare lo stesso linguaggio a persone lontane, e così fa scoprire appunto un mondo nuovo e appare come la vera, grande, drammatica narrazione comune del nostro presente. Il “diritto di avere diritti” connota la dimensione stessa dell’umano e della sua dignità»58.

E la lotta per i diritti è anche l’affermazione di un altro universalismo, di un’altra globalizzazione  necessaria, il famoso un altro mondo è possibile dei Forum sociali mondiali:

«Mentre vacillano o scompaiono i grandi assetti politici e ideologici che avevano segnato l’intero secolo passato, mentre gli Stati nazionali rivelano la loro debolezza, la narrazione dei diritti percorre il mondo con una ampiezza e intensità senza precedenti, per il numero di persone  protagoniste, per la velocità con cui si propaga, per la sfida che lancia ai più diversi poteri, per i conflitti che suscita…I diritti fondamentali in tal modo diventano il tramite di un’altra connessione possibile, per la quale si deve politicamente lavorare, racchiusa nella formula “globalizzazione attraverso i diritti, non attraverso i mercati”. Un altro universalismo è possibile?»59.

E’ da questa centralità dei diritti che Rodotà fa discendere la rilevanza dei Beni comuni, la cui diffusione universale è cruciale per la realizzazione ed estensione dei diritti stessi: centralità che richiede dunque la sottrazione di tali Beni dal diritto proprietario individuale o di gruppo: «Proprio da qui trova ora le sue origini la “rivoluzione dei beni comuni”, che ci porta al di là della dicotomia proprietà privata/ pubblica; ci parla dell’aria, dell’acqua, del cibo, della conoscenza; ci mostra la connessione sempre più forte tra persone e mondo esterno, e delle persone tra loro; ci rivela un legame necessario tra diritti fondamentali e strumenti indispensabili per la loro attuazione (p.15)». In questo quadro, per Rodotà è essenziale sia la costituzionalizzazione dei diritti, cioè la loro traduzione in leggi e in norme costituzionali, sia la precisa individuazione di cosa vada considerato Bene comune, fino al traguardo di una vera e propria costituzionalizzazione della persona, garantita nei suoi diritti dalle leggi nazionali e internazionali e dalle Carte costituzionali.

«La regola giuridica viene talvolta considerata come uno strumento che espropria i soggetti delle possibilità di estrarre dal cambiamento tutte le sue potenzialità… E’ un riflesso figlio della percezione della regola giuridica come puro vincolo e non come consolidamento di spazi di libertà e di opportunità, che creano anche le condizioni per un arricchimento futuro…E’all’opera un nuovo costituzionalismo, che porta in primo piano la materialità delle situazioni e dei bisogni, che individua nuove forme di legami tra le persone (pp.6-7)…L’individuazione sempre più netta di una serie di situazioni come diritti di cittadinanza,inerenti alla costituzionalizzazione della persona, implica la messa a punto di una strumentazione istituzionale in grado di identificare i beni direttamente necessari per la loro soddisfazione. Essi sono, anzitutto, quelli essenziali per la sopravvivenza (l’acqua, il cibo) e per garantire eguaglianza e libero sviluppo della personalità (la conoscenza). Per questa loro attitudine vengono considerati “beni comuni” (p.112)…I beni comuni sono “a titolarità diffusa”, appartengono a tutti e a nessuno, nel senso che tutti devono poter accedere ad essi e nessuno può vantare pretese esclusive…Incorporano la dimensione del futuro e quindi devono essere governati anche nell’interesse delle generazioni che verranno. In questo senso sono “patrimonio dell’umanità” (pp.115-116)».

Questo particolare approccio, più che benicomunista, lo definirei giuscomunista, fermo restando che Rodotà, da onesto e non pentito riformista60, non propone fuoriuscite dal capitalismo, quanto piuttosto un tentativo di limitare il dominio del Capitale e della mercificazione allargando e istituzionalizzando diritti, sottratti alla giurisdizione della proprietà privata e di quella statale.

«Bisogna essere consci che (per Rodotà) “l’accento sui beni comuni è più simile ad un cambio di paradigma che ad una scoperta di qualcosa che mai ha cessato di essere presente nei sistemi giuridici”61. Il cambio di paradigma si esprime come riconoscimento a livello giuridico delle “nuove parole che percorrono il mondo: software libero, no copyright, accesso libero all’acqua, al cibo, ai farmaci, a Internet, e queste diverse forme di accesso assumono la veste di diritti fondamentali”62. Per un verso, i beni comuni si definiscono in rapporto ai diritti fondamentali della persona, come garanzia di questi ultimi al di fuori della logica mercantile e proprietaria; per l’altro verso, ognuno di questi beni va descritto secondo le sue caratteristiche specifiche. Nel caso della conoscenza in rete, per esempio, il riferimento ad una comunità di utenti e alla democrazia partecipativa come metodo gestionale appare privo di senso: “come si estrae – si domanda Rodotà – questa comunità dai miliardi di soggetti che costituiscono il popolo di Internet?”63»64.

Tuttavia, pur rispettando gli argomenti di Rodotà, Vitale si domanda perché egli abbia voluto dare, nel suo costituzionalismo dei diritti, tanto rilievo alla categoria dei Beni comuni e soprattutto alla delineazione (come Mattei e Hardt-Negri) di una terza forma di proprietà (o di non-proprietà, visto che propone che «i beni comuni appartengano a tutti e a nessuno»), né privata né pubblica.

«Sono in buona misura d’accordo con Rodotà,ma mi preme sottolineare che finalmente abbiamo trovato una definizione di genere: il “genus commune” dei beni comuni sta nell’essere tutti intesi al soddisfacimento di diritti fondamentali… Una riflessione critica, come suggerisce Rodotà, non può esimersi dal definire compiti e responsabilità dei “regolatori pubblici, che devono individuare quali beni possano essere accessibili attraverso gli ordinari meccanismi di mercato e quali, invece, debbano essere sottratti a questa logica”65. Compiti e responsabilità dello Stato, mi pare di capire. Ma allora questo significa che la dicotomia “pubblico/privato” dovrà dipendere in larga misura dai “regolatori pubblici”, e che dunque è lecito domandarsi se i beni comuni siano un superamento equidistante dallo Stato e dal mercato o se siano invece una delle possibili vie o strategie mediante le quali il “pubblico” – sotto forma di costituzionalismo dei diritti fondamentali preso sul serio – cerca di mettere briglie più efficaci alla privatizzazione del mondo. In questa direzione mi chiedo  perché Rodotà insista con l’idea dei “beni comuni” che lo pone in compagnia di posizioni così lontane e diverse, e apertamente condannate come ideologiche, pericolose, fondamentaliste»66

Qui mi pare che Vitale si faccia trascinare dall’avversione per “certi” benecomunisti, finendo per credere che esista davvero una categoria di intellettuali, politici e militanti con omogenee idee in materia. Ma soprattutto mi sembra che non prenda atto nel suo testo – apprezzabile nella “pars destruens” ma non altrettanto laddove si trattava di spiegare come fa il “pubblico” a «mettere le briglie alla privatizzazione del mondo» – delle ragioni fondamentali del grande successo in questo ultimo ventennio e a livello universale del concetto e della pratica dei Beni comuni. La prima delle quali è che il “pubblico” non solo non ha messo le “briglie” alle privatizzazioni, ma è stato spessissimo agente in prima persona di esse e delle mercificazioni: e non come “pubblico” astratto – qui è l’errore che accomuna Rodotà agli autori precedenti – ma in quanto “pubblico” privatizzato di fatto dalla politica istituzionale e dai partiti di Sistema, dai funzionari del capitale di Stato, da un insieme di ceti e caste che si comportano, nei confronti dei Beni comuni e della proprietà pubblica, come i capitalisti privati. Peraltro Rodotà, pur lasciando supporre qua e là che davvero pensi ad una terza forma di proprietà, né privata né pubblica, come Mattei e Hardt-Negri, in realtà non fuoriesce dal quadro istituzionale della società capitalistica: e lo dimostra, oltre a tutta la sua storia politica, il testo67 che stiamo qui commentando, dove il riferimento della desiderata costituzionalizzazione dei diritti fondamentali sono le istituzioni esistenti, citate in continuazione sia per quel che fanno sia soprattutto per quello che non fanno ma dovrebbero fare. Rodotà richiama ripetutamente la Costituzione italiana, le sue potenzialità inespresse, la necessità di un suo recupero; e ancor più si ricollega alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, della quale è stato co-autore di spicco, che ritiene un grande strumento per l’affermazione dei diritti fondamentali, in Europa e nel mondo, e la cui sottovalutazione giudica grave errore.

«Bisogna registrare le fratture che attraversano pure il fronte di quelli che si schierano per la lotta per i diritti. La prima è originata da chi ritiene gli storici diritti fondamentali oramai consumati dalla lunga fase dominata dal neoliberismo, usando questo criterio interpretativo anche per la Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea…La seconda frattura matura sul terreno di una critica alla stessa natura giuridica della Carta, ritenuta debole per l’appartenenza alla dimensione del politico…(Al contrario), nei nove anni trascorsi tra la sua proclamazione il 7 dicembre 2000 e il riconoscimento del suo pieno valore giuridico con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona il 1°dicembre 2009, la Carta è stata intensamente usata da Corti nazionali e internazionali, che le hanno attribuito una validità sostanziale in attesa di quella formale, sì che si poteva ben dire che “nel silenzio e nell’incomprensione della politica sono i giudici che fanno l’Europa, proprio su quel terreno dei diritti che il Consiglio di Colonia aveva indicato come costitutivo della legittimità democratica dell’Unione”68…Assai spesso, è solo grazie alla presenza delle Corti e al loro attivismo che la voce del diritto riesce a non essere spenta…smentendo la tesi che presenta la Carta dei diritti come la porta d’entrata nella cattedrale liberista»69.

E a questa esaltazione della Carta, come possibile base per una Costituzione universale dei Diritti fondamentali, si accompagna anche un significativo incoraggiamento alla crescita della Unione Europea, la cui impasse, dopo la bocciatura in alcuni paesi dei Trattati, viene vista con rammarico.  

«La lenta marcia dell’Europa, sempre più faticosa e sempre più esposta a ripulse come è nel destino di ogni impresa che riguarda i diritti, approda così alla creazione della più ampia regione dei diritti oggi esistente, costituita al di là della dimensione statuale, che apre una nuova prospettiva e fa nascere una nuova responsabilità per l’Unione. Se l’Europa sarà capace di riconoscersi fino in fondo nella Carta , rinnoverà una sua antica vocazione e offrirà un saldo punto di riferimento, senza alcuna pretesa egemonica, a tutti quelli che, nei più diversi paesi, lottano per i diritti…Nella costruzione del mondo nuovo dei diritti essa può rivendicare non tanto un primato quanto un’attitudine ad aprire strade che tutti possono poi variamente percorrere»70.

Una fiducia sconfinata, quindi, nelle istituzioni europee, nelle sue Corti di giustizia e nell’Europa tout court, come faro di civiltà giuridica e dei diritti, malgrado la sua storia grondi sangue di guerre infinite e ingiustizie estreme. E tale fiducia si allarga anche ad istituzioni come l’ONU, di cui si segnalano presunti progressi in materia di diritti, fino a concludere che «tutto questo (n.d.a. cioè, dare voce ai diritti fondamentali dei cittadini) accade in un contesto in cui le istituzioni tradizionali non vengono tagliate fuori, ma contribuiscono a una impresa di rinnovamento che può mutare e rafforzare il loro ruolo. L’Onu si presenta come punto di riferimento per un mondo che si struttura proprio per cogliere una occasione da esso offerta»71.

Dunque, le critiche ad un Rodotà extra-istituzionale, convinto dell’impossibilità di cambiare il Sistema e le istituzioni e alla ricerca anch’esso di un esodo benicomunista, sono infondate, e casomai andrebbero avanzate quelle esattamente contrarie, insieme all’evidenziare vari altri punti di debolezza della sua costituzionalizzazione dei diritti fondamentali. Il punto cruciale mi pare questo: malgrado i discorsi sulla necessità di uscire dal dualismo pubblico-privato per definire uno spazio autonomo dei Beni comuni che garantisca la piena realizzazione dei diritti fondamentali, Rodotà svolge l’intera sua “narrazione” e ricerca di nuove vie all’interno delle istituzioni esistenti. Che cosa chiede in definitiva agli Stati, alla UE, all’Onu e alle altre istituzioni politiche? Non già di fuoriuscire dai vincoli capitalistici e di mettere mano alla socializzazione della ricchezza collettiva accumulata dagli Stati, dei principali mezzi di produzione e finanziari e dei Beni comuni sociali, ambientali ed economici: ma di riconoscere l’esistenza e l’autonomia di ampie zone di non-proprietà, da cui escludere il dominio/interferenza della proprietà privata e di quella statale, andando a recuperare, per  l’Italia, alcune aperture in tal senso della nostra Costituzione.

«I beni comuni esigono una diversa forma di razionalità, capace di incarnare i cambiamenti profondi che investono la dimensione sociale, economica, culturale, politica. Siamo così obbligati ad andare oltre lo schema dualistico che ha dominato negli ultimi due secoli la riflessione occidentale – proprietà pubblica o privata…Emerge un retroterra non proprietario…La via verso la riscoperta dei beni comuni è così aperta. Ad una prima lettura, la stessa Costituzione si presenta legata allo schema binario, poiché l’art.42 si apre con le parole “la proprietà è pubblica o privata”. Ma la terza dimensione emerge nell’art.43, dove si prevede che possano essere affidate “a comunità di lavoratori e di utenti imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio, ed abbiano carattere di preminente interesse generale”. Si adotta così una logica istituzionale che svincola l’interesse non individualistico per determinati beni dal riferimento obbligato alla proprietà pubblica, alle nazionalizzazioni. Si apre una terza via tra proprietà privata e pubblica»72.

In realtà, se facessimo riferimento all’art.43 della Costituzione, sarebbe facile replicare a Rodotà che con esso non ci si sposta affatto dallo schema pubblico-privato: concedere la proprietà di alcuni beni a “comunità di lavoratori o di utenti” significa renderli proprietari collettivi di tali beni, in forma cooperativa ma pur sempre privata; cosa che peraltro vale anche nelle società per azioni della grande proprietà privata, ove l’azienda X è proprietà non di un singolo ma di un gruppo di azionisti, seppur con quote proprietarie diverse. Tant’è che Rodotà, consapevole evidentemente del limite di questa citazione, ne allarga il campo, cercando di modificarne radicalmente il significato.

«La riflessione più recente ha progressivamente fatto emergere una nozione di accesso che non è necessariamente collegata all’acquisizione di un titolo di proprietà. Accesso e proprietà si presentano come categorie autonome e, in diverse situazioni, potenzialmente o attualmente in conflitto. Si può accedere ad un bene, e goderne delle utilità, senza assumere la qualità di proprietario. In questo senso, l’accesso costituzionalmente previsto ben può essere inteso come strumento che consente di soddisfare l’interesse all’uso del bene indipendentemente dalla sua appropriazione esclusiva. Siamo così al di là delle stesse opportunità offerte dall’art.43…“La proprietà non ha bisogno di essere confinata, come ha fatto la teoria liberale, nel diritto di escludere gli altri dall’uso e dal godimento di alcuni beni, ma può egualmente consistere in un diritto individuale a non essere escluso a opera di altri dall’uso e dal godimento di alcuni beni”73Si potrebbe dire che si passa da una proprietà “esclusiva” ad una “inclusiva”»74. 

Ciò che qui Rodotà sembra stranamente trascurare – magari a causa della sua identificazione con leggi e Costituzioni – è che quello che conta davvero per le sorti dei Beni comuni, e dell’insieme delle strutture “pubbliche” e statali, non è la loro proprietà formale ma il loro possesso sostanziale. Nei loro riguardi, più che andare a vedere chi ne abbia la proprietà per legge, bisogna valutare chi su di esse esercita l’effettivo potere d’uso, ossia chi ne può determinare le finalità, l’utilizzo, la distribuzione dei loro frutti; chi, insomma, ha su di esse il pieno potere decisionale.  E’ la grande lezione che ci è venuta nell’ultimo secolo non solo dagli Stati a “socialismo reale” dove,  al di là della strumentale retorica sulla “dittatura proletaria”, di fatto il possesso e i poteri decisionali sugli apparati produttivi e istituzionali erano tutti in mano al Partito-Stato e alla onnipotente borghesia di Stato dei funzionari “comunisti”: ma anche dalla storia del sempre più esteso  capitalismo di Stato ad Occidente, dove i partiti di Sistema e la classe/casta dei politici professionali e dei funzionari del capitale di Stato si sono impadroniti di gran parte dell’apparato produttivo e finanziario, nonché dell’uso della ricchezza “pubblica” senza bisogno di sanzionare questa forma di possesso sostanziale con regole legislative e burocratiche di proprietà formale.

E la linea di fuga di inserire i Beni comuni in un terzo spazio, ove apparterrebbero “a tutti e a nessuno”, è illusoria. Tant’è che, quando Rodotà scende nel concreto, riesce a trovare un solo campo ove l’argomentazione ha una sua forza, il web, la rete di Internet, con tutti i suoi derivati: e non è un caso che, in preda ad una grande fascinazione per la Rete e i suoi poteri, la gran parte dell’argomentazione di Rodotà sui Beni comuni ruoti sul libero accesso e utilizzo di Internet, e che persino la conoscenza non sia affrontata a partire da scuola e Università ma sempre dalla “mitica” Rete. Certo, per essa possono valere i discorsi del libero accesso e della non-proprietà, del Bene comune che appartiene a tutti e a nessuno. Ma non si può fondare su di essa un intero discorso teorico e politico sulla fuoriuscita dalla dicotomia pubblico-privato, e tantomeno la definizione di modelli di nuova democrazia che sembrano saltare a piè pari gli spinosi problemi in merito a chi, e come, ha gli effettivi poteri decisionali sui Beni comuni e sui diritti fondamentali. Già quando Rodotà passa su un terreno pur a lui ben noto – avendo lavorato alla strumentazione giuridica per la difesa del carattere pubblico dell’acqua, contribuendo ai quesiti del vittorioso referendum del 2011 –  deve registrare come i poteri “pubblici”, dopo il referendum, abbiano imposto una serie di provvedimenti legislativi per annullare le tendenze alla non-proprietà e al libero accesso all’acqua. Rodotà definisce i Beni comuni «funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali della persona». Il che, però, non risponde ad una lunga serie di interrogativi. Esistono dei diritti fondamentali validi in ogni epoca e per tutti? E se essi invece valgono in certe epoche e non in altre, più in alcune parti del mondo e meno in altre, e sono comunque conflittuali, frutto di decisioni collettive ma discordanti, chi decide in merito? Che diritti e Beni comuni vadano necessariamente storicizzati non sfugge a Rodotà, che anzi mette in guardia da possibili scissioni tra “vecchi e nuovi” diritti.

«Non muta solo il catalogo dei diritti riconosciuti, ma lo stesso modo in cui essi sono percepiti, sentiti, praticati…L’espressione “nuovi diritti” deve essere considerata, a un tempo, accattivante e ambigua. Ci seduce con la promessa di una dimensione dei diritti sempre capace di rinnovarsi, di incontrare in ogni momento una realtà in continuo movimento. Al tempo stesso, però, lascia intravedere una contrapposizione tra diritti vecchi e nuovi come se il tempo dovesse consumare quelli più lontani, lasciando il campo libero ad un prodotto più aggiornato. Ma il mondo dei diritti vive pure di accumulazione, non di sostituzione, anche se la storia e l’attualità sono fitte di esempi che mostrano come programmi deliberati di mortificazione della libertà passino proprio attraverso la contrapposizione tra diverse categorie di diritti. Se ne enfatizzano alcune per cancellare tutte le altre. Le dittature concedono sovente vantaggi materiali e sopprimono diritti civili e politici, prospettano uno scambio tra qualche “nuovo” diritto sociale e i “vecchi” diritti di libertà»75.

Dunque, Rodotà è pienamente consapevole della storicizzazione, del mutamento della condivisione su cosa sia, o possa essere, Bene comune e/o diritto fondamentale. Considerazioni inevitabili se solo ci si guarda indietro storicamente e intorno geograficamente. Né l’istruzione né la sanità sono stati considerati Beni comuni e diritti fondamentali per decine di secoli, e non parliamo del diritto all’informazione e alla comunicazione, alla conoscenza o alla disponibilità di energia e di trasporti. Inoltre Rodotà prende atto che esistono contrasti tra diverse categorie di diritti e sulle diverse modalità d’uso dei Beni comuni, anche “in seno al popolo”: e questo persino laddove – vedi le esperienze degli ultimi anni nei paesi dell’America Latina con governi progressisti – sia i governi sia la maggioranza della popolazione hanno sostenuto politiche ostili alla privatizzazione dei Beni comuni. La via d’uscita non può quindi essere né la sola costituzionalizzazione dei diritti fondamentali (anche Rodotà ha denunciato la distanza tra le Costituzioni “cartacee” e quelle sostanziali della pratica politica); né l’istituzione di forme terze di proprietà (o di non-proprietà), visto che a decidere su di esse sarebbe comunque il possesso effettivo dei Beni; né infine l’oscillazione tra il ripudio della proprietà “pubblica” – assegnata alla classe politica e dei funzionari del capitale di Stato – e l’affidamento dei diritti e dei Beni comuni alle istituzioni esistenti, sperando che nuove leggi miracolosamente provochino la loro reale pubblicizzazione.

La questione delle questioni resta la vera socializzazione del “pubblico”, sottratto alla privatizzazione operata dalle classi/caste politiche e dalla nomenclatura di Stato, in collusione con i poteri privati: e per questo è decisiva la sperimentazione di forme originali di democrazia integrale che coinvolgano – facendo diventare l’esercizio democratico non solo un diritto ma un dovere sociale – la maggioranza della popolazione, avviando una transizione oltre le attuali strutture di Sistema. In tal senso colpisce il numero esiguo di pagine dedicate allo studio di nuove possibili forme democratiche in grado di garantire una vera socializzazione dei Beni comuni. Pressoché tutta la trattazione sul tema della democrazia e della decisionalità è riservata alla democrazia della Rete e alle potenzialità decisionali del Web (Una Rete per i diritti è il titolo del capitolo sulle Frontiere della democrazia, ove queste sembrano concentrarsi per Rodotà nella democrazia internettiana), con toni e contenuti sorprendenti per coinvolgimento intellettuale ed emotivo, al limite della infatuazione da nerd smanettante o da neofita Cinque Stelle.

«Internet, il più grande spazio pubblico che l’umanità abbia conosciuto, la rete che avvolge l’intero pianeta, non ha sovrano. Nel 1996 John Perry Barlow apriva così la sua “Dichiarazione di indipendenza del cyberspazio”: “Governi del mondo industriale, stanchi giganti di carne e di acciaio, io vengo dal Cyberspazio, la nuova dimora della mente. In nome del futuro, invito voi, che venite dal passato, a lasciarci in pace. Non siete benvenuti tra noi. Non avete sovranità sui luoghi dove ci incontriamo”76. Questa affermazione orgogliosa riflette il sentire di una sterminata platea in continua crescita fino agli attuali due miliardi di persone, che si identifica con una invincibile natura di Internet, libertaria fino all’anarchia, coerente con il progetto di dar vita ad una rete di comunicazione che nessuno potesse bloccare o controllare…Più Internet cresceva, acquistando così una rilevanza sociale e politica sempre maggiore, più si è fatta aggressiva la pretesa degli Stati di far valere le loro antiche prerogative…Ma nel mondo sconfinato questa pretesa è indebolita dalla “fine del territorio giacobino”77, circondato da sicuri confini, governato da un unico centro. Gli Stati nazionali cercano di far valere il potere tutt’altro che residuale di cui ancora dispongono, ma non possono stabilire una sovranità sul cyberspazio»78.

Ancora più elegiaco, seppur con parecchi verbi al condizionale, appare Rodotà nel presentare l’analogia, non originale, tra Internet e il «mito fondativo della democrazia, l’agorà di Atene», nonché le enormi possibilità del passaggio al Web 2.0, quello delle reti sociali:

«Sull’orizzonte originario di Internet si staglia nitido il mito fondativo della democrazia: l’agorà di Atene. Nel villaggio globale, nell’immensa sua piazza virtuale, sarebbe stato possibile ricostruire le condizioni della democrazia diretta. Internet sarebbe così venuta in soccorso della morente democrazia rappresentativa e l’avrebbe traghettata sui lidi più sicuri di una democrazia “immediata”, un sistema politico caratterizzato da referendum istantanei, da una consultazione permanente dei cittadini…Il passaggio dal Web 1.0 al Web 2.0, quello delle reti sociali, ha attribuito una dimensione nuova al rapporto tra democrazia e diritti. Si sono arricchite le possibilità di azione organizzata, non solo e non tanto dal punto di vista quantitativo, quanto piuttosto per la qualità dei soggetti, oramai in grado di articolare in modo nuovo le relazioni sociali e di dar vita a forme variegate di azione politica individuale e collettiva, sia riproducendo il modello delle manifestazioni pubbliche di massa… sia innovando profondamente la presenza delle persone sulla scena pubblica. Continuando ad usare sempre più intensamente la tecnologia, la vita esce dallo schermo e invade, in modo nuovo, l’intero mondo, ridefinisce la sfera pubblica e quella privata e progressivamente disegna una redistribuzione dei poteri (pp.380/1/2)».

Rodotà non ignora del tutto i limiti della democrazia web e dei processi decisionali ad essa affidati. Qua e là prende un po’ di distanza dalla mitologia della nuova agorà (che poi la vecchia agorà, in quanto a limiti, ne aveva di ben più clamorosi: schiavista, razzista e ultra-classista, escludeva i ceti “servili”, gli schiavi, i migranti e le donne, cioè la grande maggioranza della popolazione) e dalla trasversalità del web, nonché dai suoi poteri di gestire mobilitazioni concrete, non confinate nelle tastiere, fatte di persone in carne ed ossa in città, piazze e strade fisiche e non virtuali.

«Gli interrogativi intorno alla qualità della democrazia elettronica – espansione massima del potere del cittadino, forma del populismo contemporaneo, strumento di più insidiosi totalitarismi, realizzazione del socialismo o espressione del “fascismo digitale” – non possono essere affrontati considerando solo la strumentazione resa possibile dalla tecnologia…Anche nel mondo nuovo creato dalle tecnologie è indispensabile una riflessione sull’insieme delle precondizioni che rendono possibile il processo democratico…La rete ha cambiato la società, ma quest’ultima cambia la rete, che si manifesta così come luogo di conflitti…Gli Stati impongono la loro presenza, esercitano i loro poteri, come testimonia, tra i tanti, il conflitto che oppose Google alla Repubblica popolare cinese…Gli “stanchi giganti di carne ed acciaio” sono ancora lì e tendono a “legificare” il mondo di Internet…(e) incontriamo soprattutto nuovi e vitalissimi giganti di silicio, i grandi soggetti economici che si identificano con la rete, esercitano estesi e incontrollati poteri di governo, si coalizzano per chiedere regole alla loro misura, mettendo ad esempio in discussione le garanzie previste per la privacy delle persone (pp.413/4)».

E in quanto alla novità della Rete di indurre mobilitazioni e di guidarle, nel seguente brano Rodotà  ridimensiona le sue stesse affermazioni precedenti: «La novità divenne visibile per tutti il 30 novembre 1999, a Seattle, in occasione della grande manifestazione contro il WTO. Quella manifestazione non sarebbe stata possibile senza la rete, che mise in contatto gli attivisti e identificò le modalità di azione. Ma assunse significato e forza quando uscì dalla piazza virtuale e si materializzò nelle strade di Seattle, dove i manifestanti bloccavano i delegati del WTO. E quel fatto divenne patrimonio comune quando le immagini vennero diffuse in tutti gli angoli del mondo da un mezzo che veniva dal passato, la televisione generalista. Una vicenda per molti versi analoga si ritrova nelle primavere arabe, nei fatti egiziani in particolare… gli stessi bloggers hanno messo in evidenza il rischio di una sopravvalutazione del ruolo della rete, sottolineando come la rivolta fosse cominciata con manifestazioni di lavoratori che certo non avevano la disponibilità di Twitter, e che il movimento era continuato anche dopo che Mubarak aveva bloccato le comunicazioni. La rete avrebbe avuto piuttosto il ruolo di diffondere il messaggio delle manifestazioni popolari, mostrando quello che già stava avvenendo nel mondo reale…Gli effetti politici delle iniziative in rete sono ancora fortemente dipendenti dal modo in cui esse si concretizzano nel mondo reale. Senza le centinaia di migliaia di persone in Piazza Tahrir, e decise a non abbandonarla fino alle dimissioni di Mubarak, la caduta del regime non sarebbe avvenuta (pp.382/3)».

Correzioni utili rispetto alla enfasi di altri brani del libro sulla democrazia telematica: ma che non mi paiono sufficienti a riequilibrare e a rendere corretta l’intera trattazione, che comunque parte dal presupposto che esista qualcosa come un gigantesco, convergente, sintonico ed universale popolo della rete – «il punto chiave è rappresentato dall’esistenza delpopolo della rete”, disteso sull’intero pianeta, diffuso al di là di ogni confine e che si organizza in nuove “nazioni”: la comunità di Facebook è la terza al mondo come popolazione, dopo la Cina e l’India (p.416)» – e che lo strumento tecnico possa determinare di per sé la sostanza dei meccanismi democratici, cambiando le modalità di formazione della volontà comune. Trovo persino imbarazzante dover ricordare ad un intellettuale e politico dello spessore culturale di Rodotà che non esiste un popolo della Rete, non più di quanto nel secondo dopoguerra esistesse un popolo del telefono, o poi un popolo dei fax e, andando indietro nei secoli, un popolo delle lettere. Anche la diffusione universale dei telefoni (quelli fissi) ha agevolato collegamenti organizzativi e scambi di idee ed iniziative con un salto di qualità enorme rispetto a quando tutto ciò passava solo attraverso il contatto diretto o le Poste: e queste ultime, una volta diffuse a livello mondiale, permisero analoghi salti di qualità nei collegamenti rispetto ai secoli precedenti.

Ma lo strumento tecnico non ha mai uniformato uno specifico “popolo”. Gli utilizzatori del web, come quelli dei telefoni o delle Poste, non hanno nulla in comune tra loro, in quanto ad orientamenti politici, sociali, intellettuali e morali (al cui proposito le schifezze più immonde inondano la Rete e sovente scacciano con la “moneta cattiva” quella buona), presentando a 360 gradi tutto l’arco di posizioni sulla democrazia e sull’utilizzo della Rete stessa, da quelle più reazionarie, razziste e xenofobe alle illusioni più ingenue sulla bontà della decisionalità telematica, per lo più a base di mi piace/non mi piace. Insomma, non sono affatto un popolo, ancor meno di coloro che tifano per una squadra di calcio o che amano le motociclette, che vanno in palestra o viaggiano in treno o in aereo: tutti costoro, al di fuori di tali specifiche attività, appartengono a mille mondi ideologici, politici e culturali diversi, conflittuali, magari contrapposti. Se colpisce, dunque, il dover sottolineare un errore così marchiano, sorprende meno segnalarne un altro, che forse risulta meno clamoroso perché ripetutamente commesso da tanti intellettuali, filosofi, politici impegnati in tentativi teorici o pratici di trasformazione sociale del mondo: a partire da Marx e Engels che già nel  Manifesto mostravano chiaramente di nutrire analoghe illusioni sulla potenza del mezzo nei processi di unificazione e crescita della conflittualità e della progettualità alternativa. 

«Di quando in quando gli operai vincono, ma solo in modo effimero. Il vero risultato delle loro lotte non è il successo immediato, ma l’unione sempre più estesa degli operai. Essa è agevolata dai crescenti mezzi di comunicazione che sono creati dalla grande industria e che collegano tra di loro operai di località diverse. Basta questo semplice collegamento per concentrare le molte lotte locali, aventi dappertutto ugual carattere, in una lotta nazionale, in una lotta di classe. E l’unione per raggiungere la quale ai borghigiani del Medioevo, con le loro strade vicinali, occorsero dei secoli, oggi, con le ferrovie, viene realizzata dai proletari in pochi anni»79.

Seppure Marx e Engels parlavano di reti stradali e ferroviarie, piuttosto che telematiche, le illusioni nella potenza del mezzo appaiono del tutto simili a quelle di Rodotà: «Il tema dei diritti viene percepito come universale per il solo fatto che in esso si riconoscono già più di due miliardi di persone, che nella Rete variamente operano. Questi segni confermano come al tempo della (presunta) fine delle ideologie e del tramonto di ogni grande narrazione, proprio i diritti fondamentali si palesano come una narrazione capace di unificare, di produrre relazioni, di rivelare la radice comune di iniziative che si manifestano nei più diversi luoghi del mondo. E’ in corso una inedita, quasi quotidiana dichiarazione dei diritti, che nasce dai comportamenti rivendicativi di una molteplicità crescente di soggetti. La Rete è, al tempo stesso, luogo e condizione perché questo assuma forma concreta»80.

No, proprio no! Esattamente come le reti ferroviarie e stradali nell’Ottocento non unificarono gli operai, e ne agevolarono i collegamenti così come le divisioni e i dissidi, altrettanto le reti telematiche possono accelerare le alleanze e le coalizioni esattamente come le distinzioni, le frammentazioni e i solipsismi di individui o categorie. Insomma, è del tutto sballata l’idea che i due miliardi di persone collegate in Internet siano sostenitori unificati dei diritti universali, avendo sul tema migliaia di opinioni diverse e contrapposte, tra chi si batte per il diritto dei migranti ad avere la cittadinanza universale e chi vorrebbe “il diritto” di sbatterli fuori tutti dal proprio paese; tra chi chiede il diritto di matrimonio e di adozioni per coppie di qualsiasi sesso o preferenza sessuale e i nazi-islamisti che vorrebbero universalizzare quel “diritto” che condanna a pene atroci gli omosessuali. Quindi, è fuori da ogni logica considerare come un dato oggettivo, unitario o almeno convergente quello che Rodotà considera «il popolo della rete che si organizza in nuove “nazioni”, la comunità di Facebook, la terza al mondo come popolazione dopo la Cina e l’India». Non c’è nessuna “nazione” di Facebook o di Twitter, di WhatsApp o di You Tube: in compenso, le nazioni vere proliferano, si scindono più di quanto si unifichino, e il web divide almeno quanto collega: ed è un errore marchiano sostenere, come fa Rodotà, che sia «il luogo e la condizione» per il progetto globale di affermazione dei Beni comuni e dei diritti universali.

L’unità – o, come sarebbe più corretto dire, le alleanze e le coalizioni, mobili e dinamiche – si costruisce nella realtà concreta, pur se influenzata da quella virtuale, tra persone, classi, ceti e identità in carne e ossa, vis à vis, in un faticoso processo di individuazione di obiettivi, temi e modalità di lotta comune che, pur amplificato dagli strumenti tecnici sempre più potenti, gioca pur sempre la propria sorte nelle piazze, nei posti di lavoro e di studio, nei territori di vita e di conflitto: come d’altra parte riconosceva nel brano prima citato lo stesso Rodotà, riportando i pareri dei blogger delle “primavere arabe”, che valgono anche per Occupy Wall Street o per gli indignados spagnoli o, seppur in maniera tragica, per i conflitti in Ucraina o in Palestina o in Siria, ove lo scarto tra il virtuale e il reale è clamorosamente scritto con il sangue. D’altra parte di tutto ciò abbiamo fatto esperienza anche nell’ultimo ventennio in Italia: il punto massimo di forza delle alleanze e del movimento antiliberista e pro-Beni comuni, si è manifestato nel triennio 2001-2003, quando nessuno dei social network famosi esisteva e la Rete non aveva affatto l’estensione di oggi; mentre negli anni della crisi, il web sociale, divenuto assai più potente, non ha per nulla ovviato alla debolezza dell’anticapitalismo e dell’antiliberismo nostrano. Anzi: ha amplificato lo scarto tra la combattività concreta e quella da tastiera – e le notevolissime energie lì impiegate -, con decine di migliaia di persone che approvano una mobilitazione nella piazza virtuale, e poi si ritrovano in poche centinaia in quella reale. Il che vale altrettanto per le nuove, indispensabili modalità decisionali. Di certo non si può pensare di prendere decisioni di rilievo attraverso una votazione permanente in Rete su questioni complesse, che richiedano ampie conoscenze, riflessioni ed elaborazioni, e soprattutto mediazioni tra interessi diversi, usando una batteria di sì o no davanti a domande ultra-semplificate e presentate univocamente (l’esperienza del M5S e del duo Casaleggio-Grillo, a livello nazionale, fa scuola in tal senso) da una sorta di indiscutibile, e spesso occulta, oligarchia telematica.

Per ultimo ma non meno importante, anzi: l’intera argomentazione di Rodotà resta all’interno del sistema esistente, non si pone obiettivi di fuoriuscita dal capitalismo ma di sua riforma, mediante l’allargamento degli spazi e delle garanzie per i Beni comuni e per i diritti dei cittadini/e. Di per sé la cosa non sorprende visto che l’excursus politico e intellettuale di Rodotà si è svolto interamente all’interno del social-riformismo. Pur tuttavia, non si può non segnalare l’illusorietà intellettuale e l’irrealismo politico di chi ritiene possibile edificare una società dei Beni comuni senza intaccare i poteri fondanti dell’attuale società e senza sconvolgere il dominio del capitale privato e di Stato. E non è possibile escludere dal novero dei Beni comuni da socializzare quelli economici, che riguardano la gestione comunitaria dei mezzi di produzione industriali e agricoli strategici per la società, e della ricchezza finanziaria “pubblica”, accumulata con i contributi dei cittadini/e, formalmente statale ma in concreto privatizzata dalle borghesie di Stato e dalle nomenclature politicanti che gestiscono a loro uso e consumo le istituzioni e il capitale “pubblico e difendono i grandi capitali privati formati non grazie all’industriosità ma, almeno al 90%, con il saccheggio delle risorse statali, l’economia mafiosa e illegale, la massiccia evasione fiscale, la devastazione del territorio e le frodi industriali. A tal proposito Rodotà tace, dedicando al terreno economico solo un riferimento al pur sacrosanto diritto universale ad una vita dignitosa e ad una retribuzione anche in caso di incapacità del sistema a garantire lavoro, attraverso quel reddito minimo garantito, che pur essendo oggi, giustamente, tema cruciale di scontro in Italia, non basta però ad intaccare il cuore del potere capitalista; mentre, in una prospettiva di trasformazioni radicali del Sistema, bisogna mettere mano alle risorse essenziali e ineludibili per la realizzazione pratica di un progetto così ambizioso: e cioè, appunto, i mezzi di produzione fondamentali, gli strumenti finanziari principali, la ricchezza “pubblica” collettiva accumulata nelle mani dello Stato.

Perché, come il buonsenso popolare ci ricorda che non si fanno le nozze con i fichi secchi, altrettanto non è pensabile una reale socializzazione dei Beni comuni e una grande espansione dei diritti individuali e collettivi senza garantirsi i mezzi materiali – dunque finanziari, industriali e produttivi – per la loro attuazione, e per la fuoriuscita dalla trappola del debito e dallo spossessamento collettivo della ricchezza “pubblica”.

NOTE

1    Piero Bernocchi, Benicomunismo, Massari Editore, Bolsena 2012.

2   Gianluigi Deiana  Il benicomunismo come antidogma e paradigma, in Oltre il capitalismo,           

Massari Editore, Bolsena 2015, p.320.                   

3   Ermanno Vitale, Contro i beni comuni. Una critica illuminista, Laterza, Bari 2013.

4   Ugo Mattei, Beni comuni. Un manifesto, Laterza, Bari 2012.

5   E.Vitale, op. cit., p.VII.

6   Ibidem, p.VIII.

7   U. Mattei, op. cit. p.XIII.

8   Ibidem.

9   Ibid. pp.XVI-XVII.

10  E.Vitale, op.cit., p.IX.

11  U.Mattei, op.cit., pp.VI-VII.

12  Ibidem, pp.14-15-17.

13  Ibid., p.12.

14  Mattei fa coincidere l’affermazione in Europa di questa centralizzazione e sovranità assoluta statuale con la pace di Westfalia (1648), che pose fine alla Guerra dei Trenta Anni e fondò sul Trattato internazionale ivi stipulato i futuri rapporti tra Stati sovrani, basati sull’«onnipotenza del legislatore nel suo territorio, su una organizzazione largamente gerarchica della sovranità e su un unico sistema di fonti del diritto, valide solamente all’interno dei confini di ogni singolo Stato e sulle quali si è sviluppato l’immaginario giuridico moderno (p.9)».

15  U. Mattei, op. cit. pp. 10-11.

16  Con il termine inglese enclosure (equivalente all’italiano recinzione) si intende, come ricorda Vitale (op. cit., p.15), quel processo di «recinzione e privatizzazione dei campi aperti (open fields) e in generale delle proprietà comuni dei villaggi – con annessi diritti consuetudinari di cacciare, pescare, fare legna ecc. – nell’Europa e in particolare nell’Inghilterra dei secoli XV-XIX».

17 U.Mattei, op. cit., pp.32-34-35-36-38-39.

18  Tommaso Moro (Londra 1478-1535) è il nome italianizzato di Thomas More. A questo celebre umanista si deve l’adozione del termine utopia: titolo dell’opera (pubblicata nel 1516) in cui immaginò un’isola dotata di un sistema politico così perfetto da farne una società ideale.

19  E.Vitale, op. cit., pp.IX-X.

20  C.A.Ristuccia, Alla ricerca di un buon modello per l’uso delle risorse comuni, in E.Ostrom, Governare i beni collettivi, Marsilio, Venezia 2006, p.XXI.

21  E.Vitale, op.cit., p.19.

22  Karl Polanyi (Vienna, 1886 – Pickering 1964), economista, sociologo, filosofo e antropologo ungherese, è soprattutto famoso per l’attività di economista e per il mix di antropologia ed economia presente in vari suoi studi. La sua opera principale è considerata unanimemente La grande trasformazione, nella quale ha descritto il ruolo delle “enclosures” nelle trasformazioni sociali ed economiche europee e le modalità di diffusione del sistema capitalistico all’inizio dell’Ottocento. Ma la sua modernità deriva ancor più dall’impostazione critica nei confronti dell’economia di mercato capitalistica, di cui ha negato la “naturalità”, considerandola anzi una vera e propria anomalia nella storia delle società.

23  K.Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino 1974, p.46.

24  E.Vitale, op. cit., p.24.

25  U.Mattei, op.cit., pp.46-7.

26 Già l’uso enfatico e favolistico del termine Gaia per indicare il nostro pianeta fa drizzare i capelli in testa. Perché la parola è presa dalla mitologia greca, dove rappresentava la personificazione della Terra. Più precisamente, in quanto supremo Essere vivente femminilizzato, Gaia sarebbe nata, nell’universo, dopo Chaos e prima di Eros, e avrebbe poi generato Urano (il cielo) e Ponto (il mare). Dopodiché, dall’unione con Urano, sarebbero stati partoriti tutti gli dei dell’Olimpo greco e poi i Ciclopi. In generale, nella cultura greca dell’antichità, Gaia veniva identificata sia con la Madre dell’universo sia con la Madre degli dei.

27  E.Vitale, op.cit., pp.41-2.

28  Ibidem, p.39.

29  U.Mattei, op.cit., pp.83-4.

30  M.Hardt–A. Negri, Comune. Oltre il privato e il pubblico, Rizzoli, Milano 2010.

31  E.Vitale, op.cit., pp.55-6-7.   

32   M. Hardt–A. Negri, Impero, Rizzoli, Milano 2002. Per una critica organica delle tesi di Impero cfr. tra gli altri il mio scritto L’Impero “buono. L’aggressione all’Iraq e la guerra permanente, pubblicato sulla rivista L’Ernesto n.4, 2002.

33   Il termine inglese backlash si usa in meccanica per indicare un forte scatto all’indietro di un qualche meccanismo, una sorta di rinculo. Per estensione figurata, significa una reazione violenta che riporta indietro bruscamente un qualche processo di avanzamento.

34  Qui Negri si riferisce evidentemente al nazifascismo trionfante. Solo che la vittoria del fascismo in Italia avvenne una decina di anni prima del “mutamento di scenario degli anni’30”.

35  Benicomunismo, op.cit., p.136.

36  M. Hardt-A. Negri, Moltitudine, Rizzoli, Milano 2004.

37 Ho usato la metafora del grano e della pula – che, per chi non avesse dimestichezza con faccende agricole e cerealicole, è un cascame della trebbiatura del grano, costituito per lo più dall’involucro dei chicchi – perché in effetti la scrittura di Hardt-Negri sembra privilegiare assai spesso la brillantezza e attrattività, ma anche l’evanescenza, dell’involucro, i cascami dell’astrazione, piuttosto che la concreta, prosaica e ricca sostanza del contenuto. Ed ho naturalmente evitato l’altra metafora della separazione del grano dal loglio, perché, sempre per i più digiuni di cerealicoltura, il loglio (Lolium temulentum, in termini scientifici, popolarmente detto anche zizzania, dal che l’espressione sul “mettere zizzania”) è una pianta erbacea delle Graminacee che infesta e danneggia le colture di cereali; e soprattutto è stato usato in una nota parabola evangelica come simbolo della malvagità e della discordia permanente: attributi che di certo non potevo propinare ai due autori.

38  M.Hardt-A.Negri, Oltre il privato e il pubblico, op. cit. pp.28-38-39.       

39 Tra le principali opere di Foucault in cui si dipana il concetto di biopotere, vanno ricordate Sorvegliare e punireNascita della prigione, Microfisica del potere, Storia della follia nell’età classica, Nascita della clinica, Storia della sessualità.

40  M.Hardt-A.Negri, op. cit., p.67.    

41  Ibidem, pp.37-137.

42 «Intendiamo sviluppare il metodo del Kant minore per il quale il coraggio di conoscere richiede, nello stesso tempo, che si sappia come osare…Mentre il Kant maggiore fornisce gli strumenti atti ancora oggi a sostenere e a difendere la repubblica della proprietà, il Kant minore ci aiuta a comprendere come rovesciarla e come costruire una democrazia della moltitudine».                    Ibid., pp.33-43.

43  A. Negri, Il backlash imperialista sull’Impero, intervista al Manifesto, 14 settembre 2002. 

44  Vedi in particolare: Saskia Sassen, Territorio, autorità, diritti. Assemblaggi dal Medioevo all’età globale, Bruno Mondadori, Milano 2008.

45  Paolo Virno, Il cosiddetto male e la critica dello Stato, Forme di vita n.4, 2005, pp.9-36.

46 Etienne Balibar, La paura delle masse. Politica e filosofia prima e dopo Marx, Mimesis Eterotopia, Milano 2001, pp.33-57; Potentia multitudinis, Materiali materialisti n.3-4, 2004-2005, pp.303 e sgg.

47  Slavoj Zizek, The Parallax View, Mit Press, Cambridge Mass. 2006, pp.261-7.

48  Alain Badiou, Beyond Formalization: An Interview, Angelaki n.2, 2003, p.125.

49  M.Hardt-A.Negri, op. cit., pp.172-173-174.

50  E.Vitale, op.cit., p.58.

51  Il testo di Stefano Rodotà, Beni comuni: una strategia globale contro lo human divide, funge da postfazione al volume di autori vari curato da Maria Rosaria Marella, Oltre il pubblico e il privato. Per un diritto dei beni comuni, Ombre Corte, Verona 2012.

52  S.Rodotà, op. cit., p.319.

53  Ibidem, p.327.

54  Ibid., p.330.

55  E.Vitale, op.cit., pp.65-66-67.

56  Il titolo è ripreso dal seguente brano di Hannah Arendt, apparso nel suo libro, del 1951, Le origini del totalitarismo: «Il diritto a avere diritti, o il diritto di ogni individuo ad appartenere all’umanità, dovrebbe essere garantito dall’umanità stessa»>.

57  S.Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, Bari 2012, p.94.

58  Ibidem, pp.6-7.

59  Ibid., pp.14-70.

60  Non va dimenticato che Stefano Rodotà ha svolto, da coerente riformista, tutto il suo cursus honoris nella “sinistra di Sistema”. Eletto per 4 volte parlamentare nelle liste del PCI e dei partiti eredi, è stato ministro della Giustizia nel cosiddetto governo-ombra di Occhetto, poi primo presidente del Congresso nazionale PDS; e a seguire, vicepresidente della Camera, per dieci anni membro dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa, e dal ’97 al 2005 presidente della, pur farraginosa, Authority garante della privacy; infine, è stato tra gli autori della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e ne ha presieduto il gruppo per la tutela della privacy. Rodotà ha però ottenuto il massimo di visibilità politica in Italia grazie alla sponsorizzazione – poi brutalmente ritirata – di Grillo e del M5S, che lo hanno candidato a presidente della Repubblica nelle ultime elezioni che poi hanno riconfermato Giorgio Napolitano, in contrapposizione a Prodi e ai candidati del PD. Per la verità, più che spostarsi lui a sinistra o addirittura su posizioni rivoluzionarie e anti-Sistema, sono stati tutti gli eredi del Pci a scavalcarlo a destra, in una precipitosa e acefala rincorsa delle posizioni più liberiste e filo-capitaliste.

61  S.Rodotà, Postfazione a Oltre il pubblico e il privato…, op.cit., p.324.

62  Ibidem, p.316.

63  Ibid., p.320.

64  E.Vitale, op. cit., pp.67-68.

65  S.Rodotà, Postfazione…, op.cit., p.331.

66  E.Vitale, op.cit., pp.69-70.

67  Va però detto che Il diritto di avere diritti è stato pubblicato a brevissima distanza dall’uscita del pamphlet di Vitale, il quale molto probabilmente aveva già consegnato il suo scritto al momento di poter leggere l’ultima opera di Rodotà, ove si chiariscono meglio varie cose a proposito della sua impostazione sui Beni comuni e sul loro rapporto con i diritti fondamentali.

68  S.Rodotà, Nel silenzio della politica i giudici fanno l’Europa, in G. Bronzini e V. Piccone (a cura di), La Carta e le Corti. I diritti fondamentali nella giurisprudenza europea multilivello, Chimienti, Taranto 2007, p.27.

69  S.Rodotà, Il diritto di avere diritti, op.cit., pp.96-97.

70  Ibidem, p.97.

71  Ibid., p.420.

72  Ibid., p.107-108.

73  C.B. Macpherson, Liberal-Democracy and Property, in Id. (a cura di), Property. Mainstream and Critical Positions, Oxford University Press, Oxford 1978, p.201.

74  S.Rodotà, op. cit., pp.108-109.

75  Ibidem, pp.71-72.

76   In Internet si trova sia il testo originale, in inglese, della Dichiarazione di Barlow sia numerose traduzioni italiane. Ricordo che il termine cyberspazio deriva dall’inglese cybernetics (o dall’italiano cibernetica) – e il tutto dal greco kybernetiké, letteralmente “arte (o tecnica) del pilota” – che è stato inventato dal matematico statunitense Wiener nel 1947, per indicare quel ramo della scienza che studia e realizza strumenti e macchine in grado di simulare il funzionamento del cervello umano (e in seguito anche di altre parti del corpo), autoregolandosi per mezzo di segnali, comandi e linguaggi artificiali interni, tramite circuiti elettrici ed elettronici.

77  J.P. Balligand–D.Maquart, La fin du territoire jacobin, Albin Michel, Paris 1990.

78  S.Rodotà, op. cit., p.379.

79  K.Marx-F.Engels, Manifesto del partito comunista, op. cit., p.70.

80  S.Rodotà, op.cit., p.416.