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IL LIBERISMO, LO STATO E IL MOVIMENTO
Il movimento che si è manifestato clamorosamente a Genova si è spesso definito “movimento contro la globalizzazione liberista”. Ma quando usiamo il termine “liberismo” bisogna intendersi: guai a prendere sul serio la lettura che il capitalismo dà di sè stesso. Nei dizionari economici alla voce “liberismo” si legge :”sistema imperniato sulla libertà del mercato, in cui lo Stato si limita a garantire con norme giuridiche la piena libertà economica e a provvedere soltanto ai bisogni della collettività non soddisfacibili per iniziativa dei singoli, e nel quale c’è altrettanta piena libertà del commercio internazionale, e si realizza un libero scambio, in contrapposizione al protezionismo economico e commerciale”.
Liberismo a senso unico
Chi può davvero sostenere che l’attuale sistema economico mondiale sia strutturato sulla base di tali principi, su un “libero scambio” scevro da protezionismi o monopoli che falsino o annullino la “libertà del mercato”? E che gli Stati più potenti non intervengano in continuazione a violentare il “libero mercato”, anche in chiave apertamente protezionistica? Non è forse vero che oggi, più che mai,la realtà economica è lontanissima dalla ipotesi agiografica di una domanda e di una offerta polverizzate che si incontrerebbero liberamente su un mercato indenne da interventi politico-statali e monopolistici? E che, ancor più di ieri, il processo di concentrazione e di intreccio finanziario globale spinge verso il monopolio e l’oligopolio che rendono del tutto utopico ogni libero scambio e ogni libera iniziativa individuale?
Per la verità il capitalismo non è mai stato,”sua sponte”,liberista. Anzi: i singoli padroni hanno sempre odiato e sempre odieranno la concorrenza, ultrastatalisti ogni volta che debbono ricevere qualcosa dallo Stato e dalla collettività,liberisti a parole quando, cioè quasi sempre,intendono sottrarsi ai doveri verso la società. Insomma, il liberismo, se preso alla lettera e come sistema integrale, è pura utopia e somma ipocrisia, ideologia (intesa marxianamente come falsa coscienza)delle più sfrontate, fumo negli occhi diffuso dall’immane apparato propagandistico e mass-mediatico a disposizione del sistema.
O più precisamente, è un liberismo unilaterale: l’unico liberismo vero – questo sì integrale e sincero – che i capitalisti vogliono, è quello del mercato del lavoro. Solo in questo campo ci deve essere concorrenza priva di regole, occupati contro disoccupati,precari contro stabili, migranti contro stanziali, in una lotta feroce e senza esclusione di colpi che faccia abbassare il più possibile il costo del lavoro e presenti tutti i salariati atomizzati di fronte al padrone-acquirente. Ma per sè stessi i singoli capitalisti esigono il massimo di intervento statale e tutte le tutele, protezioni e agevolazioni possibili per stornare ogni concorrenza.
Conseguentemente, pare del tutto infondata – luogo comune indotto dal pensiero unico, oppure prodotto di pigrizia mentale o, peggio, della volontà di assolvere alcuni governi per le loro concrete malefatte – una tesi piuttosto diffusa nel movimento anti-globalizzazione secondo la quale il liberismo dominante avrebbe ridotto a puri simulacri gli Stati. C’è in tale analisi una minimizzazione e distorsione del vero ruolo degli Stati occidentali moderni, delle loro funzioni da “cervello capitalistico”, da capitalista collettivo in grado di controllare ed incanalare in qualche modo l'”anarchia” dei singoli capitalisti e le oscillazioni troppo violente dei cicli economici, di effettuare i grandi investimenti produttivi e i fondamentali interventi riparatori dopo le crisi,nonchè di assorbire le ribellioni dei salariati e di tutti i “senza proprietà e senza potere”.
Lo Stato come capitalista collettivo
Tutte queste funzioni, che travalicano di gran lunga il ruolo di puro “comitato d’affari” dei capitalisti, si sono andate via via ingigantendo durante il secolo – anche sull’ onda delle esperienze di quella forma specifica di capitalismo di Stato che fu ed è il cosiddetto “socialismo reale” – e in particolare, nell’ultimo trentennio: mentre troppo spesso in questi anni una parte consistente della sinistra antagonista, fin dal ’68, si è concentrata prevalentemente sull’immagine dello Stato come struttura di puro contenimento repressivo, politico e militare.
Ed oggi, anche all’interno del movimento antiliberista, si confonde le difficoltà di buona parte degli attuali Stati nazionali a padroneggiare, restando all’interno di ogni singolo paese, i continui movimenti economici e finanziari mondiali con un supposto esaurimento della funzione statale. L’internazionalizzazione spinta dell’economia, le possenti reti informative e telematiche che avviluppano il mondo, la massima mobilità del denaro non implicano affatto il superamento del cervello collettivo capitalistico finora incarnatosi negli Stati nazionali dominanti.
Lo Stato (o meglio gli Stati dei paesi più potenti) continua ad adempiere alle sue funzioni da capitalista collettivo e ai suoi interventi di supporto, correzione, soccorso e stimolo dell’economia privata,svolgendo ruoli di sovvenzionatore (trasferisce in continuazione ricchezza pubblica alle imprese), di finanziatore (mette a disposizione altra ricchezza attraverso forme di credito iper-agevolato), di committente (offre commesse e contratti), di imprenditore esso stesso (produce direttamente merci e servizi e concede una parte dei servizi pubblici mercificati in comproprietà al capitale privato), di regolatore (difende il capitale nazionale dalla penetrazione di quello estero concorrente, indirizzando e limitando certe funzioni produttive a vantaggio/danno di questo o quel gruppo privato a seconda degli interessi dell’intero fronte capitalistico nazionale).
E lo Stato “copre le spalle” anche a qualsiasi multinazionale, le fornisce l'”hardware” (sostegno politico, finanziario, tecnologico-scientifico e, sempre più spesso, militare). Neanche le grandi multinazionali sono davvero globalizzate, cioè disincarnate da un territorio, uno Stato, una nazione. Esse, per agire con il massimo profitto, hanno bisogno di retrovie sicure e garantite a livello nazionale: cosicchè il loro cuore, per quanto mondialmente diffuse ne siano le membra, resta pur sempre nazionale; e così il capitale di base, il gruppo dirigente, la sede del know-how, i punti di forza scientifici e politici. Che cosa sarebbe dell’IBM o della General Motors se decidessero di abbandonare il potentissimo supporto ad esse fornito dallo Stato Usa e si trasferissero – cuore, muscoli e cervello – ad esempio in Senegal o Cambogia?
Appare dunque sbagliata quella lettura del sistema di dominio mondiale che, da Seattle a Genova, abbiamo sentito ripetere spesso: un’interpretazione che vede il potere globale incarnarsi in una specie di “coordinamento delle multinazionali” che, scavalcando anche gli Stati più potenti, affiderebbe agli organismi transnazionali come il WTO, il FMI o la Banca Mondiale le funzioni di direzione politica universale.
In realtà, quello che sta davvero accadendo è il rimodellamento dell’ambito dello statalismo. Assistiamo ad un complesso passaggio – del quale nessuna forza economica o politica,per quanto potente, sembra in grado di poter controllare con sicurezza gli esiti – verso forme statuali di agglomerati di nazioni, che tenteranno di sussumere una buona parte dei vecchi compiti dei singoli Stati nazionali e di svolgerne di nuovi, certamente più complessi.
Da una parte, c’è un forte impulso a costituire grandi Unioni economico-politiche a livello continentale o subcontinentale (tra le quali l’Unione europea è quella portatrice del progetto più ambizioso, difficile e contrastato, sia direttamente dagli Usa sia all’interno da chi, come l’Inghilterra ed altri, non ha alcun desiderio di sostituire l’egemonia degli Stati Uniti con una, ad esempio, tedesca);dall’altra, si estende il campo d’azione e la rete di legami da parte di strutture politiche sovranazionali camuffate da strutture economiche neutre ed obiettive – ma in realtà sottomesse e controllate dai principali Stati capitalisti – come il Fmi, la Banca Mondiale, il Wto, l’Ocse.
Tali processi non lasciano desumere una vera direzione strategica omogenea, un, almeno tendenziale, unico Comando, un governo oligarchico mondiale che unifichi stabilmente le maggiori potenze capitalistiche: e l’attuale massiccia egemonia militar-politica degli Stati Uniti non deve trarre in inganno.
La guerra militare, economica e sociale come programma di fase
La apparente unità e subordinazione delle altre potenze capitalistiche agli Usa nella guerra contro l’Afghanistan, che minaccia ad ogni passo di estendersi agli altri Stati “insubordinati”, non cancella affatto il sottostante conflitto economico tra le grandi aree capitalistiche: l’Europa a dominanza tedesca; l’Est asiatico a dominanza giapponese, ma che si può allargare ai due terzi dell’Asia con la crescente potenza cinese; l’area nordamericana a dominanza statunitense; con in più l’ex Urss le cui potenzialità future restano rilevanti, e varii altri outsider come l’India o il Brasile. Tale conflitto permane virulento, così come la sempre più frequente presenza di incombenti crisi da sovrapproduzione: e il minaccioso connubio spinge gli Stati Uniti a rendere permanente l’intervento bellico per il controllo di zone strategiche dal punto di vista economico-politico e per il possesso delle risorse, in un tentativo globale di sottomettere gli avversari economici, reali o potenziali, mediante la schiacciante supremazia militare, e di usare l’investimento bellico per evitare che la recessione e le crisi da sovrapproduzione diventino catastrofiche.
In questa chiave, la guerra militare, economica e sociale che l’imperialismo Usa sta sviluppando globalmente, enfatizza quanto mai il ruolo dello Stato, sia come diretto organizzatore delle aggressioni militari sia come protagonista delle manovre macroeconomiche che hanno consentito, ad esempio dopo gli attentati dell’11 settembre, un massiccio intervento pubblico per evitare la crisi, per sostenere l’apparato industriale Usa e per riconvertire brutalmente gli investimenti pubblici dal Welfare al più spinto Warfare.
E nel contempo, l’interventismo Usa, e dei suoi momentanei e subordinati alleati, tende a schiacciare e cancellare gli Stati dei paesi più deboli, imponendo loro un liberismo unilaterale al grido di “porte aperte (alla nostra incontrastata penetrazione economica, politica e militare) o ve le sfondiamo”. L’assenza di sovranità della gran parte degli Stati nazionali del pianeta non è dunque conseguenza di un cambio di pelle del capitalismo mondiale o delle “ferree” leggi dell’economia ma dell’intervento violento degli Stati delle economie dominanti che, mentre mantengono per sé, o anzi accentuano, tutte le prerogative da cervelli del capitale nazionale, impongono alle economie deboli la privazione di ogni forma di difesa nei confronti della penetrazione economica, politica e sociale della globalizzazione americana.
Contrariamente a quanto una parte significativa del movimento antiliberista sembra credere, lo scatenamento da parte degli Stati Uniti della guerra permanente, sia in campo militare che sociale, non è un segno di strapotere economico, di egemonia incontrastata, di dominio imperiale omogeneo e senza ostacoli: deriva invece dalla forte consapevolezza della messa in discussione di tale egemonia, sul piano puramente economico, da parte delle potenze concorrenti, nonché della deperibilità/limitatezza delle risorse produttive disponibili e del crescere dei soggetti statuali che ne rivendicano la riappropriazione. Questa coscienza induce gli Stati Uniti a fare un uso imperialistico e senza scrupoli dell’assoluta egemonia (questa sì!)militare per “strangolare nella culla” ogni forza potenzialmente concorrente e per mettere in riga/subordinare le potenze alleate.
E’ la stessa relativa fragilità economica, sempre ad un passo dal precipitare in violente crisi da sovrapproduzione (la recessione negli Usa era già in corso da parecchi mesi prima degli attentati alle Twin Towers), ad indurre gli Stati Uniti – ma anche le altre potenze – a far ricorso in continuazione ad una ferrea chiusura commerciale ogni qualvolta si tocchino gangli vitali delle rispettive economie. Nonostante la grancassa mass-mediatica sulla imminente fine delle barriere protezionistiche, queste ultime vengono attivate (e nulla ha potuto in merito l’ultima sessione del WTO in Qatar) ogni qual volta le potenze-leader, e gli Usa su tutte, ne sentono la necessità (basti pensare a tutte le vicende dei brevetti intellettuali, a quelli relativi alle nuove manipolazioni genetiche, alla biologia, medicina ed agricoltura, alla siderurgia o all’embargo verso Cuba con lo stupefacente abominio giuridico della Legge Helms-Burton; o al blocco verso l’Iraq e così via).
In realtà, una vera globalizzazione dei commerci resta lontana e per il momento essi sono ancora contrattati politicamente tra le potenze dominanti, in base al classico schema dei rapporti di forza tra di esse; le quali poi, collegialmente, impongono ai paesi deboli la mutazione del libero scambio in un permanente scambio ineguale.
Peraltro, le strutture politiche sovranazionali prima citate(Fmi, Banca Mondiale, Wto ecc…) – diversamente da quel che esprime una certa “vulgata” diffusa nel movimento anti-globalizzazione, che le interpreta come organismi autonomizzati dagli apparati statali – sono costituite da funzionari pubblici dei singoli Stati, stipendiati e nominati in quelle strutture dai governi dei paesi dominanti. Dunque, sono agenti dei governi stessi ed attaccano il carro dove vuole lo Stato-padrone. Di certo, non dettano legge ai paesi e agli Stati più forti: lo fanno, e per incarico degli Stati Uniti e delle potenze minori alleate/subordinate agli Usa, nei confronti dei paesi e degli Stati deboli/poveri.
Lo Stato sociale come “armistizio” nella lotta tra le classi
Un mercato progressivamente unificato all’interno delle aree economiche dominanti può comportare un reale trasferimento di poteri ad entità statuali più ampie delle attuali, meglio in grado, rispetto a quelle esistenti, di competere con la superpotenza statunitense, essendo la competizione un fenomeno politico, militare e culturale almeno quanto economico: tale necessità, ad esempio, sta incentivando, seppur tra molti contrasti, la cessione di sovranità da parte dei singoli Stati europei ad un futuro Stato unito europeo. Ma tale trasferimento verrà consentito solo in un contesto politico generale che offra sia garanzie gestionali convenienti per i settori significativi del potere economico-politico delle principali nazioni coinvolte, sia una nuova riarticolazione di un sistema di ammortizzatori sociali e di controlli sulle classi subordinate che sappia ricreare l’integrazione/sudditanza dei salariati e dei settori popolari alle sorti della produzione di merci e di profitto, nonché le funzioni da capitalista collettivo che, fin qui, i singoli Stati nazionali hanno assicurato.
Si deve, quindi, parlare non di scomparsa degli Stati nazionali,ma di un possibile “agglutinamento” di gruppi di essi in realtà statuali più ampie, adeguate alle dimensioni della concorrenza intercapitalistica per il dominio sui mercati del mondo.Tali futuri Stati transnazionali dovranno affrontare il problema delle funzioni svolte, in questo secolo, dal Welfare, dal cosiddetto Stato sociale.
Nei dibattiti interni al movimento antiliberista mondiale, a partire da Seattle e almeno fino a Genova per quel che riguarda l’Italia, è sembrato spesso che ci si dimenticasse che lo Stato sociale non è mai stato il frutto di una elargizione fatta dal Capitale al Lavoro: nessuno Stato capitalista, cioè,ha mai garantito i bisogni sociali dei salariati spontaneamente,completamente e stabilmente. La quantità di “salario sociale” – perché quando si parla di servizi sociali forniti dallo Stato di questo, a rigore, si tratta – restituito ai lavoratori, o distribuito anche ai disoccupati in qualità di esercito salariale di riserva, è sempre stata la posta di uno scontro tra classi e ceti sociali e, nel contempo, anche una forma di regolarizzazione del conflitto.
Lo Stato sociale ha costituito una specie di “armistizio” che registra i livelli di potere delle parti nella battaglia sociale permanente (in termini marxiani:una redistribuzione del plusvalore a favore del salario, come risultato delle fasi precedenti della lotta di classe), adeguandovisi in attesa che le mutate sorti dello scontro consentano alla parte che incrementa la propria forza di spostare i confini dell’armistizio a proprio vantaggio.
Insieme al conflitto Capitale-Lavoro, si svolge – altrettanto permanentemente – l’aspra competizione intercapitalistica, che impone ai poteri economici nazionali vincoli in merito alla possibilità di siglare l’armistizio sociale sul Welfare fotografando esattamente i rapporti di forza con i salariati. Quando i margini di profitto medio per i capitalisti di una nazione si restringono mentre si ampliano per quelli di altri paesi, il Capitale del/dei paese/i in difficoltà deve comunque sfidare il Lavoro, cercando di modificare i momentanei rapporti di forza, poiché altrimenti soccomberebbe nell’agone internazionale: e questo spiega il particolare accanimento, che emerge nei momenti di crisi nella realizzazione e accumulazione dei profitti, per la riduzione della spesa pubblica sociale, vista come fascia di lavoro improduttivo per il Capitale; e il tentativo di comprimere anche violentemente tale forma di salario sociale per avere “più Stato per il mercato”, cioè il maggior sostegno possibile al conseguimento del massimo profitto privato.
Cosicchè, in tutte le fasi di aspra competizione intercapitalistica conseguente alla riduzione dei livelli medi di profitto o all’avvicinarsi di crisi da sovrapproduzione ( quando si produce molto più di quanto la gente può comprare), di crisi economica nazionale o internazionale generalizzata e/o di particolare debolezza politica, sindacale e sociale del lavoro dipendente e dei senza- proprietà e senza-potere, le quote globali di salario sociale vengono più o meno violentemente e intensamente ridotte (anche se mai azzerate nei paesi “ricchi”, perchè si determinerebbe un eccessivo e insostenibile aumento delle spese di riproduzione della forza-lavoro e la conseguente necessità da parte del singolo lavoratore di dedicare una parte preponderante del proprio salario alla salute, alla previdenza, all’istruzione, per sè e per la famiglia; ne deriverebbe un grande aumento della conflittualità e/o un calo vistoso di tutti gli altri consumi-base ed un tracollo dei rispettivi produttori) per mantenere alto il profitto medio.
E’ questo il senso del grande conflitto sulla privatizzazione dei servizi e delle strutture pubbliche, in atto oramai da anni in Italia e altrove. L’oggetto dello scontro non è la sparizione, sic et simpliciter e per sempre, dei servizi sociali statali, conseguente alla ipotetica perdita di qualsiasi ruolo e prerogativa dello Stato, ma quante risorse pubbliche vadano trasferite a favore del profitto e del Capitale , mercificando una parte più o meno consistente dell’istruzione, della salute e degli altri beni pubblici come nuove fonti di guadagno, come grandi business del nuovo secolo (istruzione e formazione, salute e “pezzi” del corpo umano, acqua e territorio naturale pubblico, energia e comunicazioni, pensioni integrative, trasporti, ecc.): e le sorti di tale conflitto non sono irreversibili né date una volta per tutte, come in più di un’occasione componenti significative del movimento antiliberista hanno sostenuto o lasciato credere.
Insomma, il conflitto è su quanto “Stato per il Capitale” e quanto “Stato sociale”, su quanta parte del salario sociale vada sottratta al mondo del lavoro dipendente e del non-lavoro e quanta ne vada consegnata al profitto e alla mercificazione generalizzata.
Globalizzare beni e servizi pubblici:dallo Stato sociale ai diritti sociali universali
E’ dunque un errore madornale far apparire magnanimo il capitalismo “fordista” dei decenni passati, quasi avesse offerto spontaneamente servizi e strutture pubbliche gratuite, contrapponendolo ad un neocapitalismo odierno che per malvagità intrinseca cancellerebbe irreversibilmente tali servizi e strutture: ieri come oggi, la quota di salario sociale e di diritti sociali conquistati o perduti dal lavoro dipendente e dai senza-proprietà e senza-potere è oggetto di quello che si è sempre chiamato scontro di classe tra i ceti dominanti e quelli dipendenti/subordinati, tra Capitale e Lavoro; ed è la fotografia dei rapporti di forza in tale scontro, che vengono registrati e legificati dagli Stati nazionali.
Altrettanto sbagliato è l’atteggiamento – ancora diffuso in non trascurabili aree di movimento – che prende per buona la propaganda del pensiero unico e dà per spacciato il carattere pubblico della scuola, della sanità o delle altre strutture sociali, rassegnandosi tranquillamente alla sua sparizione: e che ventila avventurose attività di “mutuo soccorso” che dovrebbero garantire ai lavoratori “altre” pensioni, “altre” scuole, “altra” assistenza medica da quelle pubbliche. La lotta contro la privatizzazione, per la difesa – anzi,per l’estensione a tutti – dei servizi pubblici più o meno gratuiti,è una lotta cruciale, epocale, che non si perde o si vince una volta per tutte.
Il terreno più avanzato non è oggi quello dell’autogestione mutualistica dei servizi pubblici, del tutto inverosimile da praticare a livello di massa e nettamente più costosa se praticata da pochi (ritorna qui il discorso del Terzo settore,che vorrebbe entrare in gara con la struttura pubblica paradossalmente finanziato da essa; il che non implica un rifiuto di pratiche di autogestione sociale, purchè si abbia chiara coscienza delle possibili dimensioni odierne e non si finisca per coprire finte autogestioni o “cooperativismi” capitalistici che agevolino lo smantellamento dei servizi pubblici o la retribuzione a metà prezzo dei suoi operatori).
La vera partita si gioca sul terreno della creazione – e la lotta in Europa in tale direzione dovrebbe costituire un modello non solo per riconquistare e allargare i diritti sociali nei paesi del Primo mondo ma anche per affermarli ed estenderli universalmente, per globalizzare i beni e servizi pubblici – di una forma qualitativamente nuova di Stato sociale, un Servizio pubblico globale ed universale che garantisca per tutti i cittadini, in tutto il mondo, servizi pubblici adeguati e gratuiti, un “pacchetto” di beni pubblici e collettivi indispensabili,la restituzione di quote rilevanti di ricchezza comune in particolare ai disoccupati, agli emarginati, a tutti i settori più deboli (reddito sociale minimo per vivere; scuola, sanità e servizi pubblici essenziali gratuiti; cibo, casa ed acqua garantiti a tutti ecc..).
Il movimento “no-global”, antiliberista o anticapitalista che lo si voglia definire, può dare un impulso enorme alla lotta per recuperare, allargare e globalizzare (perché esso è contro la globalizzazione capitalistica, non contro la globalizzazione del benessere, della giustizia, dell’eguaglianza e della pace)i diritti sociali e i servizi pubblici. Tale lotta è comunque in corso e tanto più lo sarà nei prossimi anni e l’esito non è per nulla dato;anche se, mentre il padronato ha fortissimi collegamenti internazionali, è ancora agli albori (quanto mai promettenti, a partire da Seattle, passando da Porto Alegre e Genova) una nuova Internazionale sociale, politica, sindacale e culturale del lavoro salariato/subordinato/dipendente, dell’esercito salariato di riserva dei disoccupati e inoccupati (stanziali e migranti) ma anche di tutti coloro che vogliono lottare contro il dominio del profitto e della merce nell’organizzazione della vita di ognuno, contro la mercificazione globale delle persone, della natura, delle idee e sentimenti, contro le discriminazioni di sesso, etnia, religione e cultura. E comunque, nonostante i rapporti di forza attuali – anche a causa della trasmigrazione nel campo del potere economico e politico effettuata dalla netta maggioranza della “sinistra” italiana ed europea – siano decisamente sfavorevoli ai senza-proprietà e senza-potere, i padroni del mondo non possono comunque varcare impunemente la soglia della distruzione globale dei diritti sociali.
Coordinando lotte, obiettivi ed idee a livello mondiale – e a partire da Seattle, sia nei grandi Forum mondiali come Porto Alegre sia nei controvertici, Genova su tutti, che hanno segnato la battaglia politica mondiale antiliberista, tale coordinamento ha fatto passi da gigante – la tendenza alla privatizzazione e alla riduzione dei servizi pubblici può essere arrestata e invertita: di più,grazie a lotte esemplari si può indicare un nuovo modello sociale, un Servizio pubblico globale, anche a quei paesi del cosiddetto Terzo mondo dove neanche le forme dello Stato sociale occidentale di questi ultimi decenni sono mai riuscite a penetrare in modo significativo.
E’ un impegno enorme nel quale il movimento antiliberista italiano ha cominciato a coinvolgersi seriamente a partire dal vero e proprio salto di qualità che ha dovuto compiere dopo gli attentati alle Twin Towers e il riesplodere della furia bellica degli Usa e dei suoi alleati. Oltre che divenire l’avanguardia della lotta contro la guerra, il movimento si è impegnato a fianco di coloro (Cobas e studenti soprattutto)che sono in prima linea contro l’aziendalizzazione della scuola e la mercificazione dell’istruzione, ma anche contro la privatizzazione della sanità e delle altre strutture pubbliche; e si è espresso in difesa e per l’estensione dell’intero arco di garanzie sociali e lavorative, conquistate nei decenni passati ed oggi pesantemente ridimensionate/attaccate, a tutti i tipi di lavoro dipendente e ai cittadini migranti così come a quelli stanziali (tutele giuridiche del lavoro, difesa dai licenziamenti, pensioni ecc..).
Questa rinnovata coscienza di quanto sia importante riconquistare e diffondere i diritti sociali fondamentali e i servizi pubblici collettivi muove anche dalla consapevolezza crescente dell’impraticabilità delle vie cooperativistico-sussidiarie da Terzo settore in materia di scuola, sanità, trasporti e pensionati. Si sta finalmente capendo, dopo parecchi anni di confusione e ambiguità deleterie, che su questi terreni non sono in gioco le sorti di piccole avanguardie politicizzate, ma quelle di decine di milioni di persone che, abbandonando ogni ipotesi di strutture pubbliche gratuite o semigratuite in materia di scuola e sanità, dovrebbero rassegnarsi a ripartire da zero, senza difese o garanzie che non siano quelle di una improbabile mutualità, che a stento solo fasce di reddito relativamente agiate potrebbero praticare, per giunta con scarsa resa.
Democrazia sociale e politica: una prefigurazione per il post-capitalismo
Però, l’intervento in difesa delle strutture e dei servizi pubblici e per l’estensione di nuove forme di Stato sociale che allarghino a tutti i cittadini garanzie e diritti in materia, superando anche i confini dei paesi “ricchi” e delineando la “concreta utopia” di un Servizio pubblico universale che garantisca diritti sociali globali, pone al movimento anti-liberista problemi di straordinaria complessità sia teorica che pratica, implicando davvero la delineazione di “un altro mondo possibile”, cioè di un sistema sociale non-capitalistico che accantoni il profitto e la merce come criteri-guida dell’organizzazione dell’intero sistema di vita globale. Tale intervento costituisce – insieme alla questione della democrazia nel senso più ampio del termine, cioè al problema di chi, come e dove decide collettivamente cosa, quanto e come produrre e distribuire i frutti della produzione – una cruciale cartina di tornasole per valutare la fondatezza della aspirazione del movimento di Seattle, Porto Alegre e Genova ad essere ascoltato ed appoggiato dalla maggioranza dei senza-proprietà e senza- potere nella “pretesa” di cambiare il mondo e di far vincere l'”altro mondo possibile”, basato sull’equità sociale, sull’eguaglianza economica e politica, su criteri collettivi di organizzazione della società che eliminino l’egemonia del binomio profitto-merce, con i suoi derivati di miseria, guerra, fame, sfruttamento, ingiustizie, oppressioni.
Non dare per acquisita la cancellazione dello Stato sociale e delle strutture/servizi pubblici collettivi, ma anzi porsi l’obiettivo della globalizzazione dei diritti sociali basilari, significa dunque l’opposto che difendere l’organizzazione statale delle strutture pubbliche così come esse sono oggi o sono state negli ultimi decenni. Si tratta di trovare le vie per estendere e socializzare pienamente questi servizi e queste strutture, con la consapevolezza che il vero antidoto al “pubblico” corrotto, scialacquatore e clientelare non è il privato, ma la massima democratizzazione di tutte le strutture che devono offrire servizi sociali e impiegare denaro collettivo (è quanto, da oltre una decina di anni, stanno ad esempio cercando di fare nella scuola e altrove i Cobas).
La vera socializzazione oggi pare questa: democrazia integrale nel servizio pubblico, aumento vistoso degli investimenti in esso, elevata trasparenza e controllo organizzato da parte, in primo luogo, dei lavoratori coinvolti, ma con la compartecipazione delle strutture dei cittadini “utenti”(termine da usare con le molle e con le virgolette): insomma, reali decisioni collettive in tutto lo spazio pubblico, con i vari soggetti, rappresentanti dei differenti strati sociali subordinati, capaci di organizzarsi autonomamente e di concorrere con pari dignità (altro che partiti e sindacati unici che interpretano per volere divino i bisogni di tutti i senza proprietà e senza potere!) all’espressione delle volontà e delle decisioni collettive, non separando il livello politico da quello sindacale e sociale (tema al centro, da sempre, della elaborazione e del modello organizzativo dei Cobas).
Dunque, non di assistere passivamente o addirittura di collaborare allo smantellamento dello Stato sociale si tratta, ma di battersi strenuamente perchè i soldi investiti nelle strutture e servizi pubblici aumentino nettamente e vengano impiegati in modo trasparente per i più significativi bisogni sociali, mediante un’attività di democratizzazione integrale e diretta di tali strutture, che riunifichi l’agire politico con quello economico e gestionale,riducendo ai minimi termini il professionismo politico e sindacale ed eliminando il più possibile il clientelismo e la corruzione.
Piero Bernocchi