Alla fine Bonaccini ce l’ha fatta e anche con largo margine; ed ha evitato alla regione ex-“rossa” e a tutta l’Italia il peggio, non dovendo mai dimenticare che in politica, come nella vita quotidiana, la ricerca del meno peggio è necessità ineludibile in alcuni momenti cruciali in cui il meglio è lontanissimo: e chi disprezza o ignora questa modalità di scelta, va incontro di solito a clamorose sconfitte. Su Bonaccini e sul suo social-liberismo (o liberismo temperato) in questi anni avevo sentito, da parte dei nostri COBAS emiliani, numerose e motivate critiche politico-economiche; ma ne avevo ascoltate anche sul piano umano e comportamentale, inquadrate nella foto di un burocrate modello vecchio PCI, tanto efficiente amministrativamente quanto autoritario, monopolizzatore e chiuso ad ogni dialogo “a sinistra” sul piano della gestione e delle relazioni politiche. Ora, a parte che il sottoscritto – che pure nel suo ultracinquantennale percorso di onesta militanza conflittuale è sempre stato intransigente avversario (e anche nemico in parecchie occasioni) del PCI e delle sue filiazioni (PDS, DS e PD, ma anche, a latere, CGIL) – resta pur tuttavia in grado di distinguere la vecchia militanza PCI dagli orridi e fascistoidi seguaci dei Salvini/Meloni, mi sembra che Bonaccini abbia invece rivelato durante la campagna elettorale doti politiche superiori a quelle classiche da comunista di apparato, scansando numerose trappole che lo minacciavano.
Se, infatti, la sfida fosse avvenuta solo o soprattutto sul piano amministrativo e gestionale della regione, non ci sarebbe stata gara tra lui e una Borgonzoni, totalmente digiuna in materia. Guardando anche solo i dati statistici regionali più macroscopici, l’Emilia è la prima regione per crescita in Italia negli ultimi cinque anni, battendo Lombardia e Veneto e sovrastando le altre regioni; ha quasi dimezzato la disoccupazione (dal 9 al 5%, se i dati non sono truccati: ma nessuno in campagna elettorale li ha contestati); le esportazioni all’estero viaggiano intorno al 40% del PIL e i soldi tornano per lo più in regione; la Sanità è considerata, malgrado la chiusura di alcuni ospedali e i relativi disagi in altri, la migliore d’Italia; è – l’ho appreso dalla campagna elettorale, e anche questo nessuno l’ha smentito – la prima regione ad aver abolito il super-ticket sanitario e a dimezzare le rette degli asili nido, dove peraltro ha più posti di tutte le altre regioni, il che le consente di avere il più alto tasso di occupazione femminile; e, dulcis in fundo (ma è un dolce per noi antirazzisti, perché è proprio quello che Salvini/Meloni e il loro “popolaccio” non perdonano a Bonaccini e che hanno usato a mani basse in campagna elettorale), ha la più alta presenza di migranti d’Italia, 12,3%, il doppio rispetto al 2005 (gli economisti futurologi sostengono che, entro il 2040, i migranti saranno un quarto della popolazione complessiva). E tutto ciò, malgrado anche l’Emilia Romagna e una parte significativa del suo popolo abbiano pagato un tributo alla crisi, e le politiche social-liberiste messe in atto nella regione – fino al progetto deprecabile dell’autonomia scolastica “soft”- abbiano ricevuto le nostre sacrosante e doverose critiche.
Ma lo scontro all’ultimo sangue voluto da Salvini è avvenuto su tutt’altro terreno, non certo su quello di una critica da destra di ciò che in questi anni i COBAS, e non solo, hanno criticato da sinistra. Si è svolto, cioè, sugli unici, veri ed enormi, punti di forza del salvinismo, l’ostilità verso i migranti e le ossessioni securitarie, ossia sul campo di battaglia nazionale la cui posta in gioco era (ed è) il governo nazionale e la conquista dei “pieni poteri” finalizzati a chiudere le porte ai migranti e a far trionfare il delirio securitario e “ducesco”. Salvini, malgrado la batosta post-Papeete, ha condotto questo spostamento di terreno di gara e di significati fino ad eccessi che, credo, hanno messo a disagio persino una parte dei suoi sodali amministratori a Nord che, dopo la sbornia del Papeete, avevano auspicato una rettifica nei modi e nei toni delle esibizioni salviniane. Ha totalmente annullato una candidata già incolore e sprovveduta come la Borgonzoni (quella che si vantava di non leggere libri da cinque anni e ciò malgrado si spacciava per esperta scuola e cultura della Lega fino a beccarsi un sottosegretariato proprio ai Beni Culturali nel governo Lega-5 Stelle); ha preso di petto le Sardine fino a sfottere brutalmente un ragazzo disabile e una migrante giovanissima, che avevano preso la parola nei palchi sardineschi, esponendoli al feroce ludibrio violento del suo “popolaccio” sulla Bestia, la macchina del fango social leghista; ha insultato Bibbiano fino all’inverosimile, ed ha raggiunto il culmine con la ignobile citofonata alla famiglia migrante nel quartiere Pilastro (e entrambi i territori lo hanno ripagato dando a Bonaccini una maggioranza schiacciante); infine, ha concluso la campagna elettorale con la peggiore smargiassata, da quel truce gradasso che è, annunciando che nel lunedì post-elettorale sarebbe andato a citofonare al Quirinale per intimare a Mattarella di convocare nuove elezioni.
A posteriori possiamo dire che questa tattica violenta e iper-aggressiva è stata un clamoroso autogol, ma la certezza l’abbiamo avuta solo a spoglio in corso, perché fino ad una settimana fa i sondaggi davano ancora un leggero vantaggio alla Lega. Se si è arrivati a rovesciarli fino a determinare uno scarto considerevole a favore di Bonaccini (oltre 7 punti), un grande merito va certamente alla grande mobilitazione di piazza innescata dalle Sardine (e su questo torneremo più avanti), ma anche, non si può ignorarlo, alla condotta, apparentemente remissiva, sottotono e di fatto anti-mediatica e anti-social, di Bonaccini che, mi pare, fottendosene degli spin doctor, dei curatori di immagine, dei selfie, delle chiacchiere social e della visibilità mediatica, le ha azzeccate tutte. Intanto, memore del disastro umbro, ha tenuto lontano da sé e dalla campagna i leader nazionali, mentre Borgonzoni era costretta a fare l’opposto, sparendo del tutto, malgrado fosse lampante che non sarebbe stato poi Salvini ad amministrare la regione: e addirittura, a ridosso del voto, ha ripetuto il rito della foto suicida umbra, ove al posto di Conte, Zingaretti e Di Maio c’erano Salvini, Berlusconi, Meloni,Toti e persino Sgarbi. Si è poi guardato bene dal dare l’impressione di voler strumentalizzare le Sardine, non ne ha neanche commentato gli exploit di piazza né si è proposto di incontrarne i promotori. E soprattutto ha evitato accuratamente di farsi trascinare nella battaglia nazionale, rifiutando di rispondere colpo su colpo alle fanfaronate salviniane e anche ai suoi guai giudiziari. Esempi? Di fronte a chi lo invitava ad approfittare dei guai di Salvini con i 49 milioni scippati dalla Lega, Bonaccini ha risposto: “Vogliamo vincere per le cose che abbiamo fatto e non per i guai giudiziari di Salvini”. Stessa tattica usata per il possibile rinvio a giudizio del Truce per la nave Gregoretti e persino dopo l’ignobile episodio della citofonata al Pilastro. E di fronte alle per lo più sciocche provocazioni della Borgonzoni, invitato a rispondere sullo stesso tenore, magari ricordando che si trattava di una che “non verrà votata neanche dal padre”, replicava il suo atteggiamento irrevocabile: “Quel terreno non lo accetterò mai, non parteciperò a questo imbarbarimento del clima, in cui di può dire di tutto. Io parlo di Emilia Romagna in modo serio. Punto”. Fino al vero capolavoro finale, la risposta alla notizia che Mihajlovic – l’allenatore del Bologna, adorato in città, malato di leucemia e sostenitore durante la guerra in Jugoslavia dell’estremismo serbo fascistoide – avrebbe votato per Salvini: “Mihajlovic sta combattendo la partita più importante della sua vita. Scelga chi gli pare, mi interessa che vinca quella partita per lui, per la sua famiglia e per tutti quelli che gli vogliono bene, tra cui il sottoscritto”. Dichiarazione che, oltre ad aver probabilmente convinto molti tifosi del Bologna a votare per lui, ne ha caratterizzato la figura umana in maniera ben più accattivante rispetto all’immagine del freddo burocrate, efficiente ma cinico, in genere associata alla vecchia burocrazia del PCI.
Il ruolo delle Sardine
Certo, probabilmente questo non sarebbe bastato – o comunque non avrebbe prodotto un risultato finale così favorevole – senza l’inaspettato e improvvisato, ma alla fin fine geniale, prorompere della mobilitazione delle Sardine e delle centinaia di migliaia di persone scese in piazza in tutta Italia nel giro di poche settimane in difesa della democrazia, contro il razzismo, la xenofobia, la diffusione strumentale di odio, paura e ossessioni securitarie. Cosa io pensi di tale mobilitazione, l’ho già spiegato nel mio articolo di dicembre Benvenute Sardine: e qui mi limito ad un breve riassunto sul tema. 1) I maniaci cultori dei complotti si mettano l’anima in pace. Per quello che conosciamo dei quattro giovani che hanno avviato la valanga, certamente orientati a sinistra ma non militanti politici né simpatizzanti del PD, l’iniziativa è stata totalmente autonoma, improvvisata, legata alla voglia di agire con un exploit scenico e di richiamo mediatico (la trovata delle sardine peraltro è originale solo per l’Italia; basta essere passati anche per un paio di giorni in Portogallo per sapere quale vera e propria mitologia c’è sul tema colà, e quale diluvio di immagini, gadget e invenzioni sceniche con il popolare pesce a far da protagonista); e lo strepitoso successo delle prime due manifestazioni, a Bologna e Modena, ha sorpreso anche i quattro. Il resto è venuto di conseguenza, come una valanga che una volta messa in moto va da sé. 2) E’ fuor di dubbio che i quattro volessero reagire non solo al culturame salvinista dilagante ma anche alla sua onnipresenza di piazza, confrontata poi con l’afasia e il vuoto di mobilitazione della sinistra istituzionale; e certamente volevano anche cercare di dare una sveglia a quel popolo solidale disgustato dal razzismo e dalla violenza ducesca, verbale e pratica, della Lega, nei social e nelle piazze, ma incapace di reagire efficacemente; e altrettanto sicuramente erano consapevoli della paura popolare diffusa che l’Emilia Romagna venisse conquistata dai “barbari” leghisti. 3) E’ pur certo che, malgrado il loro forte disamore verso la sinistra istituzionale, e il PD in primis, non sono partiti sulla base di una “trasversalità” che equiparasse nella critica e nella polemica il centrosinistra e la destra fascistoide di Salvini e Meloni. E molto limpidamente non solo non hanno predicato una equidistanza modello Cinque Stelle d’antan (“non siamo né di destra né di sinistra, siamo oltre”, secondo le buffonerie d’epoca alla Di Battista/ Di Maio) ma hanno rivendicato la loro appartenenza ad un seppur generico campo di sinistra, usando come colonna sonora quasi unica “Bella ciao” et similia, e riproponendo il classico anelito di milioni di persone che la sinistra torni a fare la sinistra, venato per i meno giovani dalla nostalgia per il Pci di Berlinguer e la Cgil/Fiom d’epoca.
Ciò detto, però, la cosa più importante da rilevare non riguarda gli intenti dei promotori ma le risposte spontanee, immediate, e non organizzate a tavolino da alcuno, di centinaia di migliaia di persone in tutta Italia, seppur con una netta prevalenza della partecipazione nel Centro-Nord. Su questa reazione e risposta avevamo contato e sperato molto, circa un anno e mezzo fa, quando di fronte all’orrido governo Lega-5 Stelle e al rapido spostarsi di simpatie e sostegno dai 5 Stelle alla Lega, ci spingemmo a promuovere, come COBAS e insieme ad altri soggetti politici e sociali, la manifestazione del 10 novembre 2018 e successivamente il Forum Indivisibili e Solidali. La molla dell’iniziativa fu la convinzione, o almeno il forte auspicio, che, seppure razzismo, xenofobia, ossessioni securitarie e tutto l’armamentario della Lega salviniana (e dei FdI meloniani) stavano conquistando la maggioranza degli italiani, esisteva pure una forte minoranza (intorno al 30-35%, scrivemmo allora) che era invece inorridita dal fascistume incombente e dalla cultura reazionaria e fomentatrice di odio verso i più deboli, un popolo solidale che non trovava un modo efficace di manifestarlo collettivamente. L’idea di Indivisibili aveva dietro quella consapevolezza. Come ho già scritto a dicembre in Benvenute Sardine: “Eravamo partiti bene: il successo quantitativo (circa centomila persone in piazza, con l’adesione di più di 500 soggetti politici, sindacali, sociali e culturali) e qualitativo del corteo del 10 novembre 2018, lo aveva dimostrato inconfutabilmente. Ma poi, invece di valorizzare quella partecipazione e le tante, anche piccole, realtà locali che l’avevano potenziata e ingigantita, ci siamo fatti incastrare, nostro malgrado e purtroppo, nei soliti e sempre più insopportabili meccanismi gruppettari. E il vistoso calo della partecipazione alla manifestazione del 9 novembre 2019, rispetto all’anno prima, è dipeso assai più dal meccanismo di preparazione e gestione, passato attraverso mille mediazioni e tic vecchio stile, che dal cambio di governo. Tant’è che, malgrado ci sia il governo con il PD e Salvini sia all’opposizione, sollecitata diversament dalle Sardine, tanta gente in piazza contro Salvini ci sta andando e, credo, continuerà ad andarci nelle prossime settimane”. A scanso equivoci, però, aggiungevo che “comunque noi non saremmo stati in grado di far muovere così tanta gente. Perché c’è una differenza fondamentale tra “noi” e “loro”. Chi va in piazza da “sardina” ha in avversione quanto noi Salvini, il razzismo, la xenofobia, l’omofobia, la violenza fascistoide, i rigurgiti e le sottoculture ducesche, nazistoidi e antisemite. Ma, nel contempo, vorrebbe poter contare su una sinistra, almeno socialdemocratica “classica”, che garantisca la democrazia istituzionale, che difenda anche i deboli e gli ultimi arrivati, che si rivolga ai settori sociali più disagiati e abbandonati da decenni. Insomma, si accontenterebbe di un PD alla Corbyn, alla Suarez+ Iglesias, o simile al modello della sinistra portoghese. E, per restare nei confini nazionali, almeno i non giovanissimi ci metterebbero la firma a riavere il vecchio Pci. Insomma, è gente antifascista, democratica ma non anti-sistema e non vuole che la sinistra istituzionale venga spazzata via ma che invece faccia (o rifaccia) la sinistra all’interno del sistema esistente, per riformarlo il più possibile e renderlo più giusto, egualitario e meno corrotto, malgrado questi desideri siano stati frustrati ripetutamente negli ultimi decenni da tutta la filiera PSD, DS, PD”.
Oggi ovviamente non posso che confermare questi giudizi, tanto più che nel frattempo si è potuto verificare quanto questo popolo solidale abbia apprezzato l’occasione offertagli di manifestare i propri orientamenti e sentimenti in piazza, dando vita ad una partecipazione elettorale sorprendente (addirittura trenta punti in più rispetto al 2014, seppure un forte aumento di partecipazione è certamente venuto anche da destra) e premiando – anche qui oltre le previsioni – Bonaccini e di riflesso anche il PD che ottiene, seppur senza merito, un ritorno a vecchie medie (un 34,7% che, aggiungendovi il 5,8% della lista Bonaccini, ascende addirittura ad un 40,5%, fantascientifico per la burocrazia zingarettiana fino a qualche settimana fa). Fatto che apre seri e ponderosi interrogativi sui futuri percorsi sardinisti – e più in generale sulle possibili scelte di chi, come ad esempio noi COBAS, voglia costruire un’ampia e radicale opposizione non solo alla destra estrema ma anche ad un governo che, seppur zoppicante, continua a marciare nella direzione sbagliata – soprattutto alla luce: a) della vera e propria disgregazione, senza possibilità di arresto o di “ritorno alle origini”, del gigantesco bluff a Cinque Stelle; b) del permanere dell’aggressività e del consenso nazionale sui temi dominanti della propaganda fascistoide di Salvini/Meloni da parte di quel “popolaccio” che esibisce sempre più spudoratamente il mood razzista, xenofobo, nazional-sciovinista e securitario che resta, malgrado i risultati dell’Emilia Romagna, diffusissimo nel paese; c) del prevedibile ritorno di un bipolarismo che renderà ben improbi futuri tentativi di “terzaforzismo”; d) dell’assenza drammatica, confermata in maniera penosamente grottesca anche nelle elezioni emiliane, di una sinistra radicale con un minimo di credibile appeal elettorale e con una qualche capacità di agire in maniera conseguente nelle istituzioni, almeno a livello locale.
La fine del gigantesco bluff a Cinque Stelle
Il tracollo elettorale dei Cinque Stelle era ampiamente prevedibile e previsto. Pur tuttavia il dato numerico è ancora più significativo delle pur nere previsioni, e non solo in Emilia Romagna ma ancor più in Calabria, regione a cui non stiamo dando importanza per i motivi che vedremo più avanti ma che invece la dice lunga almeno sulla catastrofe irrimediabile del M5S. In Emilia i Cinque Stelle sono passati dal 34% delle Politiche del 2018 al 4,7% (voto alla lista e 3,2% al candidato presidente) di domenica scorsa, mentre in Calabria sono precipitati dal 44% del 2018 al 6,2% delle Regionali. E se in Emilia Romagna la fuga (si parla di più di trecentomila ex-elettori/trici trasmigrati verso Bonaccini o Borgonzoni) può trovare una qualche spiegazione nell’estrema polarizzazione creatasi nella regione, al centro di tutti i riflettori da mesi e il cui risultato era chiaramente decisivo per le sorti del governo, niente di tutto ciò poteva valere per il voto in una regione dove da decenni ci si sposta con disinvoltura estrema da destra a sinistra e viceversa in ogni tornata elettorale e dove i candidati prevalenti non avevano alcun elemento di appeal rispetto invece alla polarizzazione emiliana. La verità è che, più di un disastro elettorale, il responso delle urne non ha fatto altro che testimoniare ulteriormente la fine, irreversibile e senza scampo, del gigantesco bluff a Cinque Stelle, la cui incredibile durata, malgrado le parabole dei sindaci a 5 Stelle ne avessero già ampiamente dimostrato l’inconsistenza, e il cui peso numerico elettorale – rispetto ad esempio ad un fenomeno analogo nel dopoguerra ma di peso e durata ben più contenuta quale quello dell’Uomo Qualunque – è spiegabile solo con l’estrema crisi della politica e dei partiti nell’ultimo ventennio e con il ruolo quasi magico della coppia Grillo-Casaleggio senior.
In realtà il colossale bluff, certamente il più rilevante della storia dell’Italia repubblicana, è stato costruito sul mito terzaforzista del non essere di destra né di sinistra, che è stato usato per mixare temi palesemente di destra e altrettanti temi di sinistra, mettendo in piedi quello che in realtà poteva essere un apprezzabile Comitato di cittadini benintenzionati a raggiungere alcuni obiettivi specifici (ridurre drasticamente le spese della politica e le sue ruberie, difendere l’ambiente e l’acqua pubblica, eliminare i vitalizi dei parlamentari, cancellare la prescrizioni dei reati ecc.). Solo che l’impresa impossibile è stata quella di trasformarlo in corso d’opera in un partito monocratico e privatizzato, intenzionato a governare tramite la mutazione di cittadini/e di buona volontà, ma sprovveduti politicamente, in improvvisati e inattendibili statisti. Mettendo insieme una truppa ultra-raccogliticcia, senza arte né parte, subordinata ad un duopolio indiscutibile (Grillo e Casaleggio senior e poi junior) e proprietario, con personale raccolto dall’estrema destra all’estrema sinistra, non ci voleva molto a prevedere l’esplosione una volta giunti davvero a poter governare il paese. Certamente la vicenda ha assunto caratteri grotteschi con il passaggio repentino dal governo con gli ex-nemici della Lega a quello, altrettanto paradossale, con gli ancor più nemici del PD: ma in definitiva, svanito il folle sogno di governare da soli, era evidente che il momento delle scelte nel merito – che sono sempre, usando la terminologia classica, o di destra o di sinistra, tranne poche eccezioni, nel senso che favoriscono o danneggiano questo o quel settore sociale e non possono, se non raramente, contentare tutti/e – sarebbe arrivato e, ancor più per l’inconsistenza politica dei conduttori, avrebbe prodotto una disintegrazione della truppa parlamentare, alla quale la fuga tardiva di Di Maio, modello Schettino, ha solo messo il sigillo.
Al momento, ciò che resta della creatura di Grillo-Casaleggio senior ha di fronte tre opzioni, due delle quali però, a mio avviso, portano in vicoli ciechi senza scampo. Una parte, che all’epoca era certamente maggioritaria, con Di Maio, Di Battista e Casaleggio junior in testa, rimpiange ancora l’alleanza con la Lega, confortata allora dal fatto che la maggioranza di coloro che votarono alle Politiche il trionfo del M5S non era di molto diversa dalla base e dall’elettorato leghista. Solo che una riesumazione del genere è impossibile: oramai, anche a causa della sconfitta in Emilia Romagna, la Lega è inevitabilmente incastrata nell’alleanza di centrodestra con Berlusconi e Meloni e lì non ci sarà spazio neanche per transfughi “illustri” fuoriusciti dal M5S. Altrettanto illusoria è il rilancio della prospettiva terzaforzista (“non siamo né a destra né a sinistra”): se ai prossimi sei appuntamenti elettorali regionali, i Cinque Stelle dovessero ripetere la presentazione autonoma, i risultati non sarebbero certo migliori di quelli di domenica scorsa e anzi probabilmente peggiorerebbero ancora, segnalando ufficialmente la sparizione del M5S da tutto il territorio nazionale. Resta l’unica via percorribile al momento, l’ingresso ufficiale nella coalizione di centrosinistra, con presentazioni unitarie nelle prossime elezioni e conseguente rafforzamento del governo. Ma questo significherebbe accettare pubblicamente una subordinazione palese al PD, oltre all’abbandono degli ultimi elementi programmatici che hanno caratterizzato la loro sbalorditiva ascesa, probabilmente provocando la rottura con la leadership di Casaleggio, Di Maio e Di Battista anche da parte di un oramai storico “pesce in barile” come Grillo. In ogni caso le turbolenze della disgregazione del M5S influiranno non poco sul governo Conte, le cui sorti, consolidate dalla vittoria di Bonaccini, sono però messe a rischio dallo sbriciolamento dei grillini e dal “si salvi chi può” nelle fila dei loro parlamentari.
Ma il “popolaccio” razzista, nazional-sciovinista e securitario non ha perso forza
Sarebbe grave errore, malgrado la nostra fin qui ampia valorizzazione della sconfitta di Salvini, trarne conclusioni affrettate su scala nazionale, pensando ad un presunto ridimensionamento degli orientamenti popolari etno-nazionalisti, sciovinisti, razzisti, xenofobi e securitari, e dell’intero mondo nazipop (nel senso di nazionalpopulista). Non ho finora usato, per dimostrare il persistere di un orientamento maggioritario verso le destre più radicali, il risultato della Calabria, perché non lo ritengo davvero significativo. E non per la ben più ridotta influenza nazionale della Calabria rispetto all’Emilia Romagna ma per il contesto del tutto particolare, e perdente alla radice, della creazione della candidatura Calippo, un personaggio prima candidato alle Regionali – dieci anni fa – sostenuto da IdV e radicali in alternativa al centrosinistra, poi sponsor alle elezioni di cinque anni fa della lista di centrodestra, e infine riesumato da Zingaretti, dopo che aveva rinunciato alla candidatura per i Cinque Stelle e dopo l’emarginazione del precedente governatore del PD, travolto da scandali giudiziari, ma infine “ripudiato” di fatto da buona parte della sinistra locale, che non è andata a votare, confermando il tasso di astensione del 55% come nelle precedenti elezioni). Nonché per i caratteri della vincitrice Santelli, “storica” rappresentante di una destra moderata berlusconiana, lontana dagli eccessi salviniani e da derive razziste e nazional-scioviniste.
Ma anche solo restando nel contesto emilian-romagnolo, vanno ricordati in primo luogo i seguenti dati: 1) lo scarto di voti tra Bonaccini e Borgonzoni è stato di circa 180 mila voti, ma quello tra lo schieramento di centrosinistra e di centrodestra è stato assai più ridotto, 58 mila voti, cioè un terzo all’incirca, a dimostrazione del notevole valore aggiunto da Bonaccini rispetto allo scadente appeal del PD e soci; 2) gran parte di questo scarto (130 mila voti, circa i due terzi) è in realtà maturato nella provincia di Bologna (e in particolare nel capoluogo), dove Bonaccini ha raggiunto quasi il 60% di voti e Borgonzoni si è fermata al di sotto del 36%; a seguire, a Reggio Emila lo scarto a favore di Bonaccini è stato di 16 punti (55 a 39), a Modena e a Ravenna di 11 (53 a 42), ma in tutti questi casi con un differenziale significativo tra città e paesi/campagna/montagna, le prime a favore del governatore, le seconde orientate sulla sfidante. In più, Borgonzoni ha poi vinto nelle province di Piacenza, Ferrara, Parma e Rimini, ripresentando nell’insieme, mutatis mutandis, la divaricazione del voto presidenziale statunitense o di quello sulla Brexit, tra città orientate a “sinistra” e paesi/provincia/zone rurali o montane orientate a “destra”. Per giunta, la destra ha dovuto scontare la sconsiderata, megalomane e irritante campagna elettorale di Salvini che ha ripetuto pari pari (malgrado la testa pensante della Lega, Giorgetti, lo avesse invitato a tenere la foto di Renzi sulla scrivania per non ripeterne gli errori) la stessa suicida campagna elettorale di Renzi sul referendum costituzionale, sollecitando un plebiscito sulla sua figura, annullando il ruolo della vera candidata (peraltro debolissima, pura replicante dell’estremismo salviniano e del tutto incompetente in materia gestionale), dimostrando l’assoluto disinteresse per la buona amministrazione e per le sorti della società emilian-romagnola, stuzzicando il regionalismo di una cittadinanza che intravedeva la volontà leghista di subordinare l’Emilia Romagna alla storica competitor Lombardia, e estremizzando, con gli attacchi ripetuti ai migranti (dai quali dipende la gran parte dell’industria regionale e non solo), a Bibbiano e ai quartieri “a rischio” con la celeberrima citofonata al Pilastro, i caratteri del possibile nuovo governo leghista. Questa strategia ha di certo galvanizzato le parti peggiori del suo “popolaccio” – che infatti ha risposto all’appello, andando a votare in massa – ma nel contempo ha spaventato o infastidito quella destra conservatrice e moderata, che per tanti anni aveva avuto Berlusconi come riferimento, e che non vuole avere per casa incubazioni di “guerre civili” anche senza spargimenti di sangue. Infine, mai dimenticare che l’Emilia Romagna era comunque il terreno più sfavorevole per la destra radicale. E non ho dubbi che se si votasse oggi a livello nazionale, la destra vincerebbe e la coppia Salvini-Meloni supererebbe agevolmente, anche da soli, il 40%. Il che dovrebbe essere tenuto bene a mente da chi dovesse illudersi che il peggio è passato e che i nerissimi nuvoloni politici si siano quanto meno diradati.
Prospettive per un’opposizione radicale e a tutto campo
Data la rilevanza notevole che la mobilitazione delle Sardine ha assunto negli ultimi mesi e soprattutto le centinaia di migliaia di persone coinvolte, dovendo provare a delineare una prospettiva possibile per una forte opposizione sociale, politica, sindacale e culturale, in primis contro il permanere di una maggioranza politica reale (al di là degli ingannevoli equilibri parlamentari) di destra nazipop con forti caratteri fascistoidi e liberticidi, ma al contempo anche nei confronti del social-liberismo governativo di “sinistra”, non si può evitare di partire proprio dalle possibili prospettive della mobilitazione sardinista e dei settori di popolo solidale.coinvolti. A mio giudizio, il gruppo promotore del sardinismo, malgrado non potesse contare su una pregressa, significativa esperienza politica, si è mosso con notevole intelligenza, evitando le sbandate megalomani e narcisiste di chi all’improvviso si trova sotto i riflettori e al centro dell’attenzione e del gradimento popolare e riuscendo anche a non farsi intortare dalla corte di interessati laudatores che in questi casi, soprattutto in Italia, accorrono in massa per salire sul carro vincente. Anche l’annunciata, momentanea uscita di scena (“ci rivedremo a Scampia”, per l’Assemblea congressuale di metà marzo) appare una scelta intelligente e apprezzabile, che lascia supporre anche un sano realismo sulle proprie possibilità ma anche sui propri limiti, del genere “teniamo i piedi per terra e non facciamo passi più lunghi della gamba”. Solo che non sarà altrettanto facile resistere alle tentazioni successive, già tutte squadernate in queste ore, culminanti nell’idea, davvero surreale ma sponsorizzata da parecchie voci autorevoli, secondo la quale il PD dovrebbe sciogliersi e addirittura ricostruirsi o rifondarsi su basi sardiniste, ulteriore prova, magari, della fragilità e della povertà politica, culturale e morale di un partito che dovrebbe cambiar pelle indossando quella di un movimento in fieri che si è mosso sulla base di un’ostilità dichiarata alla destra estrema, alle politiche e alle culture fascistoidi, al razzismo e alle ossessioni securitarie. Certo, elementi rilevanti comunque, se parliamo di un movimento allo stato nascente, ma insufficienti se si pensa di usare questo gracile scheletro per costruisci un nuovo edificio ben piantato e ben radicato nel terreno sociale. Non credo però che sia possibile neanche ripetere all’infinito lo schema usato in questi mesi, a partire dalla prossima primavera e in coincidenza delle 6 ravvicinate elezioni regionali: e cioè riempire le piazze contro il centrodestra e sponsorizzare indirettamente i candidati del centrosinistra. Tanto più che il territorio su cui muoversi non sarebbe più quello prevalentemente emilian-romagnolo, comunque relativamente “bonificato”, ma si agirebbe su terreni ben altrimenti “inquinati” politicamente, che si tratti della Puglia del ras Michele Emiliano o la Campania ove il candidato del centrosinistra potrebbe essere addirittura il contestatissimo De Luca.
Ma al di là del ravvicinato terreno elettorale, mi pare che, se invece dei promotori/trici osserviamo le centinaia di migliaia di cittadini/e scesi in piazza con passione e volontà di agire, ci sono due cose che mi sembrano irrealizzabili e che finirebbero per disperdere promettenti forze nascenti se si tentasse di perseguirle. 1) Come ho già scritto, il desiderio più forte e manifesto tra chi è sceso in piazza non è quello di costruire un altro partito o di dare vita stabilmente ad un movimento pienamente antagonista all’esistente. La volontà prevalente appare quella di riportare sulla “retta via” la sinistra che, per così dire, fa la destra: insomma, il tentativo di riportare alle origini “rosse” una burocrazia senza coraggio, volontà conflittuale e idee che non siamo quelle di perpetuare, fino all’impossibile, se stessa, assecondando le politiche economiche dominanti e procedendo alla giornata. Che si possa cambiare natura ad un apparato sordo a movimenti ben altrimenti incisivi (basti pensare al movimento no global, solo per restare a questo secolo) e incarognito oramai da decenni sull’andazzo social-liberista (dove il secondo termine ha quasi sempre avuto prevalenza, e non solo con Renzi, sul primo) mi pare al momento pura fantascienza. 2) Neanche praticabile, però, mi sembra la prosecuzione di manifestazioni, seppur molto partecipate, indirizzate solo contro l’opposizione, senza chiamare in causa i partiti di governo, e il PD in primo luogo. In questa fase, che si manifestasse contro l’opposizione e non contro il governo ci poteva stare, vista l’incombente possibilità di un tracollo prima elettorale e poi istituzionale delle forze di governo e la sensazione generalizzata che i “pieni poteri” a Salvini non fossero affatto scongiurati ma potessero essere davvero immanenti. Ma mi pare altrettanto assodato che non si possa prolungare all’infinito una mobilitazione che finirebbe, se così ancora impostata, per sembrare una sorta di “guardia pretoriana” del governo, con una sorta di divisione del lavoro del genere “noi Sardine riempiamo le piazze e voi cercate di fare meglio nelle istituzioni rispetto a quel che avete fatto finora”.
Nel contempo, mi sembrano altrettanto ardui percorsi che pure, in situazioni non molto diverse, si sono intrapresi da parte di movimenti spontanei in alcuni paesi d’Europa a noi molto vicini socialmente e politicamente come la Spagna e la Grecia. Sia il movimento degli Indignados in Spagna del 2011-2012 sia quello contro l’austerità in Grecia (2008-2010) hanno avuto alcuni elementi simili all’attuale mobilitazione sardinista ed in entrambi i casi hanno finito per partorire, o potenziare, due forze politiche – Podemos e Syriza – che hanno messo in discussione e anche sonoramente battuto o sostituito le vecchie sinistre moderate, tramite la costituzione di coalizioni, di partiti e movimenti che con il tempo si sono consolidate e compattate. Solo che in entrambi i casi agivano all’interno forze politiche pre-esistenti, piuttosto ferrate teoricamente e politicamente, con una lunga pratica nei movimenti precedenti: tutti elementi assenti, almeno finora, nella mobilitazione sardinista. Significativa differenza che chiama dunque in causa, qui ed ora, le forze costituite dell’attuale, dispersa e frammentata, sinistra-sinistra, antagonista, antiliberista, anticapitalista, conflittuale o radicale che dir si voglia e che, finora, al 90%, ha attaccato frontalmente le Sardine o ha finto di ignorarle. Sul piano elettorale, anche le ultime elezioni regionali ne hanno fotografato l’assoluta, quasi grottesca, irrilevanza e la ben nota coazione a ripetere. In Calabria quantomeno nessuno ha voluto o potuto metterci la faccia ma in Emilia Romagna si sono presentate ben tre liste di “sinistra-sinistra”, che per lo più hanno attaccato Bonaccini ( mettendolo sullo stesso piano, come soggetto ostile, dei leghisti salviniani) o addirittura le Sardine come strumentale mascheramento e “cavallo di Troia” del PD. Con il bel risultato di racimolare in tre l’1% (0,4 % il Partito Comunista di Rizzo, 0,3% Potere al Popolo, entrambi assatanati contro Bonaccini e Sardine, e 0,3% L’altra Emilia Romagna), tutti al di sotto persino del Movimento 3V contro i vaccini (0,55%).
Al di là di queste figuracce da miniature ( le minoranze sono una cosa seria, noi COBAS lo siano da sempre e quindi le difendiamo e le valorizziamo nei limiti del possibile, ma tra minoranze e miniature c’è una bella differenza), appare evidente che in una fase di rinnovata polarizzazione, in cui non c’è più posto manco per il terzaforzismo a Cinque Stelle, spazi elettorali a livello nazionale per una sinistra radicale non se ne vedono e a breve credo neanche a livello regionale, se non in casi particolarissimi, laddove le candidature del centrosinistra si presentino davvero repellenti. Ma invece, se ragioniamo in termini di movimenti sociali o di mobilitazioni sindacali e politiche nel corpo vivo della società e nella presenza territoriale, allora l’improvvisa epopea sardinista ci dovrebbe ricordare quante energie covano misconosciute o ignorate tra i cittadini/e e attendono spesso l’occasione buona, e molto sovente improvvisa e imprevista, per manifestarsi. Per la verità, come ho scritto nelle pagine precedenti, come COBAS e come Indivisibili avevamo immaginato che ci fosse un popolo solidale che, seppur non maggioritario nel paese, attendeva l’occasione buona per manifestarsi. E inizialmente l’avevamo offerta e il 10 novembre 2018 era stata colta da una folla quantitativamente rapportabile a quelle attuali sardiniste. Solo che poi ci siamo persi per strada, nei meandri dei vizi e dei tic tardo-gruppettari, dei movimenti e delle forze autocentrate e incapaci di vedersi come una parte del tutto e di intessere conseguentemente coalizioni e alleanze, che, senza alcuna reductio ad unum o pretese di egemonismo, possano valorizzare e potenziare la lotta comune.
Nei prossimi giorni proveremo a veder se la tela degli Indivisibili non è lacerata per sempre ed è ricostruibile e potenziabile. Ma in ogni caso, dovremmo tentare non solo un dialogo con ciò che si muoverà – a meno di scelte partitiste o “entriste” che almeno per il momento non si sono delineate – nel territorio sardinista e nel contempo provare a inviare ulteriori sollecitazioni (come già fatto dagli Indivisibili ai primi passi) nei confronti di altri movimenti oramai piuttosto consolidati, come quello femminista (NUDM in primis), ecologista/climatista (FFF) e dell’ambientalismo territoriale e contro le Grandi Opere dannose e inutili. Alle quali forze, se si sarà finalmente capaci di liberarsi dalle storiche tare dell’auto-centratura, della presunta autosufficienza, della pretesa di convincere gli altri ad assumere come prioritario il proprio programma e i propri temi fondanti, con il conseguente spirito egemonico e settario, potrebbe spettare l’oneroso compito di far maturare in milioni di persone, dotate di spirito democratico, antirazzista e antifascista – di cui le Sardine scese in piazza potrebbero costituire la prima manifestazione pubblica di massa – anche una prospettiva di trasformazione positiva dell’esistente che sappia fare i conti non solo con la destra radicale ma anche con i disastri perpetrati dalla sinistra liberista negli ultimi decenni. Ci si potrebbe rispondere che i COBAS tentano questo percorso impervio da tanti anni con risultati scarsi, se non in limitati periodi (movimento no global su tutti): e a noi toccherebbe replicare con l’apologo del volo aereo, tentato inutilmente per secoli ma alla fine realizzato. Certo, può essere che anni e decenni non bastino per il decollo di un aereo politico davvero efficace qui in Italia. Però non vediamo altre vie che riprovarci.