Ora l’Italia è tutta “rossa”. Però è l’opposto di quel che sperava il ’68 Verso una Wuhan-Wuhan integrale?
Nell’ampio e dettagliatissimo testo dei Wu Ming del 10 marzo sull’epidemia e sui provvedimenti presi in Italia ho trovato una grande e sorprendente sintonia con quanto ho scritto in queste settimane. Alcune frasi e dati e osservazioni sono proprio identici, anche se ci siamo arrivati con percorsi diversi. Inoltre, i Wu Ming ci aggiungono riferimenti e dettagli -, nella ricostruzione temporale delle assurdità e dei clamorosi errori/contraddizioni nell’operato del governo, delle autorità regionali ma anche dell’intero mondo politico-parlamentare, di maggioranza e opposizione -, che rafforzano e integrano efficacemente quanto fin qui da me scritto. Ho pensato dunque di pubblicare nel mio sito e di far circolare, insieme a queste mie considerazioni e valutazioni su quanto sta accadendo, anche buona parte del testo Wu Ming del 10 marzo. Buona lettura.
Fin
dall’inizio dell’epidemia Covid19 (o Coronavirus, come si usava dire fino a
poco fa) ho scritto che c’erano due soli modi dotati di una qualche coerenza
per affrontarla.
1) Si valuta l’epidemia in atto, sulla base dei dati cinesi, una via di mezzo
tra le ultime influenze (per esempio quella del 2017-2018 in Italia) e
l’Asiatica del 1958-1959 (iniziò nell’inverno ’57 e finì del tutto nella
primavera 1960). Nel primo caso, per complicazioni polmonari e circolatorie
morirono in Italia circa 8000 persone, ma con un’incidenza molto bassa rispetto
ai contagiati/e se si tiene conto che se ne ammalarono circa 6 milioni: e
questo perchè era un ceppo “vecchio” e per giunta c’era il vaccino
abbastanza mirato. Nel secondo caso, si trattava di un virus già visto ma
relativamente “mutante”, per il quale venne prodotto dopo qualche
mese un vaccino che però funzionò solo in parte. Conseguentemente, ci fu
l’ultima vera pandemia del secolo scorso, con circa 150 milioni di malati
“dichiarati” in tutto il mondo più un numero di asintomatici o malati
lievi non rilevati (su cui non si poterono fornire dati attendibili), 2 milioni
di morti, di cui tra i 15 mila e i 20 mila (con il secondo dato più credibile)
in Italia. In entrambi i casi tutto restò aperto e buona parte dei morti
(sempre in netta prevalenza tra le fasce d’età avanzata e gli affetti da serie
patologie, come ora) spirò a casa propria o in ospedale senza rianimazione.
2) Si ritiene invece che questa epidemia sia una via di mezzo tra l’Asiatica e
l’Ebola (90% di decessi, di ogni età) e allora si chiude tutto il possibile e
tranne l’assolutamente indispensabile, cominciando dalle zone dei primi
focolai, passando alle zone circostanti appena se ne verifica l’espansione,
seppur limitata, poi se occorre lo si fa livello regionale e infine – se il
virus riesce comunque ad “evadere” – si estende la più ampia
chiusura possibile in tutta Italia.
Il governo e le autorità regionali, sballottati tra i conflitti politici e tra
i pareri dei virologi stessi, contrastanti e spesso addirittura opposti, non ha
seguito con coerenza nessuna delle due strade, ma ha oscillato pericolosamente
tra l’una e l’altra, procedendo alla giornata con un susseguirsi di decreti per
lo più improvvisati sull’onda dell’ultima “spinta” ricevuta,
aumentando indubitabilmente e vistosamente i danni. In una prima fase , a parte
i 12 comuni lombardo-veneti, non ha chiuso niente, continuando a permettere
qualsiasi mobilità e diffusione dalla Lombardia e dal Veneto alle regioni
limitrofe, fino ad assistere all’arrivo, seppur in maniera più limitata, del
virus nelle altre regioni del Nord, facendo capolino qua e là anche nel Centro
Sud. In questo contesto, all’improvviso le decisioni governative hanno fatto il
primo salto di qualità, un vero balzo in avanti neanche preparato
adeguatamente, e dunque gestito nella maniera peggiore: sono state chiuse da un
giorno all’altro tutte le scuole e le Università, anche laddove il virus non
era ancora arrivato, lasciando assurdamente tutto il resto aperto. Non ci
volevano dei geni per capire che, lasciando completamente disimpegnate proprio
le fasce di età che fino al giorno prima stavano per molte ore con i coetanei a
scuola e poi per lo più a casa a fare compiti, si sarebbe diffusa l’epidemia
assai di più di prima, con milioni di giovani che da mane a sera in città si
sarebbero mossi e riuniti in massa al di fuori delle scuole e a stretto
contatto ora per ora con tutte le altre fasce di età. Così si sono aumentati di
gran lunga i contatti con la mezza età e la terza età, visto che restavano
aperte le palestre, le piscine, i circoli sportivi, tutte le attività
ricreative e ludiche, i pub e le pizzerie fino a tarda notte, con un’estensione
della “movida” del week end all’intera settimana. Doveva essere
evidente a qualsiai autorità raziocinante che si stavano generando milioni di
occasioni di contagio in più, oltre a rendere socialmente e culturalmente
intollerabile che le uniche cose chiuse fossero le scuole, oltre ai luoghi e
alle occasioni di riunione politica e sindacale, oltre al blocco delle
manifestazioni politiche e quelle culturali, musei, biblioteche e circoli
associativi, mentre si continuava a giocare in tutti gli stadi d’Italia, dalla
serie A ai campionati minori, e così per gli altri sport di massa. Il penultimo
passo poi è stato totalmente demenziale. Il governo, con un altro decreto da
blitzkrieg ha annunciato con anticipo la creazione di una rigida “zona
rossa” in una regione al completo e in altre due a metà, non mettendo in
campo alcun coordinamento organizzativo per impedire lo scontatissimo esodo di
massa. Molte decine di migliaia di persone (c’è chi dice fino a centomila e
oltre), piuttosto che rimanere bloccate e inattive nella “zona rossa”
( o perchè le Università venivano chiuse o perchè lavoratori/trici
improvvisamente disoccupati o perchè pensionati terrorizzati dalla clausura ma
anche dai rischi di contagio enfatizzati 24 ore su 24) sono fuggite verso il
Centro-Sud, in uno sconcertante e pericolosissimo, per la diffusione del
contagio, esodo di massa. Ad aggravare ulteriormente la situazione, ci
hanno pensato anche altre centinaia di migliaia di persone di tutte le età che
nell’ultimo fine settimana (7-8 marzo) sono letteralmente scappate dalle
regioni ad alto rischio, per una “emigrazione da week end” – quasi
carnascialesca, del genere “godiamocela prima di essere rinchiusi fino a
chissà quando” – verso tante regioni a bassissimo contagio fino a quel
momento, riempiendo i litorali di mezza Italia, le piste da sci di tutto il
Nord e città e borghi d’arte dell’intera penisola. Insomma, con questi
clamorosi autogol il governo e le autorità regionali coinvolte hanno garantito
la diffusione del virus in tutta Italia.
Infine, l’11 marzo l’ultima virata, la più netta e la più brutale. Il governo e
tutte le autorità regionali, ottenuta un’intesa bipartisan con le opposizioni
(passate con Salvini dal “riapriamo tutto” del 28/29 febbraio al
“chiudiamo tutta Europa” del 10 marzo) è pienamente entrato nella
seconda modalità che ho prospettato all’inizio di questo scritto, chiudendo
quasi tutto a livello nazionale, e entrando, per così dire, nella
“modalità Wuhan”. Certo, non assisteremo più allo sconcertante e
clamoroso contrasto (che però tranquillamente continua, persino in forme più
eclatanti, in Francia, Spagna, Germania, Gran Bretagna ecc., che invece, almeno
per ora, insistono sulla prima modalità che ho prospettato, e cioè:
“trattiamo in ospedale solo i casi gravi, per il resto facciamo come se
fosse una ‘normale’ influenza”) dell’ultimo week end, con le scuole
chiuse, l’impossibilità per le strutture sindacali, politiche e sociali non
solo di dar vita ad iniziative pubbliche ma persino a riunire nella propria
sede, che so, manco una dozzina di persone; e, all’opposto” la
“baldoria” delle piste di sci stracolme, le spiagge piene, le
palestre, le piscine e gli impianti sportivi a pieno regime, e così i centri
benessere, i centri estetici, i pub, le pizzerie, la movida notturna, oltre
al lunare spettacolo del campionato di calcio che andava avanti lo stesso,
virus o non virus. Ma attenzione: in verità il governo sa bene che non è Ebola
(mortalità dal 90 al 95% e di tutte le età) e che, almeno per il momento, siamo
di certo lontani pure dall’Asiatica (siamo nell’ordine delle centinaia di
migliaia di infettati, se ci contiamo i tanti asintomatici e non rilevati, a
livello mondiale, che di certo cresceranno, ma non paragonabili ai circa 150
milioni del ’58-’59). Ma la verità, come abbiamo sottolineato fin dall’inizio
dell’epidemia, è che la struttura sanitaria italiana, in particolare al Sud,
non è in grado, almeno al momento,di reggere manco trentamila contagiati da
mettere in terapia intensiva o rianimazione. E con tutto il mondo che ti
guarda, non puoi manco ripetere quello che successe allora, e cioè che buona
parte dei morti spirò a casa propria. Dunque, si fa come fosse Ebola, o quasi.
E, messa così, ci costringono ad “abbozzare”: se si chiude davvero
tutto, o quasi, come fai a protestare, ottenendo un qualche seguito e non
l’ostracismo di massa e il linciaggio mediatico, per le scuole chiuse, per il
divieto di circolare anche individualmente ed riunirsi a casa propria o, per
quel che ci riguarda come COBAS o altre organizzazioni, nelle nostre sedi politiche,
sindacali, culturali, sociali? Quando per giunta devi pure rinunciare alle
libertà più elementari, non puoi neanche andare a fare una passeggiata senza
l’autocertificazione, puoi girare solo “per lavoro” e manco andar dai
parenti, a casa di amici, ad assistere qualche anziano/a conoscente, senza
rischiare non solo multe ma pesanti conseguenze penali?
Dopo l’ultimo decreto dell’11 marzo ( che però – visto che, malgrado le
drastiche chiusure, contagiati e morti per ora non diminuiscono affatto – temo
potrebbe diventare presto il penultimo atto governativo di chiusura), siamo in
tutta Italia ad un solo breve passo da Wuhan-Wuhan, ove, come già detto,
si poteva uscire una sola volta al giorno per approvvigionarsi di beni di prima
necessità (agli ‘spacci’ gestiti dai militari), tra i quali non c’erano proprio
nè la visita al tabaccaio, nè al giornalaio, e manco andare a fare la corsetta
al parco, e non parliamo poi di fabbriche aperte, bus, poste e banche
funzionanti e supermercati pieni, seppure con i clienti
“distanziati”. Ma se tra 15 giorni non si realizzasse la speranza del
governo e della maggioranza degli esperti, e cioè il “vade retro
virus”, non mi meraviglierei che Conte facesse anche l’ultimo passo e
imponesse il Wuhan-Wuhan integrale. Che magari verrebbe anch’esso assorbito
quietamente a livello di massa, visto che il nostro è un popolo strano,
apparentemente indisciplinato e generalmente “anarcoide”, ma
che, quando sente la “voce del padrone”, che decide di fare sul
serio, diventa all’improvviso obbediente e più realista del Re (che – e intendo
con questo termine l’insieme di tutti i poteri che contano – nel frattempo, pur
non avendo programmato la catastrofe, si esercita per vedere fino a dove si può
arrivare, quando capitano le occasioni, nel disciplinare e condurre per mano le
masse). Anche se gli scioperi nelle fabbriche delle ultime ore, le proteste
vibrate di chi resta in prima linea (medici, infermieri, trasporti urbani,
raccolta rifiuti, commesse dei supermercati, operai ecc.) sembrerebbero
incrinare gli atteggiamenti gregari di massa e annunciare un forte conflitto
anche “in seno al popolo”, visto che invece altre categorie appaiono
“allineate e coperte” se viste da chi è, appunto, “in prima
linea” o dai milioni di persone che rischiano di perdere tutto, lavoro e
reddito, nella chiusura a tempo indeterminato della gran parte del Paese. E
dunque chissà. Comunque, anche se non so se pure quest’ultimo, drammatico passo
ci verrà imposto, mi pare fantascienza che tutto questo possa finire il 3 aprile.
Quello che prevediamo per la scuola – chiusura almeno fino a dopo Pasqua o
forse fino all’inizio di maggio), è prevedibile che valga anche per il resto.
In attesa fiduciosa dell’estate e del caldo, mai così desiderato come ora
(“speriamo in almeno 40 gradi” sento dire), nella beata speranza
popolare (ma anche di non pochi esperti) che ‘sto maledetto virus si sciolga di
botto come i ghiacciai.
Piero Bernocchi
14 marzo 2020
Contro
chi sminuisce l’emergenza (1-10 marzo 2020) di Wu Ming
(il
testo integrale nel sito www.wumingfoundation. com)
…Da poche ore circolavano le bozze di un nuovo dpcm (decreto della
presidenza del consiglio dei ministri). Cos’era, il quarto in una settimana?
L’annuncio repentino che l’intera Lombardia e svariate province del resto
dell’Alta Italia sarebbero diventate zone rosse – poi virate in «arancione» –
aveva scatenato il fuggi fuggi, assembramenti ai binari, e in generale un
rapido spargugliarsi di migliaia di persone sul territorio nazionale.
«Inaccettabile confusione causata dalla diffusione delle bozze del decreto»,
aveva detto il premier Conte. Si dava la colpa a un whistleblower, individuato
forse nel governatore Fontana e/o nel portavoce della pcm Casalino, e per non
sbagliare chiedeva le dimissioni di entrambi.Il potere e i suoi zelanti
sostenitori si lamentavano che il «popolo bue» fosse stato informato prima
anziché dopo, e che avesse capito e reagito «male».Ma il caos non lo aveva
scatenato il leak: lo aveva scatenato il testo stesso del decreto. E chi mai,
potendo ancora andarsene e avendo un posto dove andare, avrebbe voluto restare
intrappolato in una specie di grande lazzaretto? Inoltre, non era questione di
«bozze» o «fraintendimenti»: anche il testo definitivo era – per dirla coi
governatori delle regioni dipinte d’arancione – «pasticciato», «ambiguo», «di
dubbia interpretazione e difficile applicazione», deciso e scritto «senza un
confronto preventivo» ecc. Quanto alle misure che si capivano, erano «esagerate»
e «senza una ratio», aveva detto Zaia, riferendo il parere negativo del
comitato scientifico di cui si avvaleva la regione Veneto. Intanto, il Viminale
se la prendeva con le regioni, accusandole di muoversi alla spicciolata. Non
quelle dove c’era il «contenimento rafforzato», ma tutte le altre. Alcune
regioni del centro e del sud avevano annunciato la quarantena per chi veniva
dalle zone a rischio, altre no. Il governatore della Puglia Emiliano aveva
criticato i revenants suoi corregionali, lagnandosi dell’«esodo» che portava a
sud l’«epidemia lombarda» (sic).
Ma l’esodo non era cominciato la sera prima: era in corso da settimane,
semplicemente con meno intensità e in modo meno visibile, perché ogni
restrizione decisa in fretta e furia – e applicata senza la minima chiarezza –
aveva aumentato la mobilità. La fuga dal centro-nord era iniziata con le prime
ordinanze regionali ed era proseguita senza interruzioni. Molti precari,
rimasti senza lavoro e non avendo ammortizzatori di alcun genere, erano tornati
dai genitori, al sud o comunque sotto la linea gotica, dove almeno un piatto di
minestra sapevano di rimediarlo. – Non ho capito: dovevo fare la fame per
accontentare Burioni? – Con gli atenei chiusi, anche molti studenti fuorisede
erano ripartiti. Tanto, senza luoghi di socialità e cultura, senza musica e
senza cinema, in città non c’era un cazzo da fare. Qualcuno se n’era andato già
dopo la prima ordinanza, dopodiché, di restrizione in restrizione, la vita
quotidiana si era fatta penosa e l’esodo era aumentato: bar, osterie e
ristoranti chiusi dopo le 18; vietate persino le esibizioni degli artisti di
strada…– Non posso manco studiare, hanno chiuso le biblioteche. Che ci resto a
fare in ‘sta città morta? – Per due giorni Bologna era rimasta una specie di
isola, parte di un arcipelago che includeva Ferrara, Ravenna e Forlì-Cesena. A
ovest la zona arancione cominciava dopo Anzola, a est Rimini era già dannata.
La via Emilia interrotta da checkpoint e confini presidiati: non accadeva dal
settembre del ’44.
Poi, in capo a due giorni, ci eravamo dannati anche noi, con tutto il Paese.
Nowhere to run anymore. In Emilla-Romagna c’erano 75 persone ricoverate in
terapia intensiva. Settantacinque in tutta la regione, e si diceva che la
nostra sanità, fino a ieri «eccellenza», «fiore all’occhiello» ecc., era
sull’orlo del collasso. Ok, bisognava tener conto della crescita esponenziale,
nel giro di una settimana potevano diventare 250, ma quello era il classico
ragionamento di chi dà la colpa «alla Natura» per le distruzioni di un sisma,
senza tener conto di come s’è costruito, di come s’è conciato il territorio. A
forza di chiudere ospedali, una regione di quattro milioni di abitanti s’era
ridotta ad avere poche decine di posti-letto e ventilatori per affrontare l’epidemia.
Il mondo del lavoro era stato gettato nel caos. I decreti governativi
imponevano la distanza di un metro sui luoghi di lavoro e lo smart working per
chi poteva lavorare da casa. Questo creava una discriminazione evidente: c’era
chi veniva messo in sicurezza e chi no. La campagna comunicativa era
ossessionante: «Restate a casa, non siate incoscienti!». Ma chi lavorava nei
front office, chi mandava avanti gli uffici pubblici e i servizi, o rimaneva
alla catena di montaggio, iniziava a sentirsi quello a cui era toccata la
pagliuzza corta, e minacciava di mollare tutto. Cosa sarebbe successo se uffici
e fabbriche non avessero più funzionato?
Intanto, la chiusura di palestre, centri sportivi, scuole, cinema e teatri
aveva messo a casa una miriade di lavoratori autonomi o parasubordinati, che
per le caratteristiche contrattuali faticavano ad avere accesso agli
ammortizzatori sociali. I sindacati di base chiedevano il «reddito di
quarantena», cioè misure di sostegno al reddito di tutti i cittadini, fossero lavoratori
dipendenti, precari, autonomi, partite IVA, operatori sociali, lavoratori dello
spettacolo ecc.I lavoratori messi a casa scrivevano disorientati e disperati ai
sindacati anche solo per sapere cosa fare: «Salve, vi scrivo per segnalare la
perdita del periodo lavorativo corrispondente all’emergenza coronavirus. Una
delle società per cui sono responsabile di settore mi corrisponde €250 al mese.
L’altra – una scuola dove insegno 15 ore a settimana – me ne corrisponde 300.
Per tutta la durata dell’emergenza non percepirò il compenso pattuito. È una
situazione che ci mette in ginocchio. Io ho famiglia e figli. Non è possibile
essere trattati così. Aiutateci. Grazie.» Erano decine e decine le mail e le
telefonate di quel tenore che riempivano le caselle postali e le linee delle
Camere del Lavoro. Dopo anni e anni di desindacalizzazione, emorragia di
tesseramenti, disintermediazione, all’improvviso la gestione delle conseguenze
dei decreti statali ricadeva sui “mediatori” sociali. Questi si ritrovavano impegnati
all day long nell’attivazione delle casse integrazioni, anch’essi impreparati a
reggere una valanga di quella portata, e a loro volta intralciati dalle
ordinanze, che imponevano la distanza e il contingentamento degli ingressi.
Anche loro rischiavano il collasso. Lo stato emanava decreti draconiani –
confusi e incoerenti – e il paese reale doveva interpretarli, tradurli,
renderli sostenibili. Ammesso che fosse possibile. E non lo era.
L’1 marzo il presidente dell’Istituto superiore di sanità Brusaferro aveva
dichiarato: «Se entro i prossimi sette giorni i contagi scenderanno vuol dire
che le chiusure e le misure prese hanno funzionato.» Di giorni ne erano passati
dieci e tutti erano d’accordo: i contagi erano in rapido aumento. Rapidissimo.
Tanto che «non c’è più tempo», aveva detto Conte annunciando la chiusura
dell’Italia intera. Salvo poi lamentarsi, come sempre, che il popolo non aveva
capito, perché s’era precipitato a fare scorte. Ma se mi dici «non c’è più
tempo», che debbo capire io? Per la precisione, in aumento erano le diagnosi
positive: il numero reale di contagi – visto che la maggioranza si beccava il
Covid-19 in forma asintomatica o lieve e nemmeno si faceva il tampone – non lo
conosceva nessuno. Ad ogni modo, stando alla proposizione condizionale di
Brusaferro, si poteva concludere questo: le misure non avevano funzionato. Del
resto, alcune le avevano decise a dispetto dei pareri negativi degli esperti.
Il 4 marzo, il comitato scientifico che prestava consulenza al governo aveva
detto: chiudere le scuole adesso e per due settimane sarebbe “di dubbia
utilità”. Parere ignorato dal governo, uscito sui media ma immediatamente
affogato nel clamore, per esser presto dimenticato. Ma non si trattava solo di
inutilità: era plausibile che le ordinanze e i decreti fino al penultimo,
aumentando gli spostamenti delle persone, avessero in realtà esteso il
contagio. Dunque cos’era rimasto da fare, secondo la logica da rotolone lungo
il piano inclinato, se non dichiarare l’intera Italia zona «protetta»? Per
questo il nuovo decreto, a sole 48 ore dal precedente. Secondo il team
dell’Istituto Sacco e dell’Università di Milano che studiava il virus
Sars-CoV-2, quest’ultimo “girava in Italia almeno da gennaio”. mentre
il primo decesso collegato al Covid-19 era del 21 febbraio. Se era vero, allora
le misure di contenimento erano tardive e dunque, anche fossero state più
coerenti e la loro applicazione meno cialtronesca, sarebbero servite a poco.
Che la tempistica fosse la chiave dell’efficacia lo dicevano diversi studi e
anche accreditati siti di informazione scientifica, come Medbunker: «Punto
fondamentale di tutte queste misure è che vanno applicate appena possibile,
subito. Un ritardo può renderle meno efficaci o completamente inutili.»
Si parlava di lui. In Italia, nel periodo da dicembre (esplosione dell’epidemia
a Wuhan) al 21 febbraio, cosa si era fatto? Non era tanto difficile intuire
che, prima o poi, l’epidemia di Covid-19 sarebbe uscita dalla Cina. E in ogni
caso, era un’eventualità alla quale prepararsi. Invece ci si era crogiolati
nella disinformazione e nell’autocompiacimento orientalista. Più o meno:
«Guardate i cinesi, si credevano stocazzo e adesso muoiono come mosche!». Per
il resto, giornali e tv – come sempre – avevano rigurgitato scemenze, ruttato
gossip, reiterato gare di cucina e ruminato la solita politichetta di infimo
cabotaggio. Pagine e pagine, ore e ore e ore di talk-show a mostrare la buzza
di un miracolato come Salvini o commentare le bizze di un has-been come
Renzi.Il 21 febbraio «La Stampa» faceva ancora battute sul “virus” della
politica italiana e in prima pagina c’erano insulsaggini su Renzi. Il giorno
dopo, tutti i giornali avrebbero aperto a cinque colonne sul primo morto di
Covid-19 in Italia. Come aveva ben riassunto Girolamo De Michele: «Se invece di
strepitare istericamente sulla chiusura delle frontiere quando – ora lo
sappiamo con certezza – il virus era già in Italia (e non lo avevano portato i
cinesi) si fossero per tempo rafforzati i presidi sanitari, partendo dalla constatazione
che il virus non sarebbe rimasto confinato nella provincia di Hubei, è
probabile che quello che è stato considerato un picco di polmoniti da influenza
stagionale sarebbe stato riconosciuto nella sua vera natura. Se fossero stati
predisposti, come in Cina, adeguati ricambi al personale medico, evitando turni
stressanti che sono la norma e che hanno offuscato la capacità di riconoscere
l’improbabile dietro il consueto; se i primi pazienti fossero stati, oltreché
identificati, ricoverati in ambienti idonei; il virus non avrebbe avuto una
diffusione epidemica.»
Dopo la prima morte, in sole ventiquattr’ore si era passati dal regime della
cazzata al regime della paranoia. E purtroppo il caso del 38enne di Codogno –
il «Paziente Uno» – aveva funzionato da diversivo, disperdendo l’attenzione in
troppe direzioni, distogliendola dal fatto che tutte le altre vittime erano
anziane e/o già indebolite da altre patologie. Ogni volta che lo facevi notare,
qualcuno ti rispondeva: – E allora il 38enne di Codogno, eh? Se constatavi che
l’89% per cento dei morti era sopra i 70 anni, il 58% sopra gli 80, e nel
complesso l’età media era 81, ti accusavano di «fregartene se muoiono i
vecchietti». In rete, svariati post e commenti di imbezèl ci accusavano di
questo. Al contrario, quei dati – lampanti com’erano – avrebbero dovuto far
capire che gli anziani andavano protetti in special modo, senza disperdere
energie e diffondere paranoie, informandoli subito e adeguatamente. Qualcosa
tipo: – Nonno, la situazione è rischiosa, per un po’ senti i nipoti per
telefono e aspetta ben che passi la buriana -. Messaggio a tutta prima simile
ma in realtà ben diverso dal generico, tardivo e terrorizzante «Anziani chiusi
in casa!» risuonato che ormai eravamo a marzo. Come avevamo scritto nel Diario
virale #2, ci sarebbe stato bisogno subito di «corretta informazione, unita
alla capillarità dell’assistenza e a elementari misure di profilassi nella
routine quotidiana, […] intervenire sulle esigenze dei più vulnerabili –
principalmente anziani e immunodepressi – e potenziare le strutture ospedaliere
che potessero accoglierli.». Se l’obiettivo era «non far collassare la sanità»,
allora si sarebbe dovuto agire sui soggetti più a rischio, e intanto premunirsi
aumentando i posti-letto in terapia intensiva, comprando nuovi ventilatori ecc.
Invece tutti i provvedimenti – chiusura dei luoghi di studio e cultura, poi dei
luoghi di lavoro, poi di intere province e infine, in un crescendo di panico,
dell’intera nazione – erano stati massimalisti e generici, e avevano avvelenato
la vita sociale, diffondendo la paura del prossimo, il sospetto verso i
rapporti umani, il desiderio di ulteriori misure securitarie.Per due settimane
la regione Emilia-Romagna aveva tenuto chiuse le scuole ma non i centri
anziani. E così, sedici dei nuovi ammalati s’erano passati il virus nella
stessa bocciofila. Se era aperta, normale che qualcuno pensasse di poterci
andare, no? Se non volevi che ci andassero, dovevi chiuderla, no? Ma le
autorità, lungi dal fare autocritica, si erano messe a colpevolizzare gli
anziani. Era partito il mantra: «Gli anziani a casa!». Mantra inutile, perché
era una toppa ipocrita messa sul buco di prima, e perché era un’ingiunzione
vuota, come se negli anni di massima diffusione dell’Aids ci avessero detto
tout court: – Non dovete chiavare! NON chiavate! -. Mantra controproducente,
perché inibiva anche condotte che invece sarebbero state salutari. Come
nell’apologo raccontato su Giap dall’utente Vecio Baeordo: «Ieri mia madre, che
è ampiamente nell’età a rischio, mi ha detto: “Sarei uscita volentieri, sto
bene, non faceva freddo e come sai ho tanto bisogno di camminare, ma dicono di
stare chiusi in casa e ci sono rimasta”. Non sarebbe andata in birreria, e
nemmeno al supermercato (ci vado io per lei), sarebbe andata a prendere una
boccata d’aria, a muovere i muscoli e a far circolare un po’ il sangue. Zero
contatti. Zero aumento rischio contagio […] Siamo partiti da un virus e siamo
arrivati a un Generico Babau che sta “là fuori”. Un nemico invisibile ed esterno.
Tecnicamente una paranoia.» Finalmente, al TG1 delle 20 dell’8 marzo, uno
scienziato senza aspirazioni sbirresche, l’infettivologo Massimo Andreoni
dell’Università di Tor Vergata, l’aveva detto chiaro: «gli anziani non devono
restare confinati notte e giorno, è importante anche per loro uscire e
svagarsi, magari non frequentando luoghi affollati, ma una bella passeggiata
non può fare che bene.»
Nel frattempo, proprio lì a Bologna, un paziente proveniente dal piacentino,
con la tosse, era stato ricoverato in Urologia per un intervento, senza
problemi, nessuno gli aveva chiesto niente… e avevano dovuto chiudere l’intero
reparto, perché solo dopo giorni s’erano accorti che aveva la febbre da
Covid-19, non da decorso post-operatorio. E i pazienti di Urologia erano stati
ricollocati altrove. L’episodio faceva capire bene su quale genere di
prevenzione/informazione si sarebbe dovuto puntare – triage all’ingresso delle
strutture sanitarie, procedure diagnostiche mirate, potenziamento delle
strutture ecc. – e su quale invece ci si era incaponiti a insistere: – NO
interazioni sociali! State A CASA! #IOSTOACASA!!! Ma quando politici e
influencer intimavano «a casa!», quali case avevano in mente? Le loro, a quanto
pareva. A leggere le disposizioni sulle misure di contenimento, sembrava che
ciascun italiano avesse una stanza tutta per sé dentro una casa spaziosissima,
e ovviamente ciascuno avesse un bagno separato. Nel decreto del 7 marzo, per
esempio, c’era scritto che chi aveva i sintomi doveva «rimanere nella propria
stanza con la porta chiusa garantendo un’adeguata ventilazione naturale».
Ammalato o meno, chi restava in casa passava il tempo davanti alla tv, ad
alimentare il proprio terrore, o sui social, dove ci si aizzava e impauriva e
caricava la molla a vicenda, commentando gli annunci sempre più ansiosi e
ansiogeni, facendo reload per aggiornare la “partita doppia” dei morti e dei
guariti. Numeri sciorinati minuto per minuto come fosse una partita a basket
Italiani contro Coronavirus. Numeri decontestualizzati e perciò inutili a farsi
un’idea sensata della situazione, come nel 2011 con l’aumento del misterioso
«Spread». Whatsapp era l’arma che aveva fatto più danni, di gran lunga il più
potente amplificatore di paranoia. Messaggi vocali proliferanti parlavano di
«ventenni intubati», uno era attribuito a sanitari del Niguarda di Milano.
L’ospedale aveva smentito. Una bufalazza, giusto per alimentare il terrore.
«Una menzogna e una porcheria inqualificabile», aveva detto il primario del San
Raffaele, aggiungendo:«Noi abbiamo 27 persone in terapia intensiva, sei sono
guariti e ce n’è uno di 18. Ma uno. E capita anche in periodi normali che un
giovane possa ammalarsi di polmonite. L’età media dei pazienti è 70 anni.» Ma
c’era poco da smentire, perché i social giocavano di rimessa. Il problema era
il circolo vizioso tra politica e informazione mainstream. Se si fosse
continuato a parlare solo di contagi e morti e zone rosse, la paranoia avrebbe
continuato ad autoalimentarsi e a produrre mostri e decreti-mostro sempre più
assurdi. Anche perché i politici reagivano sempre peggio e con meno lucidità
man mano che scoprivano di essere positivi al test.Era indispensabile allargare
il campo dei discorsi e dell’analisi, oltre la risposta codina «Qualcosa devono
pur fare!»
Fuori, per esser messi alla gogna e additati come delinquenti bastava esprimere
un minimo scetticismo sulla gestione dell’emergenza. Sui social circolava la
solita memetica e “satira” fascistoide, in cui si dava la colpa dell’epidemia a
vari capri espiatori: gli «italiani che se ne fottono delle regole», la fauna
della «movida», un pingue e sudicio attivista con la bandiera della pace… Ma
anche in questo caso, a fomentare erano i media mainstream, con gli articoli
contro i presunti «furbetti della quarantena». C’era un chiaro desiderio di
«maniere spicce», di uno stato autoritario che facesse «pulizia». Tanti
dicevano che la Cina ce l’aveva fatta perché lì c’era un regime, una dittatura.
Altri blateravano di responsabilità collettiva e di «proteggere i più deboli»,
quando fino al giorno prima avevano incensato la meritocrazia, il darwinismo
sociale e chissenefotte delle persone più fragili. Più sottile, l’accusa di
«sminuire l’emergenza». A noi sembrava che quell’accusa andasse rovesciata.
Sminuiva l’emergenza chi accusava gli altri di sminuire l’epidemia.Sminuiva
l’emergenza chi la confondeva con l’epidemia. Sminuiva l’emergenza chi voleva
parlare solo del virus, del numero dei contagiati, del «bollettino di guerra»
strettamente sanitario ecc. La fallacia era parlare di provvedimenti politici
drastici e senza precedenti, di misure di governance con ricadute sociali a
cascata, come se fossero procedure cliniche. Lo spettacolo di una
«medicalizzazione della politica» era messo in scena giorno e notte, tramite
l’insistenza su mascherine e ingressi di ospedali. E se non ti adeguavi a quel
modo di parlare dell’emergenza, ti accusavano di «sottovalutare la situazione».
Colpa di un equivoco di fondo, un malinteso concettuale che ci vedeva
reciprocamente lost in translation. C’era chi per «emergenza» intendeva il
pericolo da cui l’emergenza prendeva le mosse, cioè l’epidemia. Invece, noi e
pochi altri – in nettissima minoranza ma in continuità con un dibattito almeno
quarantennale – chiamavamo «emergenza» quel che veniva costruito sul pericolo:
il clima che si instaurava, la legislazione speciale, le deroghe a diritti
altrimenti ritenuti intoccabili, la riconfigurazione dei poteri…Chi, ogni volta
che si parlava di tutto ciò, voleva subito tornare a parlare sempre e solo del virus
in sé, della sua eziologia, della sua letalità, delle sue differenze con
l’influenza ecc., a nostro parere sottovalutava la situazione. Qualcuno, poi,
accusava a vanvera di «negazionismo». Noi stessi, pur non avendo mai negato la
pericolosità del virus e l’esistenza dell’epidemia, ci eravamo beccati
l’epiteto «negazionisti epidemiologici». Beh, c’eravamo abituati. Con calma, ci
sarebbe stato da riflettere su quanto l’accusa di «negazionismo del
coronavirus» avesse in comune con quella, altrettanto farlocca, di
«negazionismo delle foibe». In ogni caso, l’uso a cuor leggero del concetto di
«negazionismo» faceva danni: inflazionando il termine e rendendo l’accusa
passepartout, si toglieva l’erba sotto i piedi a chi cercava di contrastare i
negazionisti veri: quelli dei crimini nazifascisti e quelli del cambiamento
climatico. Che, tra l’altro, sovente coincidevano.
In un commento su Giap, Wolf aveva scritto: «È almeno dal 92-93 che non
disponiamo più di un tempo ordinario, una qualche emergenza c’era sempre, come
minimo quella farlocchissima dei “conti pubblici”; […] non riconoscere
l’emergenza permanente in cui siamo immersi è, come minimo, sintomo di una
totale mancanza di senso storico.» Sempre Wolf, in un altro commento,
aveva invitato a ponderare le somiglianze tra la retorica sull’epidemia e
quella che aveva preceduto la nomina e l’insediamento del governo Monti. E così
c’eravamo accorti del parallelismo tra dati sul contagio e «spread». Anche nel
2011 si era percossa, martellata l’opinione pubblica con cifre
decontestualizzate, facendo crescere la paura dell’irreparabile, finché non
c’era stato un quasi-coup d’état pilotato dall’UE per disarcionare il Berlusca
e insediare Monti. Prima del Covid-19, eravamo convinti che la critica
dell’emergenza fosse ormai patrimonio dei movimenti. Una consapevolezza più
acuta in alcuni attivisti e più vaga in altri, anche astratta volendo, ma in
ogni caso presente.Eravamo anche convinti che le ricette di organizzazioni
internazionali come l’OMS, il Fondo monetario, il WTO, l’UNESCO, la FAO non
venissero prese ipso facto come Vangelo. E invece. Molti che negli anni, dentro
i movimenti sociali, non avevano lesinato discorsi (e retorica) sull’emergenza
come metodo di governo, di fronte all’emergenza coronavirus balbettavano e
sembravano sguarniti di strumenti critici, affannati e pavidi di fronte a
eventuali accuse di «irresponsabilità», poco o per nulla desiderosi di
«spazzolare contropelo» i discorsi dominanti. E lo stesso di fronte alla
tracotanza di qualunque «esperto» o ai comunicati dell’OMS. Qualcuno andava
oltre, mostrandosi proprio infastidito dal pensiero critico.
Da lì le accuse di stampo perbenista, rivolte anche da parte di
“insospettabili” a chi nonostante tutto cercava di esercitarlo, il pensiero
critico, per bene o male che gli riuscisse, e non rinunciava alla parresìa, al
parlar franco, anche rischiando attacchi e impopolarità. A saltare per prima
era stata la capacità di comprendere i discorsi altrui. «Se fai il paragone con
l’influenza», aveva scritto Robydoc su Giap, «poi devi specificare che non è un
paragone epidemiologico: è come se stessi facendo il paragone con i morti sul
lavoro.» Eh, già. «Numquam nominare influentiam», precetto di stretta
osservanza burioniana. Chiunque avesse detto cose ovvie sul fatto che, sotto
l’aspetto sintomatico, la maggior parte dei pazienti che s’accorgeva di avere
la malattia la viveva come un’influenza più aggressiva, aveva scatenato
reazioni pavloviane e s’era beccato epiteti. RobyDoc proseguiva: «Se dici che
“non sembra sia il virus in quanto tale che uccide, visto che deve agire a
certe condizioni per essere pericoloso”, devi specificare che questo non
significa “tanto non toccherà a me”; se metti in rilievo l’insensatezza e la
contradditorietà di alcuni provvedimenti, poi devi specificare che non stai
proponendo di andare a vedersi la partita, eccetera.» Chi non aveva reagito
come sopra, spesso aveva scelto l’autocensura, per non passare come «quello che
sminuiva», il «negazionista», il «dietrologo» (!) e quant’altro. Forse con il
decreto serale del 9 marzo qualcuno avrebbe cominciato ad aprire gli occhi.
Giorgio Agamben, più di chiunque altro, aveva subito il tiro al piccione, per
un suo articolo uscito su Il Manifesto…Agamben si era espresso male e
frettolosamente parlando del virus vero e proprio (ancora una volta
l’eziologia, alla quale si sarebbero voluti confinare tutti i discorsi!), ma
nelle righe sull’emergenza il suo monito era stato: attenzione, la situazione
di questi giorni dimostra che, dal punto di vista del controllo e del
disciplinamento sociale, sfruttando un’epidemia si può ottenere di più e molto
più in fretta che sfruttando altri pericoli. E aveva fatto l’esempio del
terrorismo. Esempio ripreso anche da Mattia Galeotti su Giap, ma in un modo che
poteva essere d’ispirazione e al tempo stesso aiutava a ribadire la differenza
tra pericolo ed emergenza.
Nella Francia di fine 2015, dopo il massacro al Bataclan e gli altri attacchi
del 13 novembre, il pericolo terrorismo era reale: le stragi c’erano state. Ma
l’emergenza terrorismo era una superfetazione, era tutto il «di più» costruito
sul pericolo reale: la legge marziale, lo stato di polizia, il divieto di
manifestare ecc. Scetticismo e critiche si erano diffusi tra i francesi fin da
subito, ma, come aveva scritto Galeotti, non poteva bastare «la semplice
evidenza dell’insensatezza [di divieti e restrizioni]», perché erano
altrettanto diffusi la paura e il precetto «non è il momento di criticare». «A
un certo punto però qualcun* ha detto qualcosa di completamente diverso. È
cominciato molto piano con le manifestazioni dei migranti e con la
contestazione della COP21: alcune manifestazioni non autorizzate hanno violato
i divieti a partire da un rifiuto dell’emergenza («la vera emergenza è il
clima», uno slogan di quei giorni). Stiamo parlando del finire del 2015, ma
quei giorni sono stati importanti per aprire il ciclo in cui l’Esagono si trova
anche adesso. Così come è stato fondamentale che il movimento contro la Loi
Travail dell’anno successivo de-sacralizzasse Place de la Republique, che era
all’epoca diventata un simulacro di unità nazionale, con la statua piena di
candele e frasi strappalacrime. Destituire l’emergenza è un’operazione che in
Francia è riuscita.» L’état d’urgence giustificato col pericolo del terrorismo
era stato sfidato e disarticolato dal basso, dall’avvio del ciclo di
mobilitazioni politiche e sindacali partito allora e che durava ancora nel
2020. I milioni di persone che avevano infranto i divieti non erano
«negazionisti», gente che non credeva all’esistenza dell’ISIS. Era gente che
contestava ciò che si voleva imporre sfruttando il pericolo rappresentato
dall’ISIS. Ci avevano spesso accusati di ottimismo. In passato, bastava che
constatassimo «in Italia le lotte ci sono» e molti: – Uh, come siete
ottimisti…Semplicemente, non ci eravamo mai abbandonati a fatalismo e
melancolia. E chissà se era ottimismo pensare che, nonostante tutto,
l’emergenza fosse contrastabile, disarticolabile, e lo stato d’emergenza
destituibile, e che il conflitto reale sarebbe tornato a manifestarsi.
Eravamo stati attaccati per avere scritto, nel Diario virale #1, quel che in
realtà avevano scritto anche svariati esperti e rispettati divulgatori, e che
il sito Scienza in Rete aveva così riassunto: «Quello che si DEVE dire è, sic
et simpliciter, che molti di quelli che incontrano il virus nemmeno se ne
accorgono. Di quelli che manifestano sintomi, solo una percentuale minima,
forse il 2% o 3% (alla fine dell’emergenza saranno anche meno) ci lasciano le
penne; un numero che certamente si vorrebbe, e dovrebbe, evitare, ma che va
considerato nella sua giusta dimensione […] Per essere ancora più chiari: non è
né la febbre gialla né il vaiolo, e non è nemmeno la MERS, né la SARS (queste
ultime due condizioni sono causate da altri coronavirus). Se lo si dicesse
chiaramente, ribadendo il concetto che questa letalità, unita alla finora bassa
probabilità di contagio individuale, produce un rischio individuale nullo per
chi non si trova in zona ad alta densità di contagio […] si eviterebbero le
code ai supermercati per comperare 50 scatolette di tonno, 6 flaconi di
amuchina o 50 bottiglie di acqua.» E invece, come già avevamo fatto notare,
altri esperti – magari per vendere un instant-book con prima tiratura da
centomila copie – alla chiarezza preferivano l’allarme indiscriminato, fino a
lanciare strali contro chi, già guarito, usciva di casa, dando così un presunto
«segnale sbagliato». C’erano poi vari modi di giustificare le misure prese,
trasformando in Sacre Scritture studi dagli esiti dichiaratamente incerti e
sfumati. Mai come in quei giorni s’era visto che la comunicazione scientifica
si presentava come «neutra» ma era inzuppata di ideologia dominante, come ogni
altra comunicazione, e presa nelle contraddizioni del reale. Ne
aveva scritto su Giap Mariano Tomatis qualche anno prima, e in quell’occasione
c’era stato un bel dibattito. Ma gli ultimi in grado di rendersene conto
sembravano essere gli scienziati. Il Patto Trasversale per la Scienza
concludeva così il suo comunicato congiunto sull’emergenza Coronavirus: «è
importante ribadire che non c’è nessun disaccordo tra scienziati, in quanto le
nostre valutazioni ed i nostri obiettivi sono comuni. D’altronde non potrebbe
essere altrimenti tra persone che sanno dove iniziano i fatti e dove finiscono
le opinioni.» Seguivano le firme di importanti luminari e professori ordinari
(tutti rigorosamente maschi), della cui competenza specifica non potevamo
discutere. Tuttavia, se la loro preparazione epistemologica e filosofica era quella
che emergeva dall’ultima frase, condita peraltro da un’insopportabile
presunzione, non c’era proprio da stare allegri.
Un esempio di parametro che aveva impedito la flessibilità e preparato il
disastro era il cosiddetto «rapporto deficit-PIL non superiore al 3%», uno dei
più noti dogmi neoliberali, nato in Francia nei primi anni Ottanta e divenuto
una delle pietre angolari del Trattato di Maastricht (1992). Ogni volta che si
affrontava una questione seria si chiedeva la deroga a quel parametro. A riprova
che era insensato. Del resto, lo aveva ammesso il suo stesso inventore.
«Se mi chiede se la regola adottata oggi in Europa […] secondo cui il deficit
di un Paese non deve superare il 3% del Pil abbia basi scientifiche, le
rispondo subito di no. Perché sono stato io a idearla, nella notte del 9 giugno
1981, su richiesta esplicita del presidente François Mitterrand che aveva
fretta di trovare una soluzione semplice che mettesse rapidamente un freno alla
spesa del governo di sinistra che nel frattempo stava esplodendo. Così in meno
di un’ora, senza l’assistenza di una teoria economica, è nata l’idea del 3% […]
il numero 3, che è noto al pubblico per vari motivi ed ha un’accezione
positiva, si pensi alle Tre Grazie, ai tre giorni della resurrezione, le tre età
di Auguste Comte, i tre colori primari, la lista è infinita. Un numero, magico,
quasi sciamanico, facilmente spendibile anche nel marketing politico […]».(Guy
Abeille, Sole24Ore, 4/4/2019).I dogmi neoliberisti inscritti nei trattati
europei e recepiti dalle leggi italiane avevano imposto feticci come il
«pareggio di bilancio», inserito perfino nella Costituzione. Proprio
l’inseguimento del «pareggio di bilancio» era quello che aveva devastato il
welfare state e in particolare la sanità pubblica, che adesso, dopo quasi
trent’anni di tagli, si ritrovava incapace di gestire l’epidemia. Così avevano
riassunto lo sfascio le CLAP (Camere del Lavoro Autonomo e Precario): «Dal 1997
[…] l’Italia ha perso 100mila posti letto […] Tra il 2012 e il 2017 […] sono
stati soppressi 759 reparti ospedalieri.»Ora si diceva che per affrontare
l’epidemia bisognava operare in deficit di oltre sette miliardi. Una
super-deroga giustificata dalla situazione.Sì, si potevano chiedere e ottenere
deroghe, ma quanto a soluzioni razionali sul lungo periodo, c’era poco da
sperare. «Il servizio sanitario è al collasso!», «i posti-letto già finiti!»…
Si parlava di posti-letto e di capienza del sistema sanitario come se fossero
premesse assiomatiche, un datum quasi immodificabile. E invece, se c’era
davvero grande pericolo, allora si sarebbero dovuti mettere in questione anche
i dogmi più consolidati. C’era urgenza? Allora che si precettassero le cliniche
e gli ospedali privati, quelli che avevano guadagnato dall’aziendalizzazione,
privatizzazione e frammentazione del Sistema Sanitario Nazionale. Qualcuno non
voleva essere precettato? Requisire la struttura. L’esproprio per pubblica
utilità lo prevedeva anche la Costituzione, che quando parlava della proprietà
privata ne limitava «i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di
assicurarne la funzione sociale».
Nell’Italia di un universo parallelo, l’epidemia poteva essere l’occasione
giusta, poteva stimolare un’inversione di rotta e il ritorno a una sanità
veramente pubblica, universale e gratuita….