La rivoluzione ungherese del 1956 iniziò il 23 ottobre a Budapest da una manifestazione pacifica di alcune migliaia di studenti, a cui si aggiunsero via via parecchie decine di migliaia di cittadini, a sostegno della rivolta in Polonia degli operai di Poznam che il 28 giugno erano scesi in sciopero e in corteo, appoggiati da gran parte della popolazione, per protestare contro l’aumento dei beni di prima necessità (al grido di “Pane e libertà”) ma anche contro il regime polacco e la sua sottomissione allo stalinismo sovietico. La rivolta era stata brutalmente repressa in 48 ore con l’intervento dei carri armati dell’Esercito (comandato da un generale sovietico) e con un numero di morti che, secondo le fonti, andò da una sessantina a un centinaio e circa 600 feriti, e un numero imprecisato di arrestati, di cui nella manifestazione di Budapest si chiedeva la libertà. Ma la rivolta ungherese ebbe fin dall’inizio ben altre dimensioni e portata, crebbe rapidamente trasformandosi in una vera e propria rivoluzione contro il regime di Matyas Rakosi (a fasi alterne segretario generale del Partito Comunista e del Partito dei Lavoratori, mascheratura del primo, capo diretto o per interposta persona del governo ungherese nel decennio trascorso, il “miglior allievo di Stalin in Ungheria”, come si autodefiniva) e dei suoi metodi dittatoriali, e contro la sottomissione all’Urss e la presenza militare sovietica nel paese. Milioni di ungheresi sostennero e parteciparono attivamente in varie città (anche se la partita si giocò prevalentemente a Budapest) all’insurrezione, portando ad un controllo diffuso del territorio da parte degli insorti, e a violenti e dilaganti scontri armati per le strade contro i carri armati sovietici intervenuti per schiacciare la rivoluzione.
Gli insorti chiedevano il ritiro dei sovietici e nuovi rapporti bilaterali e alla pari tra Urss e Ungheria; l’uscita dell’Ungheria dal Patto di Varsavia; lo scioglimento dell’AVH (Allamvedelmi Hatosag, Autorità per la protezione dello Stato), la polizia segreta imposta fin dal 1945 dai sovietici; la liberazione dei prigionieri politici; libertà di stampa e di organizzazione politica e sindacale; l’abolizione degli ammassi obbligatori (consegna allo Stato di parte dei prodotti agricoli) per i contadini; miglioramenti delle condizioni di vita e aumenti dei salari; gestione delle fabbriche affidata ai Consigli operai. Mentre infuriavano i combattimenti tra insorti, da una parte, e AVH e truppe sovietiche dall’altra, e mentre una parte dell’esercito ungherese aderiva alla rivolta, rifiutandosi di intervenire contro l’insurrezione, il Partito (comunista) dei Lavoratori ungheresi, fino al giorno prima di stretta osservanza stalinista, per tentare di salvarsi scaricava Rakosi, nominando primo ministro Imre Nagy (che lo era già stato nel 1953), il quale finì per far suo gran parte di quanto richiesto dai rivoltosi, appoggiando di fatto il processo rivoluzionario. Il 28 ottobre ci fu un formale “cessate il fuoco” e le truppe sovietiche abbandonarono il paese, rimanendo però acquartierate a ridosso del confine. Per pochi giorni sembrò che l’insurrezione avesse vinto; ma in realtà la tregua servì solo a riorganizzare l’attacco militare. E infatti, il 3 novembre, durante le trattative con il nuovo governo ungherese, i militari del KGB arrestarono l’appena nominato ministro della difesa Malinin e l’intera delegazione ungherese; e nella notte tra il 3 e il 4 novembre le truppe sovietiche rientrarono con 150 mila soldati e 6 mila veicoli corrazzati, lanciando un’offensiva con artiglieria pesante e raid aerei contro gli insorti a Budapest e in altre città, soffocando l’insurrezione e ingigantendone le vittime (sulla cui cifra esatta credo non si possa dire con certezza, oscillando essa, a seconda degli studi e delle testimonianze documentate, da circa 2500 fino a 5 mila, senza contare la moltitudine di arrestati, una parte dei quali poi condannati a morte). Imre Nagy si rifugiò nell’ambasciata jugoslava, forte di un salvacondotto concessogli dalla Jugoslavia, prima, e dal nuovo governo Kadar, poi; per cadere però il 22 novembre – tradito sia da Tito (che aveva nel frattempo incontrato Kruscev) sia da Kadar – nelle mani dei sovietici, che lo deportarono in Romania . Il 7 novembre della rivolta restavano ben pochi focolai e si installò un governo subordinato a Mosca e diretto da Janos Kadar. La nomina però venne retrodata al 3 novembre per dimostrare che le truppe sovietiche avevano invaso l’Ungheria su mandato del suo nuovo primo ministro. Nagy e Maleter vennero successivamente processati e condannati a morte e impiccati il 16 giugno 1958.
Il ruolo della stampa comunista nella falsificazione degli eventi ungheresi
Mi sono limitato a questi scarni dati su una delle vicende più drammatiche della seconda parte del Novecento – e di impatto enorme su tutto il mondo comunista e della sinistra dell’epoca – sia perché si tratta di fatti storici abbondantemente studiati e documentati ma ancor più perché qui il tema che mi interessa trattare è la reazione ai fatti da parte del Pci (e della sua stampa) e il ruolo da esso svolto negli avvenimenti, nel quadro anche delle posizioni della restante sinistra italiana, Psi e Cgil in primo luogo. Formalmente, il Pci attese tre giorni prima di prendere una posizione ufficiale: ma in realtà fu la stampa comunista (in prima battuta l’Unità, il quotidiano del Pci, seguita a ruota da Rinascita e Nuovi Argomenti) ad assumere un ruolo fondamentale nella falsificazione degli eventi ungheresi e nell’opera di orientamento e convinzione di una base comunista, già profondamente confusa e disorientata dal fatto di aver appreso, solo pochi mesi prima, dal XX Congresso del Pcus (che si era tenuto al Gran Palazzo del Cremlino a Mosca, dal 14 al 26 febbraio del 1956) e dal rapporto di Nikita Kruscev (nominato segretario generale del Pcus nel 1953, dopo qualche mese dalla morte di Stalin) che Stalin non era il Padre eroico e infallibile del popolo lavoratore di tutto il mondo ma qualcosa di molto simile a quel sanguinario dittatore della propaganda avversaria, essendosi macchiato, per esplicita ammissione del Pcus stesso, di “gravi crimini”. Fin dal 24 ottobre l’Unità descrisse l’insurrezione come «un tentativo reazionario di controrivoluzionari». L’edizione romana, nell’articolo di prima pagina titolato “Scontri per le vie di Budapest provocati da gruppi armati controrivoluzionari” spiegava che gli scontri erano stati causati da:
«tentativi di provocazione di elementi ostili alla democrazia popolare che hanno cercato dapprima di trasformare una pacifica manifestazione di solidarietà con la Polonia…in una dimostrazione contro il regime popolare; e constatato il fallimento di questo obiettivo , hanno sferrato attacchi armati contro la stazione radio…Gruppi di teppisti lanciavano slogan che incitavano apertamente ad una azione controrivoluzionaria»1.
E dal giorno dopo, lo stravolgimento dei fatti assunse un crescendo ininterrotto di cronache forcaiole e false fino all’inverosimile e al grottesco grazie soprattutto ai resoconti di uno dei due corrispondenti (dell’altro, Alberto Iacoviello, dirò tra poco) de l’Unità da Budapest, Orfeo Vangelista, stalinista inveterato (lo è rimasto pure negli ultimi decenni, avviando una casa editrice che è così stalinista da sembrare una parodia), ma con la assoluta complicità e corresponsabilità del direttore Pietro Ingrao che non poteva ignorare il livello di impressionante falsificazione in atto. In un continuo florilegio di titoli ad effetto, che trattavano persino gli operai, e i loro Consigli di fabbrica, insorti come «teppisti…spregevoli provocatori..fascisti e nostalgici del regime di Horthy (n.d.a. governò l’Ungheria tra le due guerre mondiali e poi si schierò nella Seconda con i nazi-fascisti)» Vangelista così iniziava il 25 ottobre la sua opera di falsificazione e così “informava” i comunisti italiani/e:
« Gli avvenimenti sono dovuti all’esplosione di un movimento controrivoluzionario rivelante una chiara impronta provocatoria e una preordinata organizzazione, avvenuta probabilmente per mezzo di agenti e di forze non solo interne ma straniere…Gruppi di facinorosi, seguendo un piano accuratamente studiato, hanno attaccato la sede della radio e del Parlamento. Gruppi di provocatori in camion hanno lanciato slogan antisovietici, apertamente incitando a un’azione contro rivoluzionaria. In Piazza Stalin i manifestanti hanno tentato di abbattere la statua di Stalin. L’intervento sovietico è un dovere sacrosanto, senza il quale si tornerebbe al terrore fascista dei tempi di Horthy. Le squadre dei rivoltosi sono composte prevalentemente dai giovani rampolli dell’aristocrazia e della grossa borghesia»2
Peraltro, mentre infuriavano i combattimenti, nella stessa edizione il giornale diretto da Ingrao titolava “Le bande rivoluzionarie costrette alla resa” (mentre il titolo nell’edizione milanese era “I controrivoluzionari si arrendono a Budapest dopo i sanguinosi attacchi al potere socialista”); e di suo il direttore vi aggiungeva, dando per assodato il fallimento dell’insurrezione, un editoriale improntato ad una drastica condanna del tentativo, affermando che «per ventiquattro ore bande armate hanno tentato a Budapest di attuare un putsch contro rivoluzionario» e che «quando crepitano le armi dei controrivoluzionari si sta da una parte della barricata o dall’altra» e dunque invitando il popolo comunista a schierarsi, senza alcun dubbio, dalla parte della repressione messa in opera dai sovietici e da una parte della milizia ungherese (Per inciso. Ingrao si dichiarerà pentito di quell’editoriale, peraltro seguito il 27 ottobre da un altro egualmente deprecabile, Il coraggio di prendere posizione, definendolo “pessimo” solo 45 anni dopo in un dialogo con Il Manifesto, e per giunta limitandosi a quello, mentre forcaiola fu tutta la conduzione de l’Unità di quel periodo, confermando che lui, autodefinitosi uomo che «coltiva perennemente il dubbio», quella volta di dubbi non ne aveva “coltivati”). E nella stessa edizione, quelli che il giorno prima l’Unità aveva valutato in centomila manifestanti, si riducevano di colpo a diecimila.
Il giorno seguente, 26 ottobre, la direzione del Pci prendeva seccamente posizione (anche se la prima riunione ufficiale sul tema si sarebbe tenuta solo 4 giorni dopo), con un editoriale in grande evidenza sulla prima pagina de l’Unità, dal titolo “Sugli avvenimenti polacchi e ungheresi” in cui si affermava che si era trattato di «una sommossa controrivoluzionaria armata, apertamente volta a rovesciare il governo democratico popolare, a troncare la marcia verso il socialismo e restaurare un regime di reazione capitalistica», aggiungendo, nella convinzione che gli insorti fossero già stati sconfitti, che la loro repressione «non può che essere salutata da ogni democratico sincero». In verità qualcuno dei giornalisti de l’Unità provò a ribellarsi all’andazzo. Fu il caso ad esempio di Alberto Iacoviello, l’altro inviato a Budapest che nei primi due giorni descrisse nelle sue corrispondenze l’insurrezione come un «genuino movimento di popolo»; ma Ingrao gli censurò gli articoli mentre Togliatti gli rimproverò la frequentazione di corrispondenti “borghesi”. Successe infatti che Jacoviello, rientrando in Austria dall’Ungheria, venne arrestato dai sovietici insieme a Indro Montanelli, inviato del Corriere della sera e, seppur rilasciato, rifiutò di andarsene finché non ottenne la liberazione anche di Montanelli: e nelle settimane successive a Iacoviello venne tolto l’incarico di capo di servizi esteri. Anche Davide Lajolo, direttore delle edizione milanese, provò a non pubblicare i pesantissimi editoriali di Ingrao e Togliatti, facendo però rapida marcia indietro dopo un colloquio telefonico con lo stesso Togliatti. Retromarcia che però non fece un gruppo di redattori e il direttore di Paese Sera (all’epoca una sorta di giornale “fiancheggiatore” del Pci) Tomaso Smith che il 27 ottobre inviarono una lettera a Ingrao per contestare l’intera impostazione data a l’Unità in quelle giornate, mentre Smith il giorno dopo scrisse un editoriale assolutamente controcorrente di cui riporto il passaggio decisivo:
«Perché si parla di un movimento controrivoluzionario quando l’intero popolo magiaro, lavoratori, contadini, studenti, soldati, intellettuali, è insorto appunto in difesa del vero socialismo e della vera democrazia che esigono, sì disciplina e consapevolezza ma non comportano coercizione e arbitri?»3.
Solo che anche queste voci vennero rapidamente tacitate e Smith e gli altri redattori dovettero abbandonare Paese Sera: e la macchina del fango procedette a pieno regime. Nei giorni successivi su l’Unità si poteva leggere ad esempio di un assalto a Szabad Nep (il giornale del Partito comunista ungherese) in cui gli insorti avevano «massacrato tutti i redattori» (in realtà ci fu solo un morto, per un colpo partito accidentalmente); dell’uccisione, del tutto inventata, del celeberrimo e grande calciatore Ferenc Puskas «caduto in combattimento contro gli insorti»; di «migliaia di quadri» del Partito comunista ungherese (in una corrispondenza da Mosca di Giuseppe Boffa) «assassinati, squartati, impiccati, decapitati, bruciati vivi dalle squadre di rivoltosi più ferocemente oltranzisti e fascisti» mentre su Vie Nuove Velio Spano, autorevole dirigente PCI, raccontava di «teste di comunisti mozzate ed esposte come trofei sulle picche». (per la cronaca, al processo contro Nagy il Partito comunista ungherese dichiarerà ufficialmente che i morti, tra gli ungheresi che si erano schierati con i sovietici, erano stati in tutto 234, senza decapitazioni, squartamenti, o roghi da novella Inquisizione). E in questo tragico Grand Guignol della menzogna, l’Orfeo Evangelista già citato aggiunse note persino buffonesche (se la prigionia di Nagy non fosse finita tragicamente), quando poche settimane dopo, il 2 dicembre, mentre nel mondo ci si domandava che fine avesse fatto l’ex presidente del Consiglio ungherese, in mano ai sovietici da dieci giorni, riuscì a scrivere un incredibile reportage, spiegando che le “speculazioni” della propaganda occidentale e dei controrivoluzionari ungheresi su Nagy erano false:
«Oggi abbiamo appreso che l’ex-presidente del Consiglio, accompagnato da alcuni suoi amici, tra cui lo scrittore e filosofo Lukacs, si troverebbe in un’amena località ai piedi dei Carpazi, nella Transilvania, in Romania: Sindid, un tempo frequentata dalla famiglia reale, che offre un soggiorno confortevole a Nagy e ai suoi collaboratori, felicemente sistemati in ville della lussuosa stazione climatica. Un collaboratore dell’ex primo ministro ha telefonato ai sui parenti a Budapest per informarli della sua ottima sistemazione, del suo buon umore e persino della sua soddisfazione di essere lontano dagli avvenimenti ungheresi»4.
Insomma, una bella vacanza in Transilvania, ove in realtà si consumava la tragedia finale di Nagy il quale, in mano al KGB che voleva che rinnegasse la “genuinità” dell’insurrezione, attribuendone le responsabilità all’intervento di potenze straniere, con grande dignità rifiutò di tradire la realtà e il suo ruolo, segnando così definitivamente la sua condanna a morte. Ma detto del ruolo dei giornali comunisti nei giorni dell’insurrezione, e de l’Unità in primo luogo, e tornando alle posizioni delle principali forse della sinistra, i segnali più forti in controtendenza vennero dalla Cgil e, come vedremo più avanti, dal Partito socialista (seppur con qualche eccezione). La prima reazione ufficiale, controcorrente, venne dalla Cgil. Il 27 ottobre la segreteria nazionale produsse un comunicato di cui riporto i principali stralci:
“La segreteria confederale ravvisa in questi luttuosi avvenimenti la condanna storica e definitiva di metodi di governo e di direzione politica ed economica antidemocratici, che determinano il distacco tra dirigenti e masse popolari. Il progresso sociale e la costruzione di una società nella quale il lavoro sia liberato dallo sfruttamento capitalistico sono possibili soltanto con il consenso e la partecipazione attiva della classe operaia e delle masse popolari, garanzia della più ampia affermazione dei diritti di libertà , di democrazia e di indipendenza nazionale…La Cgil, fedele al principio di non intervento di uno Stato negli affari interni di un altro Stato, deplora che sia stato chiesto e si sia verificato in Ungheria l’intervento di truppe straniere”.
Il 30 ottobre si riunì la direzione del Pci per confermare e incrudire la posizione del partito sugli avvenimenti in Ungheria, ma anche per regolare i conti con la componente comunista della Cgil e in primo luogo con Di Vittorio. Intervennero nella discussione, dopo la relazione di Togliatti, tra gli altri Pajetta, Di Vittorio, Secchia, Amendola, Ingrao, Terracini e Berlinguer. Tutti, tranne ovviamente Di Vittorio, si associarono all’attacco frontale di Togliatti alla presa di posizione della Cgil e del suo segretario generale. In particolare, Amendola accusò la Cgil di aver ceduto al “pogrom antisovietico”, e Ingrao vi aggiunse un attacco a Di Vittorio per non aver rispettato la disciplina di partito («Il compagno Di Vittorio sapeva di dire cose diverse da quelle della direzione del Partito. Bisogna condurre la battaglia uniti»), mentre Pajetta ne chiese esplicitamente l’autocritica. Ma nella stessa giornata Togliatti andò oltre, inviando una lettera al Comitato centrale del Pcus in cui di fatto sollecitava l’intervento armato sovietico. Eccone gli stralci più illuminanti:
“Vi assicuro che gli avvenimenti ungheresi si sono sviluppati in modo tale da rendere molto difficile la nostra azione di chiarimento all’interno del partito e per ottenere l’unità attorno alla sua direzione…Vi sono coloro che accusano la direzione del nostro partito di non aver preso posizione in difesa dell’insurrezione di Budapest e che affermano che l’insurrezione era pienamente da appoggiare e che era giustamente motivata. Questi gruppi esigono che l’intera direzione del nostro partito sia sostituita e ritengono che Di Vittorio dovrebbe diventare il nuovo leader del partito. Noi conduciamo la lotta contro queste posizioni…(ma) adesso è lo stesso governo ungherese che esalta l’insurrezione. La mia opinione è che il governo ungherese, rimanga o no alla sua guida Imre Nagy, si muoverà irreversibilmente verso una direzione reazionaria. Voglio aggiungere che tra i dirigenti del nostro partito si sono diffuse preoccupazioni che gli avvenimenti polacchi e ungheresi possano lesionare l’unità della direzione collegiale del vostro partito, quella che è stata definita al XX° Congresso. Noi tutti pensiamo che, se ciò avvenisse, le conseguenze potrebbero essere molto gravi per l’intero nostro movimento”5.
Questa lettera venne peraltro inviata al Pcus senza che gli altri dirigenti del Pci ne sapessero niente, visto che suonava come una richiesta dell’intervento militare sovietico. E che tale fosse l’intento di Togliatti lo dimostrò ampiamente quanto il “Migliore” scrisse sei giorni dopo, quando i carri armati sovietici avevano già schiacciato l’insurrezione, dando dalle colonne de l’Unità all’intero popolo comunista italiano (e non solo) il brutale messaggio che, piuttosto che protestare per l’invasione dell’Ungheria da parte delle truppe sovietiche, si sarebbe dovuto protestare contro il Pcus qualora l’intervento militare non ci fosse stato. Questi alcuni passaggi del suo editoriale in data 6 novembre, dal titolo Per difendere la civiltà e la pace:
“E’ mia opinione che una protesta contro l’Unione Sovietica avrebbe dovuto farsi se essa non fosse intervenuta, e con tutta la sua forza questa volta, per sbarrare la strada al Terrore bianco e schiacciare il fascismo nell’uovo, nel nome della solidarietà che deve unire nella difesa della civiltà tutti i popoli, ma prima di tutto quelli che già si sono posti sulla via del socialismo”6.
D’altra parte, il giorno prima, con l’approvazione di Ingrao, l’Unità aveva collocato la pietra tombale sull’insurrezione, titolando in prima pagina «Le truppe sovietiche intervengono in Ungheria per porre fine all’anarchia e al terrore bianco» e sottotitolo «Kadar forma un governo per difendere le conquiste operaie e contadine», mentre l’occhiello recitava «Sbarrata la strada alla controrivoluzione e alla minaccia di provocazioni internazionali». Nel contempo, Togliatti, nel già citato editoriale del giorno seguente, infieriva anche su Imre Nagy, giustificando a priori il suo successivo arresto e condanna a morte da parte dei sovietici:
“ Assai poco contano le parole che il signor Nagy (n.d.a. retrocesso con disprezzo da “compagno” a “signore” nel giro di 24 ore) veniva dicendo, assai poco contano le persone di cui componeva i suoi crepuscolari governi. Importa la meta verso cui si stava precipitando, e che era oramai fatale, se alla classe operaia e al popolo ungherese non fosse stato dato un potente e decisivo aiuto”7.
Poco più di un anno dopo, Togliatti avrebbe dato un altro brutale segno di spietatezza e di cinico disprezzo nei confronti del “signor” Nagy, chiedendo al governo ungherese7 (cfr. dichiarazioni di Kadar al CC del Partito comunista ungherese del 29 novembre ’57) di rinviarne l’esecuzione a dopo le elezioni politiche italiane del 25 maggio 1958, nel timore che tale assassinio “legale” potesse danneggiare elettoralmente il Pci: cosa che Kadar –il quale aveva già tradito Nagy consegnandolo ai sovietici – fece, rinviando l’esecuzione al 16 giugno 1958. Ma anche gli altri massimi dirigenti del Pci non furono da meno in spietatezza, cinismo e falsità, a partire da quelli che poi nei decenni successivi si sarebbero riciclati come “oppositori di Sua Maestà” e sinceri democratici. A partire proprio da quel Pietro Ingrao, divenuto poi il riferimento per tanta parte della sinistra extraparlamentare post-’68 (gruppo del Manifesto in prima fila), per valutare la cui posizione e il cui ruolo nella drammatica vicenda tutto quanto scritto finora dovrebbe bastare.
L’VIII Congresso del Pci e la condanna definitiva della rivoluzione ungherese
La pressoché totale unanimità del gruppo dirigente del Pci la si vide platealmente durante l’VIII Congresso nazionale (8-14 dicembre 1956) laddove gli avvenimenti ungheresi e la posizione assunta dal Partito comunista restarono al centro della scena, malgrado nel frattempo la crisi di Suez, la nazionalizzazione del Canale da parte dell’Egitto di Nasser, l’aggressione di Israele, Regno Unito e Francia all’Egitto (29 ottobre-7 novembre) e il “cessate il fuoco” e poi il ritiro delle truppe imposti da Urss e Stati Uniti8 avessero spostato l’attenzione mondiale dagli eventi ungheresi, consentendo a Togliatti e al gruppo dirigente di recuperare terreno nei confronti di una base assolutamente disorientata fino alla prima settimana di novembre. Ad eccezione di Antonio Giolitti e Giuseppe Di Vittorio, tutti i più autorevoli dirigenti comunisti seguirono pedissequamente il percorso tracciato da Togliatti che, nella sua relazione, non fece altro che sintetizzare e ribadire, persino con maggior durezza e usando la crisi di Suez per valorizzare ulteriormente il ruolo dell’Urss, quanto già sostenuto durante il mese di ottobre e nei primi giorni di novembre. E a distinguersi per particolare ossequio all’ortodossia togliattiana e stalinista, furono proprio i presunti “giovani rinnovatori” del partito. Giorgio Napolitano, all’epoca trentunenne e tra le grandi promesse del partito, espresse tutto il suo entusiasmo e condivisione per la relazione di Togliatti, esaltando l’intervento militare sovietico che « ha evitato che nel cuore dell’Europa si creasse un focolaio di provocazioni, permettendo all’URSS di intervenire con decisione e forza per arrestare l’aggressione imperialista in Medio oriente, oltre che per impedire che l’Ungheria cadesse nel caos e nella controrivoluzione , contribuendo in maniera decisiva a difendere non già solo gli interessi militari e strategici dell’URSS ma a salvare la pace nel mondo»9. Andò pure oltre Alessandro Natta, il quale si permise anche un attacco alla nuova direzione sovietica per gli «eccessi di critica del culto di personalità» e per il contributo alla demolizione del mito di Stalin, concludendo, a proposito dell’insurrezione ungherese, con un inno alla compattezza togliattiana del partito: « Chiedo ai compagni: se al momento cruciale della crisi ungherese il partito non avesse trovato la forza di resistere e di vincere gli allettamenti al compromesso, il rischio della disgregazione, non avremmo forse smarrito il senso e il valore del nostro compito storico?». Anche Aldo Natoli, segretario Pci del Lazio, attaccò coloro che « presentano l’intervento sovietico in Ungheria come un puro e semplice episodio di una politica di potenza che nulla avrebbe a che fare con la difesa della pace e del socialismo, rivelando una scarsa chiarezza sulla natura stessa del campo socialista». Pure Luigi Longo e Umberto Terracini si schierarono a favore della tesi di un tentativo di restaurazione capitalistica di stampo reazionario, il primo affermando tra l’altro che «l’esercito sovietico è intervenuto in Ungheria allo scopo di ristabilire l’ordine turbato dal movimento controrivoluzionario che aveva lo scopo di distruggere e annullare le conquiste dei lavoratori», mentre il secondo sostenne con la massima sicumera che «l’esercito sovietico non può che trovare unanime appoggio e solidarietà in tutti i veri democratici italiani».
Del resto, tutta l’impostazione degli interventi mirava, a partire ovviamente dalla relazione di Togliatti, a togliere ogni legittimità alle voci di dissenso: attaccare apertamente l’intervento militare sovietico, tanto più dopo che i nuovi leader del Pcus avevano smontato il mito di Stalin, significava distruggere tutta la costruzione del “socialismo reale” e del ruolo dell’Urss, dando ragione non solo alla destra internazionale ma anche a quella socialdemocrazia europea che, a partire da Kautsky in avanti, aveva da decenni denunciato e criticato i metodi dittatoriali del bolscevismo prima e dello stalinismo poi. Dunque, chi avanzava forti critiche all’intervento militare, non poteva che essere in malafede, intendendo in realtà contestare non solo la politica sovietica ma anche l’intera storia dello stalinismo e del togliattismo italiano. Non può dunque sorprendere il fatto che gli unici due interventi che nel Congresso osarono considerare “una rivoluzione” l’insurrezione ungherese, giudicando non democratico e non socialista il governo ungherese di Rakosi, quello di Giuseppe Di Vittorio (segretario generale della Cgil dal 1945 al 1957, seppure in coabitazione con Oreste Lizzadri in quota Psi e Achille Grandi per la Dc, fino alla scissione del 1948 che portò alla fondazione della Cisl e della Uil, e eletto nel 1946 all’Assemblea costituente per il Pci) ma soprattutto quello di Antonio Giolitti, furono ascoltati dalla platea, come riferirono i cronisti dell’epoca, «in un agghiacciante silenzio ostile». E se per Di Vittorio permaneva comunque il rispetto per la storia di un stimatissimo leader sindacale, il fastidio e l’ostilità si concentrarono su Antonio Giolitti, non carico del curriculum di Di Vittorio ma “semplice” deputato del Pci, il quale però argomentò il suo dissenso con notevole abilità, smontando l’impianto dialettico usato da Togliatti e dai suoi epigoni, e lanciando all’uditorio un forte messaggio anche di tipo etico.
«La società socialista, nel suo farsi, elabora e applica nuove e più avanzate forme di democrazia…Ma essa fa anche proprie le libertà formali dei regimi borghesi, riempiendole di quel contenuto concreto e universale che esse possono avere solo quando non sono limitate e falsate da privilegi di classe. Perciò noi oggi dobbiamo proclamare , senza riserve e senza doppiezze, , che le libertà democratiche, anche nelle loro forme istituzionali di divisione dei poteri , di garanzie formali, di rappresentanza parlamentare, non sono “borghesi” ma sono elemento indispensabile per costruire la società socialista nel nostro paese…e credo che ciò imponga un riesame della teoria leninista della conquista del potere. Ma anche la più solenne nostra dichiarazione sul valore permanente delle libertà democratiche è parola vana se continuiamo a scrivere nel nostro programma e nelle nostre tesi che gli errori e i delitti denunciati al XX Congresso del Pcus non hanno intaccato la permanente sostanza democratica del potere socialista, e se definiamo legittimo, democratico e socialista un governo come quello contro il quale è insorto il popolo di Budapest il 23 ottobre. Ecco dei casi di doppiezza che bisogna condannare ed eliminare…L’unità del partito non si difende aiutandolo ad andare su una strada che si giudica sbagliata. Se si è convinti che viene commesso un errore si ha il dovere di dirlo e di battersi per correggerlo. In Ungheria e in Polonia hanno difeso il partito non i compagni che per una malintesa disciplina hanno taciuto, ma quelli che hanno criticato. Molte volte il gioco dell’avversario lo fa chi tace. Ma tutti i buoni propositi di realizzare una vera democrazia nel partito vengono smentiti quando un compagno che critica viene accusato di tradimento, diventa un agente del nemico, come è stato fatto negli ultimi tempi. Abbiamo visto combattere e sradicare senza pietà le opinioni di quei compagni – e io sono tra costoro – che hanno manifestato dubbi e dissensi in merito alla definizione di controrivoluzione data della rivolta popolare del 23 ottobre e di “potere legittimo, democratico e socialista” data del governo ungherese di allora. Quelle opinioni contrarie dovevano essere riconosciute valide o almeno legittime: ma intanto erano state soffocate ed era stata sconfessata la loro espressione più autorevole, la dichiarazione della Cgil».
Nell’insieme, un intervento di coraggiosa (almeno in quel contesto) fattura ideologica, politica e morale, un discorso di forte rottura con la tradizione staliniana e togliattiana, ma che proprio per questo non poteva che trovare un’accoglienza gelida, con pesanti strascichi successivi: Antonio Giolitti dovette a breve trarre le logiche conseguenze della sua esposizione intellettuale e politica, abbandonando nel 1957 il Pci e aderendo successivamente al Psi. Nel frattempo, il Pci riuscì a contare ancora una volta sulla complicità di buona parte dell’intellettualità filocomunista e stalinian-togliattiana, capitanata da quel Concetto Marchesi, considerevole latinista e linguista, eletto nell’Assemblea costituente (ove ottenne l’incarico della revisione finale, sintattica e stilistica della Costituzione), eletto poi per due volte in Parlamento nelle liste del Pci, molto amico di Togliatti, con il quale entrò in conflitto solo sull’inserimento dei Patti Lateranensi nell’art.7 della Costituzione; e soprattutto stalinista senza dubbi, al punto da contestare aspramente il XX Congresso e la condanna, seppur parziale. dei crimini di Stalin da parte di Kruscev e della nuova leadership del Pcus. Nel Congresso, rappresentò la punta più estrema dello stalinismo irriducibile e della massima ostilità alla de-stalinizzazione e alla rivoluzione ungherese. Per convincersene, dovrebbero bastare due passaggi del suo intervento – che, peraltro, riscossero largo consenso e molti applausi – di attacco frontale a Kruscev e alla rivoluzione ungherese:
« Tiberio, uno dei più grandi e infamati imperatori di Roma, trovò il suo implacabile accusatore in Cornelio Tacito, il massimo storico del Principato. A Stalin, meno fortunato, è toccato Nikita Kruscev» e « In Ungheria non era cominciata la guerra civile, ma la caccia al comunista. Per certi intellettuali comunisti, i massacri dei comunisti non contano. Essi sino gli olocausti dovuti alla sacra ira del popolo risorto, anche se di questo popolo risorto i nuovi capi sono il cardinale primate e i castellani di Horthy».
Non sarà da meno qualche mese dopo Lucio Lombardo Radice, celebre matematico e pedagogista, anch’esso della folta schiera dell’intellettualità stalin-togliattiana, priva di dubbi persino dopo il XX Congresso e l’insurrezione ungherese. Questo scrisse su Nuovi Argomenti (la rivista legata al Pci, diretta da Alberto Moravia e Alberto Carocci) nella primavera seguente:
« Se anche uomini assai autorevoli, per prestigio politico e culturale, come Pietro Nenni o Carlo Levi, sostengono che l’Ungheria, lasciata a se stessa, non avrebbe intaccato le riforme socialiste né abbandonato il campo socialista, i fatti sono lì ad indicare ben diverse prospettive. E i fatti sono le richieste ultimative di sgombero immediato dal territorio ungherese delle truppe sovietiche, con la minaccia di chiamare truppe dell’ONU – quelle americane di stanza in Germania, quelle tedesche? – (n.d.a. falso clamoroso: non ci fu mai alcuna richiesta in tal senso da parte del governo ungherese di Imre Nagy),furono le carneficine di militanti comunisti, furono la progressiva e precipitosa perdita di potere effettivo e di iniziativa politica autonoma del governo Nagy, la crescente influenza dei reparti armati e dei gruppi politici della destra restauratrice…Le truppe sovietiche non interruppero un processo di democratizzazione del socialismo ungherese , ma posero fine ad uno stato di caos politico-economico-statale nel quale la prospettiva controrivoluzionaria si andava delineando sempre più nettamente , non impedirono l’autonomia dell’Ungheria socialista nei confronti dell’Urss, ma il passaggio dell’Ungheria nel campo imperialista»10.
Però, una parte comunque significativa di autorevoli intellettuali, iscritti o simpatizzanti del Pci, prese posizione contro la linea del Partito sugli avvenimenti ungheresi e contro il permanere del legame con lo stalinismo, producendo quello che venne chiamato il Manifesto dei 10111 (dal numero dei firmatari) che venne portato il 29 ottobre al quotidiano l’Unità, che ne rifiutò la pubblicazione ma che fu diffuso successivamente dall’agenzia giornalistica ANSA. Il documento aveva come obiettivo l’avvio di una discussione nel Pci, affinché fosse modificato l’attacco alla rivoluzione e venisse manifestata una condanna esplicita sia dell’intervento militare sovietico sia, più in generale, dello stalinismo, insieme ad un profondo rinnovamento del gruppo dirigente del comunismo italiano. Il Manifesto fu firmato tra gli altri da Carlo Muscetta (che ne scrisse la prima stesura), Natalino Sapegno, Renzo De Felice, Lucio Colletti (che apportò le modifiche definitive al testo iniziale), Alberto Asor Rosa, Enzo Siciliano, Antonio Maccanico, Vezio Crisafulli, Piero Melograni, Alberto Caracciolo, Mario Tronti. La reazione del Pci fu molto aspra e provocò il ritiro dell’adesione da parte di alcuni – tra gli altri Elio Petri, Paolo Spriano, Mario Socrate, Lorenzo Vespignani – con motivazioni pretestuose (il documento avrebbe dovuto restare all’interno del Pci, cosa ovviamente impossibile se l’Unità l’avesse pubblicato). Ma la violenza della reazione del Pci convinse altri ad uscire dal Pci, come Antonio Giolitti (che aveva partecipato alla stesura del Manifesto, ma aveva preferito non firmarlo in quanto deputato del Pci), Fabrizio Onofri, Natalino Sapegno, Eugenio Reale, Vezio Crisafulli, Carlo Aymonino, Carlo Muscetta, Loris Fortuna, Elio Vittorini, Antonio Ghirelli, Delio Cantimori e Italo Calvino, che era stato anche promotore di un analogo testo dei comunisti della casa editrice Einaudi, ricevendo un duro attacco da parte di Togliatti contro « i controrivoluzionari della cellula Einaudi di Torino».
La posizione opposta del Partito Socialista
Una posizione diametralmente opposta fu invece quella assunta dal Partito socialista, che provò anche a rivendicare quanto con larghissimo anticipo i socialisti marxisti alla Kautsky (oltre ovviamente agli anarchici e ai socialrivoluzionari) avevano denunciato fin dal 1918 sui caratteri dittatoriali impressi alla nascente società sovietica dai comunisti bolscevichi: rivendicazione però inopportuna, visto che i socialisti italiani erano stati anch’essi, durante la Resistenza e con Nenni almeno fino al 1956, simpatizzanti dello stalinismo, arrivando nel 1947 alla rottura che produsse il Psdi (Partito socialdemocratico) di Saragat, il quale, proprio sul rifiuto dell’allineamento con l’Urss e con il Pci, aveva motivato la scissione, finendo poi però per costituire una “ruota di scorta” della DC. Comunque, a fare da battistrada al Psi nella difesa dell’insurrezione ungherese e nella denuncia dell’aggressione militare sovietica, fu il suo quotidiano l’Avanti! , proprio come l’Unità fu la guida della denigrazione dei rivoluzionari ungheresi a nome del Pci. E decisivo fu (come nel versante opposto era avvenuto per l’Unità) l’inviato dell’Avanti! a Praga Luigi Fossati, che, fin dall’inizio, si schierò con gli insorti e poi accusò l’Urss di aver invaso l’Ungheria al fine di riaffermare la subordinazione al regime sovietico e ancor più per impedire che il Partito comunista locale si liberasse dalla cappa stalinista e divenisse modello di riferimento per gli altri paesi dell’Est sotto il dominio dell’Unione Sovietica. Gli articoli dell’Avanti! e la posizione compattamente forcaiola del Pci provocarono però un vistoso sommovimento in un partito che aveva sviluppato durante la Resistenza e negli anni immediatamente post-bellici una subordinazione al Pci e una sorta di analoga fascinazione nei confronti dello stalinismo e del mito dell’Urss come patria del vero socialismo. Cosicché, non fu indolore il distacco frontale e rapido che il segretario e leader storico Pietro Nenni impose all’intero partito, che in larga maggioranza lo seguì, con l’eccezione di una componente definita dei “carristi” (in quanto sostenitrice del’intervento dei carri armati sovietici) e che poi, otto anni dopo e più o meno con lo stesso personale, sarebbe uscita dal Psi per fondare il Psiup. Il passaggio decisivo di questo distacco fu la pubblicazione sull’Avanti! del 28 ottobre dello scritto di Nenni (L’insegnamento di una tragedia), di cui riporto i brani salienti:
« Gli ungheresi chiedono democrazia e libertà. Il vecchio motto che non si sta seduti sulle baionette vale anche per i carri armati. Si può schiacciare una rivolta, ma se questa, come avvenuto in Ungheria, è un fatto di popolo, le esigenze e i problemi da essa posti rimangono immutati. Il movimento operaio non aveva mai vissuto una tragedia paragonabile a quella ungherese, a quella che in forme diverse cova in tutti i paesi dell’Europa orientale, anche con i silenzi, che non sono meno angosciosi delle esplosioni della collera popolare. Quanto di meglio noi possiamo fare per i lavoratori ungheresi è aiutarli a risolvere i problemi da essi posti a base del rinnovamento della vita pubblica nel loro e negli altri paesi dell’Europa orientale, aiutarli a spezzare gli schemi della dittatura in forme autentiche di democrazia e di libertà. Daremo tutta l’opera nostra in auto del popolo ungherese perché possa attuare il socialismo nella democrazia, nella libertà e nell’indipendenza»12.
Lo scontro ideologico e politico tra Pci e Psi si approfondì e si estese a tutti i livelli anche grazie
alla pubblicazione da parte di Giulio Einaudi, editore legato alla sinistra e con un rapporto privilegiato con il Pci, delle cronache di Luigi Fossati da Budapest. Per la verità, due settimane dopo la repressione dell’insurrezione ungherese, Einaudi scrisse una lettera a Togliatti, invitandolo a prendere una forte iniziativa affinché l’Urss lasciasse sviluppare nei paesi da essa dominati una forma democratica di socialismo: «A mio avviso non perderei un minuto, e anche con sollecitudine mi recherei a Mosca, Belgrado, Varsavia e Budapest. Porterei tutto il peso della tradizione di lotta del Partito»13. E, non avendo ricevuto alcuna risposta, inviò una lettera a Nenni chiedendogli l’autorizzazione a pubblicare gli articoli di Fossati con una introduzione dello stesso Nenni: «La pubblicazione degli articoli in una Casa editrice non di partito darebbe alla tua prefazione e al resoconto dei fatti di Ungheria un significato politico, una “presa” nel Paese, su una opinione pubblica intontita e disorientata, di cui tu sei, meglio di me, in grado di valutare l’importanza in questo momento»14. Nenni non ebbe dubbi, dette l’autorizzazione e una sua prefazione, una frase della quale – «Le corrispondenze di Luigi Fossati all’Avanti! sugli avvenimenti di Budapest sono qualcosa di più di un reportage; sono la testimonianza di un socialista» – venne stampata in bella evidenza sulla copertina del libro, dandogli un avallo totale di parte socialista e facendo divenire il libro un ulteriore e potente, vista l’influenza che i libri della Einaudi avevano sull’intera sinistra italiana, elemento di scontro radicale con il Pci. Tanto più che il libro di Fossati, intitolato Qui Budapest e pubblicato nel gennaio 1957, non apparve un’operazione ideologica o faziosamente circoscritta nello scontro tra Pci e Psi, ma una testimonianza genuina che teneva davvero fede a quanto scriveva, a mo’ di dichiarazione esplicita di intenti più morali che politici, lo stesso Fossati che così spiegava il senso del suo lavoro in uno degli articoli:
«Mentre vi trasmetto le ultime note stese durante la battaglia della capitale ungherese, desidero fare una sola precisazione: in questi venti giorni pieni di orrore e di violenza, ho parlato con molti operai, con studenti di Budapest. Non ho confuso i loro volti con quelli dei provocatori di marca fascista. Questi lavoratori, questi studenti, mi hanno raccomandato di raccontare esattamente i fatti di cui ero stato testimone diretto. Ho cercato di mantenermi fedele all’impegno, nel limite delle mie forze: l’ho ritenuto, in un momento tanto doloroso, un obbligo morale»15.
La rottura che ne seguì fu completa. Il Psi si staccò definitivamente da ogni legame e sudditanza con l’Urss ma contemporaneamente si ruppero anche la forte intesa e l’attività unitaria con il Pci, avviata a partire al Patto di unità d’azione stipulato a Parigi nel 1934 e poi rinnovato nel settembre 1943 e nell’ottobre 1946, e con il frontismo negli anni del dopoguerra. Saltò anche il Patto di consultazione, che in un primo momento sembrò poter sostituire il Patto d’unità d’azione, e prevalse il rifiuto di un’alleanza organica con il Pci per conquistare il governo in Italia: obiettivo che invece il Psi raggiunse con i governi di centro-sinistra negli anni Ottanta.
NOTE
1 A.Castellani, l’Unità, 24 ottobre 1956
2 O. Vangelista, Gli avvenimenti, l’Unità, 25 ottobre 1956
3 Tomaso Smith, Editoriale, Paese Sera, 28 ottobre 1956
4 O. Vangelista, l’Unità, 2 dicembre 1956
5 Adriano Guerra, Comunismi e comunisti, Dedalo, Bari, 2005, pp.190-1
6 Palmiro Togliatti, Per difendere la civiltà e la pace, l’Unità, 6 novembre 1956
7 ibidem
8 Il 26 luglio 1956, l’Egitto di Nasser nazionalizza il Canale di Suez che per il 44% era di proprietà di imprese e banche britanniche. Dopo lunghe e infruttuose trattative, il 29 ottobre Israele, Francia e Regno Unito intervengo militarmente, Israele avanzando con le truppe nel Sinai e Regno Unito e Francia inviando navi e aerei per combattere nel Canale e sulle due coste, bombardando vaste zone dell’Egitto. Il 31 ottobre gli egiziani affondano nel Canale 40 navi in modo da bloccare il transito. L’Urss minaccia di entrare in guerra contro le nazioni che hanno aggredito l’Egitto; intervengono anche gli Stati Uniti chiedendo l’immediata cessazione delle ostilità e il ritiro delle truppe dei tre paesi. Il 7 novembre è dichiarato da tutte le parti belligeranti il “cessate il fuoco”, a cui segue l’intervento di reparti militari dell’ONU per garantire la cessazione definitiva delle ostilità. Il completo ritiro delle truppe occupanti avviene però solo nel marzo 1957.
9 Atti e risoluzioni dell’VIII Congresso del Pci, Editori Riuniti, Roma, 1957
10 Marco Lombardo Radice, in Nuovi Argomenti n.25, marzo-aprile 1957
11 Emilio Carnevali, I fatti di Ungheria e il dissenso degli intellettuali di sinistra. Storia del Manifesto dei 101, Micromega n.9, 2006)
12 Pietro Nenni, L’insegnamento di una tragedia, Avanti!, 28 ottobre 1956
13 Archivio Istituto Gramsci, Roma
14 Archivio della casa editrice Einaudi, incartamento Nenni, lettera 20 novembre 1956
15 Luigi Fossati, Qui Budapest, Einaudi, Torino, 1957, pag.11.