Sono dovuti trascorrere più di 30 anni prima che sulla scena mondiale – e con particolare rilievo su quella italiana – ricomparisse, dopo il 1968, un grande movimento dotato di una radicale contestazione dell’esistente e, a mio giudizio, anche di una visione generale del mondo decisamente più matura, complessa ed “esperta” di quella diffusa nei movimenti sessantottini, prefigurante una alternativa di sistema (“l’altro mondo possibile e necessario”) assai più realistica e credibile rispetto al tentativo delle principali forze politiche prodotte dal ’68 di riciclare il comunismo novecentesco, malgrado la tragica parabola del “socialismo reale”. Il movimento che esplose nel luglio 2001 a Genova contro il G8 (“Voi G8, noi 6.000.000.000”, era lo striscione di apertura del corteo dei Trecentomila del 21 luglio) aveva alle spalle lo spettacolare successo del primo Forum sociale mondiale di Porto Alegre a gennaio, con i suoi 70 mila partecipanti ufficiali (ma furono ben di più le presenze effettive) che segnò la nascita ufficiale (anche se i prodromi si erano già visti un anno prima a Seattle contro il WTO) di una grande coalizione contro la globalizzazione liberista che, nella vulgata giornalistica, venne etichettata movimento no-global (solo più tardi si prese ad usare anche il termine altermondialista), malgrado il “no-global” facesse pensare a chiusure nazionaliste, mentre il movimento aveva un fortissimo spirito (e un’organizzazione, mediante i Forum mondiali e continentali) internazionalista e rifiutava una particolare forma di globalizzazione, quella dominata da un liberismo brutale e aggressivo.

Come per tutti i movimenti di grande diffusione e spessore, è sempre difficile individuarne una genesi precisa, agendo quasi sempre (così come nel ’68 o, per restare all’Italia, nel ’77) varie concause, nei cui confronti resta comunque difficile stabilire gerarchie di peso e decisività. Però, volendo proprio stabilire una primazia, direi che l’impulso più potente a livello mondiale per l’avvio del movimento può essere derivato dal salto di quantità e di qualità nel processo di mercificazione globale indotto da un capitalismo che, nello sforzo planetario di mettere in campo nuove merci e di accaparrarsi ulteriori fonti energetiche o sfruttare fino all’osso le esistenti, stava trascinando, in un processo senza precedenti di mercificazione planetaria, anche settori e territori fino a poco prima estranei al conflitto Capitale-Lavoro e al dominio del profitto privato, cercando di inglobare nel mondo-merce i servizi pubblici, l’istruzione, la sanità, i trasporti, le pensioni; e nel contempo, la natura intera, il cibo, l’acqua, la vegetazione, le sementi e qualsiasi potenziale fonte energetica. Questa sorta di epocale uragano sociale e politico ha provocato l’ingresso nel processo di opposizione al capitalismo, nella sua forma liberista più radicale, anche ceti, strutture sociali ed individui che, pur non riconducibili alle classiche figure marxiane degli sfruttati e della forza-lavoro salariata, si sono trovati di punto in bianco nel vortice onnivoro della mercificazione, dai milioni di contadini all’improvviso spossessati pure del diritto d’uso delle sementi o con i campi invasi da colture Ogm, a intere popolazioni derubate dell’acqua, divenuta da massimo bene pubblico una fonte di profitto per voraci multinazionali, fino ai dipendenti e agli utenti dei beni e servizi pubblici, impauriti dal tentativo, in Occidente, di trasformare persino l’istruzione e la sanità in fonti di profitto. Però, ha pesato molto anche il dilagare, ancor più dopo gli attentati alle Twin Tower, della guerra permanente e globale, che ha spinto dentro la protesta altermondialista intere popolazioni (il punto più alto del movimento fu la protesta mondiale del 15 febbraio 2003 – senza precedenti per quantità nella storia umana – quando, su impulso del movimento italiano, scesero in piazza quasi 100 milioni di persone per fermare l’invasione dell’Iraq: e il New York Times definì, certo esagerando, il movimento altermondialista “la seconda potenza mondiale”); nonché l’intera gamma dei conflitti ambientali, divenuti da allora tema cruciale anche per la controparte; e poi i conflitti di genere, riacutizzati dal peggioramento delle condizioni delle donne nei paesi più schiacciati dalla globalizzazione liberista; e i conflitti del lavoro salariato, precarizzato come mai prima nel mondo occidentale, nonché l’attacco alla sovranità alimentare, all’acqua Bene comune e la spoliazione di centinaia di milioni di contadini.

Ma di fronte a questo arcobaleno di conflitti, ciò che ha reso quel movimento, almeno a livello italiano, superiore ad esempio a quello del ’68, è stata in primo luogo la grande conoscenza della società, dell’economia e della produzione dimostrata dal movimento (il ’68 ignorava la gran parte del sapere scientifico e tecnico padroneggiato dall’altermondialismo); e in seconda battuta, le modalità senza precedenti della gestione e della vita interna del movimento, quelle regole del gioco che permisero i successi e la durata di una coalizione così vasta e complessa. Negli anni precedenti, come COBAS avevamo tentato a più riprese di avviare e rafforzare alleanze che superassero il vizio storico di dare la massima centralità al proprio conflitto e al proprio tema identitario, con la conseguente incapacità di coalizzarsi in par condicio, senza cioè imporre gerarchie o reductio ad unum da partiti-guida paraleninisti: ma sempre con scarso successo, e con la conseguente breve durata delle coalizioni. Finalmente nel movimento no-global si affermava l’idea che, nello scontro con un capitalismo dalle mille facce, fosse sbagliato e impraticabile imporre un tema e un conflitto come quello dominante e capace di inglobare tutti gli altri, si trattasse del conflitto Capitale-Lavoro come di quello di genere, o tra migranti e stanziali o tra paesi imperialisti e paesi dominati: ma che invece, come in un caleidoscopio, tutte le facce conflittuali debbano convivere ed armonizzarsi, a partire dalle strutture più impegnate in esse, tra le quali, dunque, non può darsi né la fusione in un unico soggetto né una classificazione gerarchica per importanza tematica.

Conseguentemente, l’altermondialismo, almeno dal 2001 al 2004, è riuscito a dare spazio ad ogni tema rilevante e ad ogni componente di esso, introducendo anche il principio appreso nei Forum mondiali e continentali delle decisioni prese non a maggioranza semplice ma con larghissimo consenso, al limite dell’unanimità, mettendo in conto anche iniziative differenziate in caso di dissensi significativi, per riprendere poi la strada comune passato il contrasto. In questo percorso, Genova 2001 non è stato il punto più alto: e in tal senso si sono dimostrati o ben ciechi o in malafede i commentatori che, in articoli o libri, hanno teorizzato un presunto fallimento no-global dopo l’uccisione di Carlo Giuliani e le violenze subite nelle due giornate cruciali dell’anti-G8. In realtà i punti più alti del movimento italiano (mentre i Forum mondiali hanno inciso in profondo ben più a lungo, almeno fino ai Forum di Tunisi del 2013 e 2015 e alle Primavere arabe) li abbiamo avuti con il Forum Europeo (il primo) a Firenze nel novembre 2002, con almeno 500 mila persone coinvolte, e ancor più nella già citata giornata mondiale del 15 febbraio 2003 per impedire l’invasione dell’Iraq.

Purtroppo, la parabola discendente e poi la disgregazione del movimento arrivarono in coincidenza con il ritorno al suo interno, e nei dintorni ravvicinati, della politica istituzionale, manifestatasi con la scelta di tante forze dell’altermondialismo di convergere in un impossibile progetto, poi dimostratosi massimamente distruttivo, di giungere al governo con il centrosinistra utilizzando i successi e la forza del movimento. Ancora una volta si dimostrò l’incapacità dei movimenti italiani, a differenza ad esempio di quello che è successo poi in America Latina, di trovare una via di uscita dalla storica contrapposizione movimenti-istituzioni: problema per noi tuttora aperto e sul quale le iniziative imminenti per il Ventennale dell’anti-G8 genovese potrebbero contribuire ad una ulteriore e più approfondita discussione, che affronti i punti alti del movimento di allora ma anche insegnamenti e indicazioni per l’oggi e per l’immediato domani. In tal senso, la Società della Cura, coalizione della quale anche i COBAS fanno parte e che include buona parte dei/delle protagonisti/e di Genova 2001,sta animando una Rete più ampia (con lo slogan Voi la malattia, noi la cura) che, tramite un’Assemblea nazionale e una internazionale tra il 19 e il 21 luglio, cercherà di riflettere sul passato con il preciso intento di agire nel presente e provare a ri-avviare un processo ricompositivo di una ampia alleanza anticapitalistica e conflittuale da mettere in campo fin dall’autunno prossimo, provando anche (come già sperimentato con il programma prefigurante Recovery Planet da parte della Società della Cura) a delineare un futuro alternativo a quello che altrimenti ci si prepara da parte di tutti quei poteri che vorrebbero uscire dalla pandemia virale, e dai disastri economici collegati, riproponendo pari pari il vecchio e sempre meno tollerabile mondo di ieri.