Dal 6 al 10 novembre 2002 si svolse a Firenze il primo Forum Sociale Europeo (FSE) del movimento altermondialista/noglobal. Fu deciso a Porto Alegre durante il secondo Forum sociale mondiale (FSM) del gennaio 2002, grazie al lavoro della delegazione italiana (in particolare dei COBAS e della componente noglobal dell’ARCI), ma anche favorito dalla “fascinazione” che la grande mobilitazione del luglio 2001 a Genova contro il G8 aveva esercitato sul Consiglio Internazionale del FSM, che lo sottrasse alla Francia che ne sembrava la naturale destinataria, a causa della forte presenza nel CI-FSM. Il FSE a Firenze ebbe un successo enorme, con molte decine di migliaia di partecipanti ai lavori e almeno mezzo milione di manifestanti nel corteo finale. Meno noto è quello che fu il frutto più esaltante – oltre al rilancio del movimento altermondialista dopo le sanguinose conclusioni dell’anti-G8 di Genova e gli effetti nefasti dell’abbattimento delle Torri gemelle – e cioè il lancio di una giornata europea di mobilitazione per impedire l’invasione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti e dei suoi alleati. La proposta venne presentata nell’Assemblea finale di Firenze il 10 novembre dai COBAS (nella persona del sottoscritto) che avevano avuto, insieme al Movimento Antagonista Toscano e all’ARCI “noglobal”, un ruolo di primo piano nel FSE, dall’ideazione di esso alla conduzione, fino alle conclusioni davvero straordinarie. Nella mozione che presentai, scrivevo:
“Chiediamo alla Cgil e alla CES- Confederazione Europea dei sindacati di impegnarsi a proclamare uno sciopero generale europeo di tutti i lavoratori, con manifestazioni nazionali in tutti i paesi d’Europa. Crediamo che, dopo la grandiosa manifestazione di ieri, ci siano tutte le condizioni per portare in piazza, in una data che proponiamo sia il 15 febbraio, decine di milioni di persone in tutta Europa, molti di più di quanti manifestarono a suo tempo contro la guerra in Vietnam, quando i blocchi contrapposti limitarono la partecipazione di coloro che temevano una loro collocazione filo-sovietica” (cfr. Corriere della sera, Giornale, Repubblica, l’Unità e altri del 10 novembre 2002, e Il Manifesto e Liberazione del 12 novembre).
Condivisa da tutte le componenti italiane ed europee, la proposta fece poi un salto di qualità planetario a gennaio, durante il terzo FSM a Porto Alegre. Come COBAS e come delegazione italiana, soprattutto, riuscimmo a coinvolgere nell’obiettivo le organizzazioni statunitensi, decisive in una mobilitazione che intendeva fermare la macchina bellica USA, ma anche le delegazioni indiane, asiatiche e latinoamericane, seppur con sensibilità diverse per collocazioni geopolitiche. Cosicché, mentre i venti di guerra crescevano, il tam tam dell’appuntamento si estese a livello planetario. E il 15 febbraio successe quanto neanche nelle nostre più ottimistiche previsioni potevano sperare: le manifestazioni si svolsero nei tre quarti delle nazioni del mondo e in molte centinaia di città (in particolare negli USA riguardarono decine di città), con le punte più alte di partecipazione a Roma (tre milioni, disse la stampa: cifra “gonfiata”, ma di sicuro almeno un milione di persone marciò per cinque ore, non riuscendo in buona parte neanche a entrare in P. S. Giovanni per i comizi finali) e Londra (centinaia di migliaia in piazza), coinvolgendo addirittura (conteggi dei maggiori mass-media mondiali) un centinaio di milioni di persone, mettendo in campo la più grande mobilitazione della storia dell’umanità. E il New York Times, certo esagerando, scrisse che il movimento altermondialista aveva dimostrato di essere “la seconda potenza mondiale”, mandando un forte monito alla prima, l’imperialismo statunitense, e alla sua macchina bellica.
Ma la guerra esplose ugualmente
Macchina che però non spense i motori: pochi giorni dopo, l’invasione dell’Iraq si realizzò ugualmente. Il che provocò indubbiamente un’ondata di frustrazione planetaria – visto che non era bastata neanche la più grande mobilitazione della storia per fermare la guerra – e un progressivo riflusso del movimento. Va però detto che, di contro ai luoghi comuni poi dominanti, non è vero che il riflusso del movimento fu dovuto solo a tale frustrazione; e neanche il fatto che esso fu ininfluente sulle sorti della guerra. In primo luogo, forti divisioni si manifestarono in particolare nei paesi che avevano trainato la mobilitazione (l’Italia innanzitutto, ma anche l’Inghilterra, la Francia e gli Stati Uniti), a causa di una frattura tra chi riteneva inutile ogni resistenza contro gli occupanti e auspicava una “democratizzazione dell’invasione”, sostituendo Saddam Hussein con un governo “civile”; e chi invece sosteneva il diritto di resistere e opporsi anche con le armi all’invasione, pur sapendo quali forze reazionarie, e lontane da qualsivoglia idea di democrazia, si candidavano a guidare tale resistenza armata. E non è neanche vero che quella mobilitazione non ebbe un’influenza importante sul prosieguo degli avvenimenti. In realtà essa provocò nei paesi partecipanti all’invasione una diffusa ostilità alla presenza in guerra, oltre ad impedirla in altri, e via via la ridusse di fatto o la annullò, creando in particolare negli USA una sindrome “vietnamita” che indebolì la convinzione e la partecipazione dei belligeranti: e nel contempo, aiutò l’emersione in Iraq di una società civile organizzata che, seppur tra mille difficoltà, dette vita ad una resistenza pacifica, non meno efficace nel frustrare il tentativo USA di mantenere sotto il proprio dominio il paese.
Di tutto questo parleremo il 15 febbraio in un’iniziativa internazionale a Roma (ore 16.30, Chiesa evangelica, V. XX Settembre) con la presenza fisica o in video, dai 5 continenti, di buona parte dei principali protagonisti di quella giornata memorabile e di quel movimento contro la guerra. Ma ovviamente non si tratterà solo di una circoscritta riflessione sul passato, visto che il 24 febbraio sarà passato un anno dall’invasione russa dell’Ucraina, dall’inizio di un’aggressione bellica persino più distruttiva di quella USA in Iraq. Verrà naturale un raffronto tra l’incredibile mobilitazione di allora e la odierna, assai ridotta, opposizione di piazza, in Italia e nel mondo, malgrado i rischi di una guerra mondiale ancor più catastrofica dell’attuale “terza guerra mondiale a pezzi”, siano nettamente superiori oggi che allora.
Terza guerra mondiale “a pezzi” o globale?
La situazione odierna assomiglia assai più al periodo che precedette la Prima guerra mondiale che al clima che anticipò la Seconda. Se per quest’ultima tutti gli storici sono d’accordo su cause e responsabilità (il nazifascismo trionfante e desideroso di affermare la propria egemonia mondiale), oggi, come nel 1914, si stanno accumulando varie concause di possibile deflagrazione planetaria che non si concentrano su un solo focus bellico e sui soli “attori” russi e ucraini. Le tensioni e le possibilità di conflitto nell’area asiatica ed estremo-orientali sono altrettanto esplosive. E anzi, fino ad un anno fa e all’inattesa invasione russa dell’Ucraina, una valutazione geopolitica quasi unanime vedeva il focolaio principale di possibile scontro mondiale tra potenze nel conflitto tra Cina e Taiwan, con l’ingresso nello scontro di USA e Giappone e la conseguente riemersione del bellicismo tra le due Coree. In aggiunta, oltre alle endemiche guerre africane, è esplosivo l’espansionismo turco con l’aggressione alle comunità curde, l’incendiaria situazione intorno alla Siria e alla dittatura iraniana, in difficoltà per una insurrezione popolare senza precedenti e con il contenzioso militare sempre aperto con gli USA e Israele, i conflitti tra Emirati arabi e con l’Arabia Saudita.
Insomma, un vero trionfo del bellicismo e della voglia di regolare i conti su molti scacchieri con le armi, che, se non permanesse, al di là delle minacce russe, la deterrenza nucleare, probabilmente avrebbe già portato ad una deflagrazione universale, con vari fronti bellici intercomunicanti. E’ forse questo ingigantimento della complessità della situazione planetaria che diffonde tra le aree no-war una sensazione di impotenza, ingigantita anche dalla difficoltà di individuare i “cattivi” (cosa facile nel 2003, in particolare ove, come in Italia, l’antimperialismo e l’ostilità alla guerra hanno funzionato solo quando avevano come avversario gli Stati Uniti, entrando in crisi quando a condurre le guerre erano l’URSS o la Russia), essendosi estesa di molto la presenza di “cattivi” e ridotta assai quella dei “buoni” nel panorama mondiale. Mentre è plausibile che, al di là delle aree militanti, nella più ampia popolazione questi due decenni di guerra permanente abbiano prodotto assuefazione e una lettura delle guerre come evento tragico ma confinato nelle immagini televisive, senza veri pericoli di coinvolgimento fisico (come invece accadde in Italia per la guerra in Jugoslavia e per quelle in Afghanistan e Iraq a causa della presenza diretta di militari italiani), concentrando l’attenzione piuttosto sui danni economici provocati dal conflitto più dirompente, tra Russia e Ucraina.
Dunque, di questo discuteremo il 15 febbraio a Roma, attualizzando l’analisi di quanto accadde nel 2003 al percorso del movimento no-war fino ad oggi, cercando di trarne spunti per potenziare la risposta al bellicismo dilagante, al crescere della voglia di guerreggiare, offrendo un panorama di osservazione globale e non unicamente sulla guerra russo-ucraina, certo al momento la più sanguinosa e tragica soprattutto per il popolo ucraino, ma anche per quello russo, che deve via via prendere coscienza dell’ecatombe che colpisce anche i propri connazionali, mandati al massacro dalle mire neo-imperiali putiniane in una guerra feroce, ma presentata inizialmente come operazione militare facile e di breve durata di “riconquista” di presunti propri territori.
Piero Bernocchi