Come COBAS siamo stati facili profeti nel pronosticare il travolgente successo elettorale e poi quelli che sarebbero stati i punti forti del primo governo del dopoguerra di stampo politico e ideologico fascistoide, oltre che il primo guidato da una donna. Prevedemmo che Meloni avrebbe disinnescato le “mine” politiche che ostacolavano il suo percorso di potere: che, ad esempio, ieri contro l’UE e per l’uscita dall’euro, si sarebbe trasformata in convinta europeista; che da nemica del Patto di stabilità, lo avrebbe assorbito come il PNRR, fino a opporsi persino allo scostamento di bilancio, in perfetta continuità con Draghi; che dopo aver esibito l’amicizia reciproca con Putin, si sarebbe schierata a fianco della resistenza ucraina e per l’invio delle armi, in completa sintonia con la Nato.
Tutto questo è accaduto, ed anche di più: Meloni e FdI hanno abbracciato la causa padronale con fervore, intervenendo per la privatizzazione, pur ex-statalisti, in casi come Ita Airways, Telecom Italia, Ilva di Taranto e Gkn,, e accettando (in cambio del presidenzialismo) la frantumazione regionalistica dell’Autonomia Differenziata, o sfidando settori sociali a loro legati come i tassisti, i “balneari” e i benzinai. Ma, malgrado le camaleontiche svolte a 180 gradi, hanno conservato un ampio consenso accarezzando – come previsto – le pulsioni reazionarie e fascistoidi della tradizione italica. Pronosticammo che il trasformismo non avrebbe riguardato il nucleo del pensiero di un partito post-fascista che del fascismo ha ereditato qualcosa di profondo, che lega Meloni agli Orban, alle Le Pen, a Vox, ai trumpiani e all’ultradestra europea, e che poi è il lascito più longevo della fiamma mussoliniana e del MSI, offerto ad un paese permeato della cultura reazionaria novecentesca. Scrivevamo:” Il filone è quello del culto della stirpe, del “sangue”, della nazione intesa come insieme di razza, etnia, religione unica, cultura omogenea. Nel rivendicare il valore della tradizione e di un passato mitizzato come nell’era mussoliniana, Meloni indica il nemico nella “modernità”, nella globalizzazione, nel multiculturalismo, nella mescolanza di culture, etnie, religioni: nemici a cui dichiarare guerra perché contaminano la “stirpe”, la sua identità profonda”. FdI chiama alle armi contro il “nuovo”, visto come un elemento distruttivo della propria tradizione, fatta “di orgoglio nazionale, radici, storia e identità“, elementi indispensabili per contrastare “la decadenza dei costumi e degli stili di vita, il laicismo e l’individualismo dominanti”.
Di conseguenza, ci attendevamo una forte regressione sul piano dei diritti civili e delle donne, un peggioramento dell’accoglienza dei migranti, la cancellazione delle speranze nel “diritto di suolo e di scolarità”; forti tentativi di impadronirsi della scuola e delle sue funzioni educative e culturali; ostilità aperta alle comunità LGBT; giri di vite contro i diritti delle persone in carcere e contro le manifestazioni di piazza conflittuali; recrudescenza delle ossessioni securitarie e delle norme giuridiche contro le opposizioni “radicali” e le lotte ambientaliste; mantenimento della centralità del “fossile”; tentativi di modifiche costituzionali, a partire dal presidenzialismo. E tutto questo è puntualmente accaduto, compensando le delusioni della base meloniana per le giravolte sull’Europa, sull’euro, sul PNRR, sulla guerra, sulle armi, e dimostrando che, almeno nel breve periodo, perdite pur significative sul piano economico-sociale possono essere lenite dall’esaltazione di una cultura, un’ideologia e una visione del mondo. Quella visione del mondo che ha fatto aprire il fuoco a Meloni sui migranti, sulle ONG (con la crudeltà della destinazione nei porti più remoti), sugli ambientalisti che si oppongono ai rigassificatori (persino laddove c’è un sindaco di FdI come a Piombino), sui rave, sulle comunità LGBT, sulle manifestazioni di piazza, sugli anarchici, su Cospito, pur ad un passo da una morte atroce, sui “garantisti” che inorridiscono per la ferocia del 41 bis nella sua applicazione pratica. Tutto questo è servito, almeno per ora, a mantenere alto il consenso a Meloni, malgrado le incredibili uscite del suo “cerchio magico” e l’ostilità crescente di Forza Italia e Lega. E la riprova di tale consenso la si vede nella fragilità delle proteste popolari di questi mesi. Non che esse siano assenti del tutto: una reazione c’è stata sia nella difesa del territorio sia nelle proteste per la barbarie del 41 bis, ma tutto fino ad ora frammentato, senza un filo conduttore, mentre in Francia in milioni scioperano a ripetizione contro l’ennesimo progetto di portare il pensionamento a 64 anni, mentre noi subiamo da anni quello a 67 ed ultra senza batter ciglio. Passività e acquiescenza, speriamo a termine, malgrado il taglio del reddito di cittadinanza, le bollette insostenibili, l’aumento di benzina e gasolio con l’inaccettabile scelta governativa di non prorogare il taglio delle accise; mentre i beni alimentari aumentano ben oltre un’inflazione che falcidia i salari, e altrettanto pesa la crescita per mutui casa e affitti, per effetto dei tassi variabili. Al di là dell’importante mobilitazione contro il rigassificatore di Piombino (manifestazione nazionale per l’11 marzo), scarsa per ora è pure la reazione al “negazionismo” governativo sulla crisi climatica e sul superamento del “fossile”, alla convinzione meloniana che il riscaldamento sia “un falso problema”.
Altrettanto difficile è la situazione nel settore che più coinvolge e interessa gran parte dei lettori/trici di questa rivista: la scuola. A differenza dei partiti di centrosinistra, che hanno nell’ultimo ventennio collocato al Ministero Istruzione personaggi così di secondo piano da farsi dimenticare rapidamente (Fioroni, Carrozza, Profumo, Bussetti, Fedeli, Azzolina, Fioramonti, Bianchi? Chi furono costoro?), FdI, memore del rilievo che la DC dette sempre alla scuola, ha investito sul “possesso” dell’Istruzione, piazzandoci l’unico loro politico “impratichitosi” di scuola e ideologicamente in sintonia con la cultura del MSI almirantiano. Meloni è consapevole, come a suo tempo la DC, della centralità del luogo dove si formano le nuove generazioni: e tale consapevolezza Valditara l’ha dimostrata subito, con iniziative apparentemente estemporanee, e impopolari “a sinistra” ma non tra la maggioranza dei docenti che, stando ai sondaggi, al 30% circa avrebbero votato Meloni a settembre.
L’introduzione del merito nel “logo” del Ministero, l’assurda trovata dell’umiliazione degli studenti come elemento di formazione, altrimenti attratti dai più “comodi divani”, fino all’idea provocatoria della differenziazione salariale tra Nord e Sud, la volontà di incentivare quella Alternanza scuola-lavoro (PCTO) sono in definitiva passate senza scossoni nella scuola, e forse apprezzate da un numero considerevole di cittadini/genitori. Anche il provvedimento più distruttivo per la scuola, quell’Autonomia Differenziata che disgregherebbe l’istruzione nazionale, immiserendola ulteriormente in numerosi territori, ha finora provocato proteste solo tra settori ristretti della categoria. Nè ha sconvolto la volontà di gerarchizzazione dei docenti, con la riesumazione del “tutor” e gli aumenti per presunto “merito”; o il continuo “ri-dimensionamento” degli istituti, che prosegue il taglio sistematico di classi e scuole, malgrado il calo demografico avvicinerebbe l’obiettivo “storico” dei 20 alunni per classe; o gli allucinanti e infiniti percorsi di stabilizzazione dei precari. E neanche un rinnovo contrattuale con aumenti miseri, malgrado una perdita di potere d’acquisto almeno del 20% negli ultimi anni, ha agitato il grosso dei docenti. Mentre si è dimostrato negli ultimi scioperi che sono gli ATA a manifestare ben maggiore insoddisfazione, con percentuali di scioperanti più che doppi a livello nazionale rispetto ai docenti, e persino tripli in varie province.
Che fare, dunque, nei conflitti interni ed esterni alla scuola, per quanto sopiti e anestetizzati essi oggi appaiano? Innanzitutto, assumere la giusta postura politica e ideologica: e cioè non sopravvalutare le il diffuso “torpore” soggettivo e non sottovalutare le profonde e durature ragioni di crisi oggettiva della gestione dell’esistente. Tali ragioni hanno carattere epocale, profondo, trasversale: e anche chi ritiene di non subirne le conseguenze, sarà portato dalla realtà a doverne prendere atto. Esempi. Come segnaliamo in un paio di articoli di questo numero, il clima bellico e “militarizzante” non è circoscritto (e già basterebbe) alla guerra in Ucraina ma attraversa e contagia pressoché tutti i continenti, ed ha conseguenze dirompenti che investono anche chi non è coinvolto direttamente in una guerra. La crisi energetica e ambientale non riguarda solo territori ad alto rischio di sconvolgimento biologico, ma muta la vita anche di chi non subisce per ora i danni di uno sviluppo incontrollato e di un uso rapace di natura e esseri viventi. Questioni più specifiche, come la disgregazione della struttura nazionale di scuola, sanità, beni comuni, indotta dall’AD, oltrepassano gli interessi immediati degli addetti ai lavori (docenti o ATA, infermieri o medici), incidendo sulla vita di decine di milioni di persone in varie zone del Paese. La strisciante cancellazione del reddito di cittadinanza colpisce le condizioni materiali di chi ne usufruisce: ma toglie anche un’arma di difesa a milioni di giovani costretti ad accettare paghe di fame pur di lavorare, subendo una frustrazione continua, seppur potenzialmente fonte di rivolta.
Insomma, le ragioni di crisi e le possibili cause di conflitti, ribellioni e spinte al cambiamento non sono transitorie né legate, per l’Italia, alla furbizia di una Meloni (e di un personale politico non solo reazionario, ma pure intellettualmente di terz’ordine) che, incapace di migliorare la situazione economica e sociale, vuole anestetizzare le “masse” con contentini ideologici e culturali: e, nel contempo, sono elementi trasversali che toccano la gran parte della popolazione senza proprietà e senza potere. Dunque, sarebbe un errore la contrapposizione tra conflitti di categoria e di settore, e conflitti traversali, generali. Non solo entrambi questi livelli vanno vissuti e favoriti, ma l’intersezione tra i due li potenzia entrambi, e limita la spinta autocentrata delle soggettività in conflitto: basti pensare all’esperienza che più ci è prossima, quella del sindacalismo di base, che ha dato il meglio di sé quando si è immerso in conflitti più ampi e in alleanze oltre il solo mondo del lavoro dipendente “stabile”. E invece, come nella negativa esperienza dello sciopero del 2 dicembre e della manifestazione del giorno dopo, più il sindacalismo conflittuale si rinchiude nel proprio mondo e più l’autoreferenzialità si ingigantisce, con le conseguenti baruffe inter-gruppi e la sterile ricerca di un’effimera egemonia su un mondo sempre più ristretto. Insomma, non si tratta di fare appello al tradizionale ottimismo della volontà, contrapponendolo al pessimismo della ragione, ma di vedere quanto ottimismo si può investire, usando la ragione, sulle possibilità di diffusa ribellione all’esistente, mettendo in moto processi di cambiamento che non la sola volontà (comunque indispensabile) ma la raziocinante analisi della realtà ci dicono indispensabili.
Piero Bernocchi portavoce nazionale Confederazione COBAS
(editoriale della rivista COBAS n.15)