Editoriale rivista COBAS n.18/’24
Tre anni dopo la caduta del Muro di Berlino e il conseguente tracollo dell’impero sovietico e del “socialismo reale“ in Europa, Francis Fukuyama, politologo statunitense, raggiunse una immeritata fama mondiale con il suo libro “La fine della storia e l’ultimo uomo”. In esso, Fukuyama sosteneva che la vittoria del capitalismo sul socialismo/comunismo e delle democrazie liberali sui regimi dittatoriali, nonché la diffusione universale dello stile di vita e della cultura ”occidentale”, segnavano il punto di arrivo dell’evoluzione sociale e politica dell’umanità, delineando una struttura definitiva di governo del mondo, e con essa anche la fine della storia delle comunità umane, così come conosciuta nei secoli passati, e provocando una permanente pacificazione universale.. La tesi era surreale di per sé, ma Fukuyama e i suoi seguaci ed estimatori dovettero attendere una decina di anni per vedere demolita la propria tesi da fatti “storici” più che mai “vivi”: a settembre 2001, gli attentati islamisti contro le Twin Towers avviavano un ciclo di micidiali conflitti planetari che dall’Afghanistan all‘Iraq ci fecero dire, con la mobilitazione mondiale del movimento “noglobal”, che eravamo entrati nella guerra permanente e globale.
Eppure, persino quegli sconvolgimenti oggi quasi scoloriscono rispetto a quello che il mondo, quello “occidentale” in particolare, ha subito nell’ultimo quindicennio. Prima un triennio (2008-2011) di crisi economica globale, seconda solo alla Grande Depressione del 1929, che ha impoverito centinaia di milioni di persone; poi, un altro triennio devastante, con la più grande pandemia degli ultimi secoli (dopo la “spagnola” del 1918-1920), con milioni di morti e una crisi sociale che ha sconvolto e diviso strutture consolidate, dalle famiglie alle organizzazioni sindacali e politiche, logorando rapporti e relazioni in maniera imprevedibile. E quando sembrava che fosse “passata ‘a nuttata”, e la vita, almeno nel mondo “occidentale”, riprendesse un corso regolare, esplodeva una guerra feroce nel cuore dell’Europa, con l’aggressione del neo-zarismo russo all’Ucraina, che – sottovalutando la determinazione del nazionalismo ucraino e l’ingresso in campo a suo sostegno degli Stati Uniti, della Nato e della UE -, commentatori politici e buona parte della “compagneria” italica, valutarono di breve durata (invitando gli ucraini ad “arrendersi” per limitare i danni) e di cui invece ancor oggi non si vede una prevedibile fine. Infine, come se questo elenco di sciagure non fosse già sufficiente ad oscurare le prospettive di una accettabile vita sociale per tanta parte dell’umanità, con modalità altrettanto imprevedibili ri-esplodeva, a livelli inauditi, il conflitto Israele-Palestina.
Scrive in questo numero Giovanni Bruno in “La negazione del popolo palestinese”, condannando la pulizia etnica sionista, il fondamentalismo pan-islamico e il nazionalismo pan-arabo, alleati di fatto contro i diritti dei palestinesi e concause della esplosione di ferocia bellica: “Al durissimo atto terroristico organizzato il 7 ottobre da Hamas – in parte eterodiretto per sabotare gli Accordi di Abramo tra le petro-monarchie arabe e Israele – con il massacro di civili (donne bambini anziani), gli stupri di massa e la cattura di ostaggi, Israele ha risposto con una campagna di sterminio contro Hamas, colpendo indiscriminatamente e senza pietà la popolazione civile di Gaza “rea” di aver (volontariamente o inconsapevolmente) coperto le sedi di Hamas, nascosto i depositi militari negli edifici civili (ospedali, scuole) e appoggiato il lancio di razzi contro gli insediamenti (illegittimi, secondo il diritto internazionale) dei coloni. I risultati di questi 110 giorni di guerra sono di circa 25mila morti, di cui oltre 11mila bambini, e un milione di profughi nel campo di Rafah”.
Possiamo a buona ragione dire che anche i popoli “occidentali”, che non subiscono direttamente la ferocia bellica, sono oramai costretti a vivere in una sorta di terremoto permanente che segna inesorabilmente la vita sociale nei nostri paesi e che deforma i rapporti di potere tra le classi e i ceti e la stessa conflittualità economica e politica. La metafora del terremoto prende tanto più corpo in ragione della impotenza di fronte alle barbarie in atto, constatando che, a differenza che durante la guerra in Vietnam e, in tempi più vicini, in Afghanistan e Iraq – quando le mobilitazioni di decine di milioni di persone influenzarono tempi e modi bellici – oggi l’incidenza dei pur generosi tentativi di protesta contro la guerra appare minima, non solo per la drastica riduzione numerica dei manifestanti ma anche per l’impermeabilità alle proteste da parte dei belligeranti. (Per non parlare delle guerre ignorate dai media ma altrettanto feroci, come quella in corso nel Darfur sudanese, dove la maggioranza arabo/islamista massacra decine di migliaia di persone della minoranza etnicamente africana, ammazzando i neri in quanto neri e violentando in massa le donne nere per avere,come dichiarato, “centinaia di migliaia di neonati meno neri”).
Cosicché, obbligati/e a convivere con tale terremoto, diventa più difficile portare l’attenzione sul peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro di tanta parte della nostra popolazione, e difendere i diritti e il reddito dei lavoratori/trici, nonché le strutture pubbliche cruciali come la Scuola, la Sanità, i Trasporti e le Comunicazioni, malgrado ce ne siano tutte le necessità, a partire dal nostro storico insediamento sociale e sindacale, la Scuola, ove si stanno assommando provvedimenti esiziali per l’istruzione pubblica e deleteri per docenti, ATA e studenti. A partire dal provvedimento più distruttivo, quell’Autonomia differenziata approvata nei giorni scorsi al Senato, che porterebbe alla frantumazione del sistema nazionale di istruzione (così come del sistema sanitario), aggredendo l’uguaglianza dei diritti e la libertà di insegnamento, e subordinerebbe la scuola alle scelte politiche ed economiche localistiche, visto che tutte le materie, ora di competenza statale, passerebbero alle Regioni, con il trasferimento ad esse delle risorse umane e finanziarie, e con progetti dipendenti dalle esigenze produttive locali. E proseguendo con l’invenzione gerarchizzante del tutor orientatore degli studenti e con il demenziale “dimensionamento”, che, invece di approfittare del calo demografico per ridurre il numero di alunni/e per classe e aumentare la presenza della scuola nel territorio, fa il contrario, insistendo nell’accorpare scuole in mega-istituti, impossibili da gestire; e poi l’ulteriore aumento dei finanziamenti per le scuole paritarie, mentre diminuisce la spesa per le pubbliche; e in aggiunta, il grottesco progetto “autarchico” del Liceo del Made in Italy e un contratto che immiserisce ulteriormente docenti ed ATA, mentre a questi ultimi tocca pure un aumento dei carichi di lavoro e della precarietà; e ancora, la volontà di ridurre gli anni di scolarità per i Tecnici e Professionali e un Concorso precari che, come titola l’articolo di Ciarlariello, finge di “cambiare tutto per lasciare le cose come stanno”, invece di svuotare il bacino amplissimo del precariato.
Insomma, ci sarebbero vulnus (che i lettori/trici troveranno analizzati ampiamente negli articoli di questo numero) alla scuola pubblica e ai suoi protagonisti non inferiori a quelli delle riforme Berlinguer, Moratti, Gelmini, Renzi. Solo che, oltre ad essere uscite dalla scuola le generazioni allenate ai conflitti sociali degli anni ’60 e ’70, lorsignori ora praticano il trucco delle controriforme a pezzi: e cioè, invece di offrire alla contestazione e al conflitto provvedimenti globali, operano con vari pezzi di dannosità distribuiti nel tempo. Certo, non sono mancati in questi mesi proteste e iniziative locali, anche significative, ma non si è riusciti a coagularle in una lotta a carattere generale.
Non che nel resto del Lavoro dipendente le cose vadano in maniera rosea. Purtuttavia, negli ultimi mesi, in vari settori del Lavoro privato come COBAS abbiamo dato un contributo importante a scioperi e mobilitazioni, dal Trasporto urbano e dalle proteste per il contratto degli autoferrotranvieri alla lotta strenua dei lavoratori/trici TIM per evitare lo smembramento e la svendita di una risorsa nazionale e pilastro delle Telecomunicazioni, passando per i conflitti del Commercio e della Logistica fino a quelli delle Poste contro la privatizzazione e dei lavoratori/trici degli appalti nella Pubblica Amministrazione per la internalizzazione. In tutti questi casi (sui quali troverete ampi resoconti negli articoli di questo numero) ha certamente giocato un ruolo favorevole il differente peso di pressione che si può esercitare laddove lo sciopero provoca effettivi danni alla controparte, come ad esempio nella Logistica e nel Commercio, dove un’interruzione del lavoro causa perdite economiche ingenti nei grandi centri commerciali e supermercati, non recuperabili nei giorni successivi.
Resta però il fatto che a limitare la portata di tali conflitti opera l’assoluta sordità del governo nei confronti delle rivendicazioni del Lavoro dipendente, in contrasto invece con la disponibilità dimostrata nei riguardi di stabilimenti balneari, agricoltori, ambulanti, tassisti ecc. D’altra parte, le sorti e le “fortune” del governo Meloni sono paradossali. Speravamo che l’arrivo del governo più a destra della storia della Repubblica avrebbe almeno provocato un processo di unità, o almeno di alleanza, tra le forze conflittuali sociali, sindacali e politiche italiane. Ma tale processo non si è realizzato e le lotte, pur presenti, continuano a procedere separatamente e localmente, senza sintesi o confluenze importanti. In più, il governo Meloni può avvalersi dell’inconsistenza dell’opposizione parlamentare e istituzionale, irreparabilmente divisa, con un PD che nulla ha tratto dalla “novità Schlein” e lo sconcertante M5S di un Conte che nel suo trasformismo da record cerca di far credere (e ancora un bel po’ di italiani/e gli danno retta) di essere, in quanto “pacifista” e “lottatore sociale”, a sinistra del PD e a destra di Meloni in quanto sovranista. Per giunta, con abilità camaleontica, Meloni ha rovesciato del tutto la piattaforma internazionale di Fratelli d’Italia – basata , quando era all’opposizione, sul sovranismo integrale, l’antieuropeismo, i legami stretti con l’estrema destra europea, la sintonia con Putin e Trump – disinnescando la prevedibile ostilità dell’establishment politico ed economico “occidentale”, venendo ora vista addirittura come una garanzia di stabilità (in particolare dopo l’appoggio totale all’Ucraina e a Israele) per l’Occidente.
Insomma, se il governo Meloni entrerà in crisi, non dipenderà di certo dall’opposizione parlamentare in Italia o dalla UE, dagli USA o dai mercati finanziari, e neanche dagli alleati della Lega e Forza Italia, troppo deboli per contrastare davvero Meloni. Solo l’ingresso in campo di un movimento popolare convergente, di cui per la verità non si vedono per ora significative avvisaglie, potrebbe cambiare la situazione: e noi COBAS, pur consapevoli delle nostre forze e dimensioni, continueremo a lavorare per un’ampia coalizione che dia corpo a questa possibilità.
Piero Bernocchi