Alcuni giorni fa ho scritto un articolo Virus e Natura per contribuire a convincere almeno chi mi/ci è più vicino ad evitare di cimentarsi, non essendo purtroppo in grado di contrastare il capitalismo sul terreno economico-politico, nel tentativo di sostenere la tesi strampalata che esso provochi le epidemie: che insomma sia divenuto un capitalismo pandemico. All’uopo, richiamavo alcune delle più famose epidemie del passato, in particolare quelle di peste che sterminarono nel quinto secolo a.C. la metà dei cittadini ateniesi e della leadership fino al capo supremo Pericle, la “peste magna” a Milano (nel 1484, non quella resa celebre dai “Promessi Sposi”) e quella che fece seguito al “sacco di Roma” portata dai Lanzichenecchi: tutte epidemie, peraltro, ben altrimenti mortali e devastanti dell’attuale da Covid-19 e che colpivano indipendentemente da età e condizioni fisiche, con un tasso di mortalità altissimo. Avvenute in ere pre-capitalistiche e non accompagnate né da sconvolgimenti naturali e climatici, né da grandi trasmigrazioni, né da particolari vulnus inferti dall’uomo alla mitizzata e sublimata, fino a farne una sorta di corpo unico universale, Natura, e neanche riconducibili a qualche connubio “incestuoso” tra umani e altre specie animali.
In tale occasione, ho anche approfittato per ricordare che tali epidemie/pandemie sono stati episodi cruenti e generalizzati che fecero parte, come tanti altri cataclismi perfettamente naturali, dell’eterna lotta tra uomo e elementi naturali distruttivi. Elementi inconfutabili che dovrebbero indurci a non idealizzare la Natura come una Pacha Mama, una benevola, accogliente e compassionevole MadreTerra, simile a quella divinità adorata dagli Incas e da altri nativi dell’epoca; nonché a non dimenticare mai, in particolare, che virus e batteri sono strutture viventi come noi umani, altrettanto mutevoli, altrettanto “cattive” e di certo, a differenza di noi, del tutto disinteressate ai rapporti economici e politici: e per giunta, in una visione neo-darwiniana che io però non condivido, dediti ad una selezione perfettamente naturale, abbattendo i più deboli delle varie specie e fortificando gli altri. Ovviamente non attribuivo al mio articolo il potere taumaturgico di fermare le perdenti invenzioni in arrivo, ma solo quello, non però inutile o trascurabile, di dare un primo allarme almeno alla mia organizzazione e nel circondario della “compagneria” non da noi distante. Dovere e necessità che sento ancora più impellenti oggi, perché vedo che la bufala sul capitalismo pandemico si sta diffondendo non solo tra i reduci dei decenni “rossi e gloriosi” del secolo scorso, assetati di un – purtroppo attualmente impotente – radicale anticapitalismo, ma anche tra parecchi esponenti di giovani generazioni politiche e sociali, mediamente non molto ferrate storicamente (anche per colpa della scuola, certo). Per cui vorrei qui ritornare sul tema, in maniera più estesa, dettagliata e, spero, adeguatamente approfondita, e con alcuni altri interessanti richiami storici (tra il secondo e il sesto secolo d.C.) a tre micidiali pandemie che colpirono Roma e l’Impero romano e che, a detta di alcuni storici, furono un elemento decisivo nel tracollo dell’Impero; ma anche alla più ravvicinata pandemia degli ultimi secoli e la più distruttiva della storia umana: la famigerata “influenza spagnola”, che attaccò almeno mezzo miliardo di persone, tra il 1918 e il 1920, con una virulenza incomparabilmente superiore a quella di cui è attualmente portatore il Covid-19, e di cui stranamente in queste settimane troppo poco si è parlato negli organi di informazione ma anche nei social e nella comunicazione “alternativa”.
Le pandemie negli ultimi secoli dell’Impero romano
“Virus e batteri abbandonano gli animali selvaggi su cui erano abituati a vivere e saltano addosso agli esseri umani. Favorito dai traffici commerciali di una globalizzazione che ha coperto il pianeta con reti di commercio sempre più fitte, il contagio nato in Asia si sparge verso Ovest e diventa pandemia globale. E si abbatte in modo devastante su un processo di integrazione europeo che sembrava trionfante, e che ha dato all’Occidente decenni di pace, ma si è anche imbarcato in guerre complicate per esportare i valori della sua civiltà in territori difficili. La moneta unica diventa insostenibile, i cambiamenti climatici accrescono i danni. In breve, l’Europa e la stessa globalizzazione collassano”. Immagino che il lettore/trice darà per scontato che si stia parlando dell’oggi. E invece il Covid-19 e l’attuale pandemia non c’entrano nulla. Si tratta invece di un’estrema sintesi della tesi di fondo di The Fate of Rome: Climate, Disease and the End of an Empire, un saggio di Kyle Harper (docente di Storia e Lettere classiche alla University of Oklahoma), pubblicato in lingua inglese nel 2017 e tradotto due anni dopo da Einaudi con il titolo Il destino di Roma. Clima, epidemie e la fine di un impero. La tesi di fondo del libro è che la caduta dell’Impero romano non avvenne soprattutto per motivi politici e/o economici o per il degrado delle leadership ma per una concatenazione di fattori naturali – pandemie e cambi climatici indipendenti dall’uomo – che devastarono a più riprese l’Impero in quei secoli.
Al momento della prima grande epidemia della storia romana e dell’Occidente, nel 165 d.C. era imperatore il filosofo stoico Marco Aurelio, subentrato da poco ad Antonino Pio, morto quattro anni prima. La cosiddetta Peste Antonina arrivò del tutto inaspettata e sconosciuta e in realtà quasi certamente non di peste si trattò ma di vaiolo. Una leggenda dell’epoca ne attribuì la responsabilità ad un legionario il quale, durante la guerra contro i Parti nel territorio dell’attuale Iraq, saccheggiò un tempio dedicato al dio Apollo che per vendetta avrebbe scatenata quella che risulta essere, nelle ricostruzioni storiche, la prima grande epidemia della storia occidentale, con il primo caso conosciuto (o documentato) di spillover (salto interspecifico, passaggio cioè da una specie all’altra di un virus o un batterio; sull’argomento ora il must è Spillover. L’evoluzione della pandemia, di David Quammen, Adelphi Editore) dovuto forse al gerbillo, un roditore delle zone desertiche, veicolo possibile del virus Variola del vaiolo (pur se esistono altre ipotesi che sostengono la compresenza di peste e vaiolo). Le statistiche dell’epoca erano certamente lontanissime dalla precisione attuale, al punto che la stima delle vittime oscilla, secondo le testimonianze storiche raccolte da Harper (il cui riferimento fondamentale nello specifico sono le testimonianze di Galeno, il celeberrimo medico greco che dette un’impronta indelebile a tutta la medicina dei secoli seguenti, oltre ad aver ideato la “galenica” cioè la metodologia di preparazione dei farmaci), da un milione e mezzo fino addirittura a 25 milioni di morti, cioè circa il 30% della popolazione che faceva parte dell’Impero dell’epoca, e tra questi anche l’imperatore Marco Aurelio, mentre le maggiori devastazioni si ebbero nell’esercito, nelle trenta legioni che garantivano la difesa dei domini di Roma e la sicurezza della stessa città. Secondo Harper, da quella pandemia (e dalla immane strage che colpì pressoché il territorio controllato da Roma), iniziò la fase discendente dell’Impero.
Però, all’esaurirsi dell’epidemia, la Roma imperiale ebbe un nuovo slancio economico e sociale – questa è una costante delle fasi post-epidemiche, anche ben prima che il capitalismo facesse la sua comparsa nel mondo, a riprova che i cicli di distruzione e ricostruzione, sia dopo le epidemie sia dopo le guerre, non sono una caratteristica esclusiva di monsieur le Capital – che per circa un secolo non fece presagire affatto un imminente crollo dell’Impero o una sua fase declinante. A gestire questo periodo fu la dinastia dei Severi, che regnò dal 193 al 235 d.C. (massimo rappresentante Settimio Severo e ultimo imperatore Alessandro Severo), garantendo la ricostruzione degli equilibri precedenti alla Peste Antonina, il rafforzamento dell’esercito e il recupero pieno del controllo di territori venuto meno durante l’epidemia. Anzi: la grande maggioranza degli studi storici sul periodo ne segnalano lo splendore quasi senza precedenti, con la capitale imperiale che aveva raggiunto il milione di abitanti e che, sostiene Harper “era una città quale mai il mondo aveva visto prima e che mai il mondo avrebbe visto poi, prima della Londra ottocentesca della Rivoluzione industriale” (a riprova di tale splendore, Harper ricorda le 28 biblioteche, i 19 acquedotti, i 46 mila palazzi, i 290 granai, gli 856 stabilimenti termali, le 1352 cisterne, i 254 panifici e, per la verità, anche i 46 bordelli). E nel contempo Roma era il centro di una estesa globalizzazione politica ed economica, Roma – ricorda Harper – era all’epoca la capitale di un impero di circa 75 milioni di abitanti che equivalevano a circa un quarto dell’intera popolazione mondiale, unendo l’Europa all’intero bacino del Mediterraneo ed estendendosi dal 24esimo al 65esimo parallelo, con una rete di commerci e relazioni economico-politiche che arrivava fino all’Africa sub sahariana, all’India e alla Cina, con un esercito di mezzo milione di legionari, il più grande della storia (e i legionari avevano garantita anche la pensione) e una moneta unica che facilitava i commerci.
Ma questa colossale potenza venne nuovamente messa in grave crisi da una ulteriore e gravissima pestilenza, la cosiddetta Peste di Cipriano (dal nome di Tascio Cecilio Cipriano, vescovo di Cartagine e padre della Chiesa, fatto poi santo, riferimento fondamentale di Harper con il suo scritto Della mortalità, in cui dà una miniera di informazioni sull’epidemia, avendo costruito anche una struttura per assistere i malati e seppellire i morti), decisamente più lunga della precedente al punto che i dati sulle vittime sono più diluiti negli anni e circoscritti territorialmente (ma forse può bastare per tutti il dato di Alessandria d’Egitto ove del mezzo milione di abitanti dell’epoca ne perirono 310 mila, oltre il 60%), e che ebbe il suo epicentro nel ventennio tra il 250 e il 270 d.C. Dalle descrizioni dei sintomi, gli esperti ne hanno tratto la conclusione che non di peste o vaiolo si trattasse ma di una febbre emorragica virale simile a quella che negli ultimi anni abbiamo conosciuto come Ebola, anche se stavolta non è stato individuato come avvenne la zoonosi, insomma da quale animale il virus fosse passato all’uomo. Però Harper sottolinea anche come Cipriano mettesse in evidenza un altro aspetto – a cui l’autore dà molta importanza al fine di stabilire le cause della caduta dell’Impero – che inserisce tra le probabili cause dell’epidemia il progressivo raffreddamento del clima che aveva favorito lo sviluppo dell’Impero romano fino al 200 d.C. circa (il cosiddetto Periodo caldo romano, durato secondo alcuni circa 200 anni e che molti studiosi ritengono avesse portato a Roma e nell’area mediterranea temperature analoghe a quelle odierne, se non anche un po’ superiori). Questo optimum climatico, ci ha lasciato scritto Cipriano, stava sparendo e anzi “il sole al tramonto irradia i suoi raggi con minore splendore e minore calore”. E in effetti numerosi studi storico-climatici sostengono che la temperatura media registrò una significativa diminuzione per circa due secoli.
Comunque sia, secondo Harper questa ulteriore e lunghissima pandemia, unita al peggioramento del clima con raffreddamento generale e siccità, provocò un’atmosfera drammatica che favorì l’emergere del Cristianesimo, mentre economia e sistema monetario collassavano. Nuovi tentativi di restaurazione si rivelarono via via sempre più difficili e nel 476 crollò l’impero d’Occidente (n.d.s. la datazione sulla fine dell’Impero romano d’Occidente nel 476 d.C. – e cioè quando il generale Odoacre depose l’ultimo imperatore romano e si autoproclamò re di Roma – è contestata da un significativo filone della storiografia; incontestabile invece la data della separazione tra l’Impero d’Occidente e quello di Oriente, la cui scissione avvenne nel 395, alla morte dell’ultimo imperatore “unitario”, Teodosio I detto il Grande). In realtà nel corso dei successivi due secoli si manifestarono altre epidemie “minori”, almeno rispetto alle precedenti, perché comunque fecero sempre almeno centinaia di migliaia di morti. Ma la terza grande pandemia, stavolta di peste, fu la più rilevante e distruttiva di tutte e anche quella che ebbe una durata inusitata, spegnendosi del tutto solo dopo un paio di secoli. Sulla zoonosi di quella che chiamiamo Yersinia pestis non ci sono oggi dubbi di sorta, essendo la yersinia un batterio trasmesso all’uomo attraverso la pulce dei ratti, animali ubiqui e a stretto contatto degli umani pressoché dappertutto. La pandemia esplose durante il regno di Giustiniano nell’impero di Oriente (regnò dal 527 al 565 d.C.) a partire dal 541, si estese a tutto il Nord Africa, alla Spagna, all’Italia, alla Gallia, Germania e Britannia e sulla base di numerosissime testimonianze dell’epoca sterminò – dice Harper – circa la metà della popolazione di quelle terre, e non si estinse definitivamente se non intorno al 750 d.C. Che cosa ci dimostra inconfutabilmente questa lunga, ma spero di un qualche interesse e utilità, ricostruzione storica?
1) Il passaggio di virus e batteri pericolosi, e più o meno aggressivi e mortali, dagli animali all’uomo avviene da millenni e non ha nulla a che fare con i vari sistemi economici e politici.
2) Tale spillover non necessita di particolari sconvolgimenti ambientali, anche se certamente vistosi cambi climatici o distruzioni significative dell’humus di alcuni territori possono probabilmente favorire la trasmigrazione. Ma né nei tre casi qui citati, né per la peste in Atene del V secolo a.C., o per quella del “sacco di Roma” né per la “peste magna” di Milano, citate nel mio precedente scritto Virus e Natura, operarono distruzioni ambientali di portata significativa. E se torniamo all’oggi, che il passaggio nella zona di Wuhan del virus sia avvenuto a partire da un pipistrello o da altri animali “selvaggi”, resta il fatto che lo spillover è stato provocato dalle condizioni “barbariche” di mercati cinesi ove, da tempo immemorabile e non solo negli ultimi anni, si macellano en plein air animali di ogni tipo e provenienza, servendoli senza mediazione sanitaria o igienica appena decente ad una clientela che non va per il sottile, anche senza dover tirare in ballo i “topi vivi” di Zaia. E anche questa zoonosi, però, avrebbe fatto danni assai più limitati – un po’ come le precedenti epidemie di Sars o di Aviaria – se non fosse intervenuto il comportamento criminale dello Stato e del regime monocratico cinese che, pur di non sputtanare le glorie del Neo Impero Celeste, hanno taciuto per almeno un mese e mezzo su quello che stava succedendo.
3) Peraltro nei casi fin qui citati, dalla prima pandemia del 165 d.C. fino alle epidemie di peste nel periodo delle Grandi guerre in Italia (dal XIV al XVI secolo), lo spillover non fu dovuto a qualche sorta di “connubio incestuoso” con generi rari, inusitati e assai distanti dall’uomo in assenza di sconvolgimenti naturali e territoriali. Ma, assai banalmente, gli animali “responsabili” del passaggio sono stati in netta maggioranza i topi, e il veicolo diretto le pulci; ossia, animali per nulla esotici e anzi frequentissimi in tutti gli ambienti di quelle epoche e, per la verità, tuttora tra le specie viventi più invasive e onnipresenti con le quali gli umani siano in diretto contatto.
4) Per la trasmissione del virus o del batterio a livello globale è abbondantemente dimostrato che non servono né aerei né il livello di globalizzazione attuale: quella già realizzata dall’Impero romano bastava e avanzava; e anche la velocità di propagazione, pur non così rapida come ora, era già allora considerevole. E a meno di non voler tornare indietro di oltre tremila anni, questa interconnessione mondiale, che nell’insieme resta un fatto positivo e inevitabile. Che poi sia gestita in chiave liberista o in chiave “socialista” fa una grande differenza politicamente ed economicamente, ma resta un bisogno umano e sociale ineludibile, senza dover scomodare lo spirito di Ulisse a superare le Colonne d’Ercole.
5) La continua ripetizione, anche a distanza di tempi relativamente brevi, degli stessi tipi di pandemie, senza che si realizzasse la famosa “indennità di gregge” (fatto clamoroso soprattutto nel caso della terza epidemia del VI secolo d.C., che durò addirittura due secoli), conferma che, ancor più velocemente che per tutte le altre specie viventi, virus e batteri hanno un’adattabilità e un carattere mutante rapidi e imprevedibili. Dal che la necessaria dismissione, per il qui ed ora, delle speranze illusorie di poter “anticipare” questo o quel virus o batterio mortale preparando prima i vaccini: questi devono purtroppo cimentarsi peoprio sul “qui ed ora”, che a volte può mutare addirittura nei mesi.
6) Infine e soprattutto: nella realtà storica e in quella fattuale, malgrado tutti gli studi connessi, ad oggi una spiegazione esauriente del perché gli stessi topi e le stesse pulci, per decenni o per secoli, non trasmettono agli umani niente di distruttivo e poi di botto invece il passaggio diviene catastrofico, non esiste. Dunque, impossibilitati a fare previsioni in tal senso per poter evitare in anticipo la trasmigrazione, l’unica cosa da fare oggi e nell’immediato futuro è sfruttare l’enorme progresso scientifico e tecnico operato dall’umanità nei secoli, capitalismo o meno. Progresso che, come ci hanno dimostrato nazioni, Stati e governi (pochi in realtà) ben più previdenti, avveduti e capaci di quelli italiani, avrebbe consentito già in questa occasione di limitare grandemente i danni, riducendoli ai minimi termini. Ma rimando l’approfondimento su tali gravi responsabilità ad un successivo capitoletto, volendo ora ricordare quella che, a memoria storica, è stata la più vasta e distruttiva pandemia della storia dell’umanità, l’influenza cosiddetta spagnola che devastò il mondo, già sconvolto dalla Prima guerra mondiale, tra il 1918 e il 1920.
La “spagnola”, la più distruttiva ed estesa pandemia della storia
All’inizio, sono rimasto sorpreso per il fatto che in tutte queste settimane, nella pubblicistica/informazione sull’attuale pandemia, sia stata richiamata raramente e solo marginalmente quella che è stata la più catastrofica ed estesa pandemia della storia dell’umanità. L’influenza spagnola, così chiamata perché se ne cominciò a parlare con grande allarme in Spagna (paese non coinvolto nella Prima guerra mondiale e ove, quindi, la stampa poteva parlarne liberamente, mentre nei paesi belligeranti la censura agì per impedire la diffusione del panico e le diserzioni in massa: in realtà non c’è alcuna certezza sul focolaio di partenza), colpì tra il 1918 e il 1920 circa 500 milioni di persone su una popolazione mondiale di 2 miliardi di persone e fece un’ecatombe senza precedenti con un numero di morti che andò, a seconda delle varie fonti, da 50 a 100 milioni (le statistiche e le raccolte dati dell’epoca non erano sofisticate come oggi). In Italia i morti furono circa 600 mila. Fu un virus influenzale del genere H1N1 a infettare popolazioni di ogni parte del mondo, arrivando, a differenza di tutte le pandemie precedenti, anche in sperdute isole del Pacifico, o dell’Oceano indiano, o fino alle popolazioni abitanti a ridosso dei due Poli. Oltre alla sua enorme diffusione nel pianeta e alla sua particolare virulenza, anomala per le forme influenzali del genere, la più singolare caratteristica di questa micidiale influenza fu che uccise molto più i giovani in buona salute che gli anziani: esattamente il contrario di tutte le altre epidemie influenzali di cui si abbia ad oggi conoscenza. Da allora gli scienziati si sono lambiccati il cervello per spiegare le due anomalie. Per quel che ho potuto verificare, una risposta esauriente non mi pare sia arrivata: mi limito dunque a riferire le due ipotesi più accreditate. a) Per la letalità, la maggioranza degli studi tende a ritenere che il virus non fosse di per sé davvero aggressivo come la mortalità lascerebbe credere, ma che siano state le particolari condizioni belliche e post-belliche ad ingigantirne la distruttività: la malnutrizione e le pessime condizioni igieniche; gli ospedali e gli accampamenti medici improvvisati, ove si accalcarono un numero spropositato di malati, mischiati a reduci di guerra infermi e con un personale medico ridotto all’osso e senza difese precauzionali, che resero sovente gli ospedali il primo centro di contagio, con infezioni batteriche micidiali in organismi già debilitati; l’affollamento nelle abitazioni carenti di servizi, riscaldamento adeguato, ventilazione e spazi sufficienti ecc. b) In quanto alla mortalità giovanile, l’ipotesi più accreditata è che, oltre all’insufficienza respiratoria acuta che accompagnava l’influenza (più o meno come con il Corona), il virus provocasse un’abnorme circolazione di citochine, molecole proteiche prodotte dall’organismo per reagire ad attacchi al sistema immunitario, che in genere operano a livello locale ma che, se emesse in quantità esagerata, deformano l’azione di cellule fondamentali in tutto il corpo. Il virus, insomma, provocava una reazione immunitaria esagerata: e tale reazione era tanto più distruttiva quanto più l’organismo era sano e il sistema immunitario pronto alla reazione (come capita per la velocità di crescita di tumori nei giovani, spesso maggiore che negli anziani).
Comunque sia, la spagnola stese una coltre di morte su tutto il pianeta, come non mai nella storia (solo l’Australia, per motivi mai compresi, ne venne risparmiata) e travolse decine di milioni di persone e fece strage anche tra l’intellettualità dell’epoca (famosi scrittori, poeti, musicisti, pittori ecc.) decimandone le fila e segnando enormemente le opere artistiche del periodo. Nel suo Viral modernism, pubblicato dalla Columbia University Press, Elizabeth Outka, docente dell’University of Richmond, descrive efficacemente questi due piani della catastrofe, passando da testimonianze di semplici cittadini, sconvolti dalla portata dell’ecatombe, all’angoscia dell’intellettualità e della cultura dell’epoca, falcidiata direttamente o da vicinissimo. Ad esempio, Outka riporta la testimonianza di José Ameal Pena, spagnolo (in Spagna i morti furono più di 300 mila) concessa al periodico El Mundo un paio di anni fa, alla bellezza di 105 anni: “Erano così tanti i funerali che passavano ogni giorno davanti alla nostra casa che mia madre, per non spaventarmi, teneva sempre le tende chiuse. Per giorni senza interruzione si sentivano i rintocchi a morte del campanile della chiesa. Poi le campane smisero di suonare. Troppo rumore e troppi lutti in un paesino terrorizzato. L’idea fu del parroco: decise che i defunti fossero accompagnati al cimitero in silenzio, senza che nessuno dovesse chiedersi per chi suona la campana”. I servizi si interruppero a tutti i livelli, anche al di là delle decisioni degli Stati (quelli in guerra nascosero per mesi ciò che stava succedendo): troppe persone erano totalmente debilitate o in agonia. Scrive Outka: “I critici della Prima guerra mondiale parlano dei morti sempre presenti nelle trincee ma nel 1918 i morti erano ovunque…C’erano così tanti morti che i cortei funebri dall’obitorio degli ospedali ai cimiteri erano un lungo ‘spettacolo’ senza fine. Spesso c’era più di una bara in un carro funebre. La comunità non riusciva a stare al passo con i funerali. Il tributo della pandemia fu presto così alto che in molti luoghi le bare si esaurirono…La morte di massa si era riversata dai campi di battaglia nello spazio domestico e distrusse le famiglie su più livelli, producendo milioni di orfani…Mentre la pandemia si è conclusa nel 1920, i postumi del virus hanno continuato a vivere nei corpi e nelle vite degli scampati alla morte. Questo ceppo influenzale poteva danneggiare permanentemente i polmoni, il cuore e i nervi e lasciare il corpo aperto alle infezioni”.
Nel suo libro, Outka dedica molto spazio all’effetto dirompente della pandemia sulla cultura dell’epoca, sulle produzioni artistiche, sulla psicologia e sugli atteggiamenti degli intellettuali. “’La terra desolata’ di T.S. Eliot (1922) (n.d.s. fu colpito dal virus ma sopravvisse) e ‘Il secondo avvento’ di W.B. Yeats sono i due capolavori della letteratura del Novecento più segnati dalla ‘spagnola’… Ma ogni scrittore ha avuto un incontro personale con il virus e ogni testo traccia un particolare paesaggio pandemico…Tutta la grande cultura ne rimase in qualche modo segnata”. Alcuni esempi. La figlia di Freud, Sophie, appena reduce da una gravidanza, morì a causa del virus e il padre fu così sconvolto da questa morte e dalla pandemia da scrivere il celeberrimo saggio Al di là del principio di piacere, in cui avanzò la teoria della pulsione di morte (“Ricordi un periodo così pieno di morte come quello attuale?” scrisse all’amico Ernest Jones). Secondo una tesi piuttosto accreditata, Edvard Munch dipinse il suo capolavoro, L’urlo, emblema massimo dell’angoscia dell’uomo ma anche metafora della morte che spazza via tutto, dopo essere stato attaccato molti anni prima da una forte influenza, seppur non distruttiva come la spagnola. Nello spiegarne il motivo ispiratore, così scrisse il grande pittore norvegese: “Stavo percorrendo un sentiero, da una parte c’era la città, dall’altra il fiordo. Mi sentivo stanco e malato. Mi fermai a guardare in direzione del fiordo: il sole stava tramontando e le nuvole erano rosso sangue. Ebbi la sensazione che la natura fosse attraversata da un urlo: e mi sembrò di sentirlo”. Cosicché, una volta colpito anch’esso dalla spagnola nel 1919 e sopravvissuto, dipinse l’Autoritratto con influenza spagnola, una sorta di “ripresa” drammatica dell’Urlo, ove si ritrae avvolto in una coperta, con un colorito giallastro malato, simile alla spettralità del volto dell’Urlo e con la bocca aperta come un cadavere colto all’improvviso dalla morte e come se, durante la malattia, si fosse immaginato così.
Tra gli altri, la spagnola uccise il grande sociologo Max Weber, Egon Schiele, uno dei massimi pittori espressionisti, e il suo maestro Gustav Klimt, il poeta e principale esponente dell’avanguardia artistica francese “surrealista”, Guillaume Apollinaire, Edmond Rostand autore, tra l’altro, del Cyrano de Bergerac. Altri sopravvissero a stento, portandosene poi dietro le tracce indelebili, fisiche e psichiche, come Ezra Pound, Franz Kafka, John Steinbeck, Groucho Marx, Romain Rolland, premio Nobel per la letteratura nel 1915, o il compositore ungherese Bela Bartok che ne uscì a stento e con una forte perdita dell’udito: e tanti, tanti altri. E così Outka sintetizza questa schiacciante presenza della morte in ogni luogo e ambiente sociale: “Entrambe le tragedie, la guerra e la pandemia, hanno richiesto sepolture di massa. Hanno portato a morte improvvisa e violenta, a corpi danneggiati, entrambe hanno causato un senso diffuso di morte nei sopravvissuti, e hanno lasciato un numero quasi inimmaginabile di persone in lutto sulla loro scia. Donne e uomini erano in estremo pericolo e lo spazio domestico divenne mortale”. Al punto tale da far pensare a centinaia di milioni di persone che, come scrisse Victor Vaughan, capo della divisione di malattie infettive dell’esercito USA, “se l’epidemia continua così, la civiltà potrebbe facilmente scomparire dalla faccia della terra in poche settimane”. E invece, alla fine del 1920, così come d’improvviso era arrivata e aveva travolto il mondo, altrettanto rapidamente e inspiegabilmente la pandemia terminò senza lasciar traccia se non negli strascichi fisici e mentali in coloro che erano sopravvissuti.
Ma la cosa persino più sorprendente – almeno per me che in realtà ho scoperto solo in questi ultimi giorni la profondità e l’ampiezza di tale cancellazione nei cento anni trascorsi da allora – è che una catastrofe che aveva provocato un numero di morti circa cinque volte tanto la guerra stessa (durante la quale i morti furono circa 16 milioni), che aveva spazzato via un’intellettualità di prim’ordine ispirando numerosi capolavori artistici ed enormi tracce nella cultura (quali capolavori pensate che usciranno fuori dall’attuale pandemia di Corona?), è incredibilmente svanita nel giro di poco tempo dalla memoria storica dell’umanità e dei suoi opinion makers. Al punto che se oggi chiedessimo ad un/a qualsiasi studente/ssa universitario/a di Storia di elencare i quattro o cinque eventi storici più importanti nell’arco temporale tra la Prima e la Seconda guerra mondiale, possiamo prevedere che, direi al 99%, verrà citato l’avvento del fascismo, quello del nazismo, presumibilmente la Rivoluzione russa e lo stalinismo, molto probabilmente la Grande Depressione economica del 1929: ma non ci sarà la pandemia spagnola. Perché? A partire proprio da questo interrogativo, provo, come già fatto per le pandemie dell’Impero romano nel capitoletto precedente, a cercare di delineare quelli che mi sembrano gli insegnamenti da trarre anche da questa pandemia per la lettura dell’attuale Corona-pandemia e per fare qualche previsione sui suoi presumibili lasciti, conseguenze e sviluppi sociali e politici.
1) Non è facile spiegare le ragioni di una rimozione così clamorosa come quella che ha riguardato la più estesa e distruttiva pandemia della storia dell’umanità. Si può supporre che, nell’immediato, l’ecatombe sia stata automaticamente associata alla guerra e letta come una sorta di capitolo di essa, non dandole, per così dire, una vita e un significato autonomi. Ci possiamo aggiungere gli effetti dirompenti degli altri avvenimenti storici già citati, l’avvento del fascismo in Italia (a soli dodici mesi dalla fine della pandemia si costituiva il Partito fascista con la sbalorditiva cifra di 300 mila iscritti/e e l’anno seguente avveniva la Marcia su Roma e l’ascesa al potere del fascismo, per nulla interessato ovviamente a rivangare l’immediato passato) e poco più tardi l’ascesa del nazismo in Germania; e ancora, il trionfo dello stalinismo in Unione sovietica e all’interno del movimento comunista europeo e internazionale; e infine la grande crisi economica e sociale del 1929. Più complesso, però, è spiegarsi come mai l’attuale Corona-pandemia non abbia richiamato agli onori della cronaca un qualche serio e documentato parallelo con la spagnola. Non credo possa spiegarlo la sola distanza temporale, perché invece vari richiami alle epidemie di peste et similia dei secoli passati sono stati abbondantemente diffusi; e in più, una rimozione quasi altrettanto forte è avvenuta per la pandemia asiatica del 1958-1960, decisamente più ravvicinata, che, seppur non così micidiale come la spagnola, fece pur sempre circa 2 milioni di morti nel mondo e circa 30 mila in Italia.
Si può supporre che sia subentrata una specie di megalomania da progresso scientifico: e che, cioè, si siano viste quelle epidemie come rientranti in una sorta di “preistoria” delle capacità scientifiche di contenere e limitarne i danni. E’ probabile che abbiano giocato molto anche i grandi allarmi che mossero a suo tempo epidemie come la Sars, l’Aviaria o da noi la cosiddetta mucca pazza” a fronte di una pericolosità rivelatasi poi ben scarsa rispetto ai timori. Dal che, da una parte l’effetto di chi grida “al lupo, al lupo” troppe volte, e dall’altra, forse, una smodata fiducia sui progressi medico-scientifici degli ultimi anni, possono aver causato una sensazione generalizzata di relativa immunità. Se andiamo a guardare le prime reazioni di tutti, scienziati e politici, (ivi compreso qui da noi il Burioni che successivamente ha preso a pavoneggiarsi come l’unico che aveva capito tutto subito), il leit-motiv principale è stato “è poco più di un’influenza”. Frase peraltro del tutto insignificante di per sé, perché solo la rimozione delle due grandi pandemie del Novecento poteva far dimenticare che entrambi erano appunto influenze. Ma il non aver proceduto a rigorosi confronti storico-medici con quelle due pandemie, ha creato da una parte una drammatizzazione successiva esattamente come se la mortalità della Corona-pandemia fosse equivalente alla spagnola; e dall’altra, che è poi la cosa che qui più mi preme segnalare, sta portando a sottovalutare le gravissime responsabilità di tutti gli Stati, dei governi e delle leadership dell’Occidente (o di tutti i governi e burocrazie statali, ad eccezione di 4 o5 in Estremo Oriente). Perché, obiettivamente, è imparagonabile una pandemia come la spagnola con l’attuale: e non solo per il numero di contagiati e di morti: ma proprio per la distruttività specifica del virus che effettivamente per la grande maggioranza degli attuali contagiati è “poco più di un’influenza” (di quelle “tradizionali”). Così l’hanno vissuta almeno il 95% degli infettati (anzi, gran parte di essi non ha avuto proprio sintomi e questo ha favorito enormemente il contagio), mentre la spagnola non guardava la carta d’identità, anzi colpiva in maggioranza i più giovani e i sani con forti difese immunitarie, non aveva praticamente asintomatici e lasciava tracce pesanti anche sui sopravvissuti.
Insomma, qui ed ora, sarebbe bastato assai probabilmente che il governo cinese avesse informato (oramai pare assodato che a fine novembre l’epidemia fosse già a conoscenza delle alte sfere, che la resero pubblica però solo a metà gennaio) sull’epidemia a tempo debito, che le strutture sanitarie dei vari paesi si fossero preparati come fatto nella Corea del Sud (dove i morti, ad oggi, sono un centesimo che in Italia, malgrado lì sia partita prima, abbia scontato la grande vicinanza con la Cina e tutto sia rimasto aperto) o a Singapore o a Taiwan, per avere oggi un numero ridottissimo di morti e il progressivo spegnimento del contagio. E magari, per quel che riguarda l’Italia, sarebbe bastato avere una struttura sanitaria non falcidiata da venti anni di tagli irresponsabili, dotata fin dall’inizio dell’epidemia non di soli 5 mila posti di terapia intensiva ma ad esempio dei 20 mila tedeschi, con medici forniti subito delle difese sanitarie indispensabili, per trovarci oggi con una mortalità abbondantemente inferiore all’1%. Ma sulle responsabilità politiche delle leadership mondiali, e di quelle italiane in particolare, tornerò nel prossimo capitoletto.
2) Se guardiamo le modalità della trasmissione della spagnola, ritroviamo una parte della misteriosità della trasmigrazione dagli animali all’uomo già riscontrata nelle pandemiei precedentemente analizzate, ma anche una secca smentita delle ipotesi di comodo sul capitalismo pandemico o sul salto di qualità nella distruzione degli habitat naturali, come principali cause delle epidemie. In questo caso, non ci sono dimostrazioni decisive su quale specie animale abbia provocato lo spillover, ma l’ipotesi più gettonata resta quella dei topi e delle pulci, grandi frequentatori delle trincee di guerra e pure delle abitazioni nelle città colpite dalla furia bellica. Sta di fatto però che il cataclisma bellico aveva colpito le città ma non aveva messo a contatto le popolazioni urbane con specie animali inusitate (che è poi la tesi di fondo sulle esplosioni negli anni scorsi di febbri emorragiche, tipo Evola, in Africa) o con un’intrusione in territori vergini e relativi contatti “incestuosi” con specie animali solitamente molto distanti dagli umani, dato che anche stavolta il più indiziato per la trasmissione resta il topo, cioè la specie più onnipresente nella storia umana, insieme, more solito, alla pulce: il che ci dovrebbe fare escludere di potercela cavare in futuro solo evitando di inoltrarci in territori incontaminati e di devastare le risorse naturali. Fermo restando, ovviamente, che la difesa dell’ambiente e la sua tutela sono valori fondamentali di per sé (di inquinamento muoiono ogni anno, in media, almeno altrettanti che con le pandemie; e certo esso aggrava assai tutte le malattie respiratorie, anche senza epidemie) per una vita più sana e gradevole, ben al di là della possibile responsabilità ambientale nella genesi delle epidemie. Nel contempo, va ulteriormente sottolineato il fatto che, esattamente come per le pandemie dell’antichità, resta misterioso il perché gli stessi topi, le stesse pulci che per decenni o secoli non provocano epidemie, poi di botto diventino agenti distruttivi per l’umanità. Perché, venendo all’oggi, quegli osceni mercati cinesi (e diffusi però molto non solo in Oriente ma anche in Africa), con ogni genere di animale macellato e consumato sul posto con garanzie igieniche zero, da cui sarebbe partito il Corona, non sono nati negli ultimi anni ma esistono da secoli. E per giunta, nel caso della spagnola, resta il mistero del perché all’improvviso, pur restando le condizioni esterne (a parte la fine della guerra) le stesse, né essendo intervenuti vaccini o pratiche mediche innovative, la pandemia si sia fermata in tutto il mondo. Dal che verrebbe da dire che, piuttosto che sperare di prevenire questi improvvisi e imprevedibili trasferimenti dei virus, l’orientamento generale per il futuro, fermo restando il massimo impegno nella difesa dell’ambiente naturale e nella “sanificazione” del territorio cittadino, dovrebbe essere quello di saper intervenire al meglio, una volta partita l’epidemia, per limitare e circoscrivere i danni come, anche in questa circostanza, si è dimostrato di poter fare in quei paesi che hanno scelto una strategia “virtuosa”, preparata da tempo.
3) Slavoj Zizek in un’intervista a Repubblica, ha sostenuto che sente “un nuovo comunismo germogliare dal virus”, tant’è che pure Trump avrebbe capito (?) che bisogna istituire “forme di stipendio minimo garantito”. Al contempo, il filosofo sloveno non pensa che ci si debba preoccupare di “governi autoritari che ci vogliano controllare tutti”, perché “si rafforzeranno i legami comunitari”, e che, piuttosto, teme “l’aumento di sfiducia verso le istituzioni”(??), e per eliminare “nuove forme di paranoia e le teorie dei complotti” bisogna sperare che entrino in campo “nuovi Assange capaci di smascherare gli abusi” (???). Ora, Zizek indulge volentieri in un certo “cazzeggio politico” e in boutades per attirarsi le attenzioni mediatiche e per épater le bourgeois. E dunque non lo avrei citato se questo, speranzoso e persino fanciullesco, stato d’animo non circolasse in Italia pure in una parte non irrilevante della “compagneria”; e anche più in là, in ambiti sociali diversi (quelli del “tutto andrà bene”, del “ce la faremo!”che immagino quale gradimento possono incontrare tra i familiari dei circa ventimila morti, nonché nella marea di italiani che stanno per andare falliti!). La ottimistica e illuministica idea che i cataclismi e le disgrazie collettive migliorino l’umanità, impongano di per sé radicali cambiamenti di vita nel dopo-catastrofe con la vittoria della cooperazione, della solidarietà, di “nuove forme comunitarie“, di “nuove forme democratiche e di partecipazione”, fino addirittura ad un “nuovo comunismo”, oltre a cancellare millenni di storia umana, non ha neanche fatto i conti proprio con quel che si è verificato dopo la più grande pandemia della storia umana (grande pandemia = grande solidarietà e cooperazione a-conflittuale dopo la catastrofe, no?).
Solo per restare all’Italia, era passato solamente un anno dalla fine della spagnola che Mussolini fondava il partito fascista con trecentomila seguaci e avviava una sorta di mini-guerra civile che fece un salto di qualità l’anno dopo (ottobre 1922) con la marcia su Roma e la presa del potere da parte dei fascisti. Insomma, in luogo di cooperazione, solidarietà e voglia di comunitarismo spuntava un dittatore che imponeva una lotta spietata e senza esclusione di colpi violenti tra classi, ceti e anche “in seno al popolo”; e in luogo di un’espansione della democrazia, si affermò, con il progressivo consenso della maggioranza degli italiani/e – una volta eliminata con la forza l’autolesionista sinistra politica e sindacale, dilaniata dagli scontri interni – un regime massimamente gerarchico, antidemocratico e oligarchico. Modello che affascinò buona parte dell’Europa, che fece da battistrada al nazismo e che ebbe come “dirimpettaio” ad Est il trionfo dello stalinismo, con la sua violenta spietatezza e la sua cancellazione di qualsiasi forma di democrazia politica, sindacale e civile. Ora, non intendo certo sostenere che le catastrofi, epidemiche, naturali o belliche che siano, portano necessariamente alla più spietata conflittualità inter-umana, insomma all’hobbesiano (anche se il primo ad usare l’espressione fu Plauto) homo homini lupus, né che la fascinazione del potere monocratico e della gestione dittatoriale, o la resa nei loro confronti, siano lasciti inevitabili di tali catastrofi.
Di certo, però, non mi pare che nella storia si sia mai realizzato il contrario, la netta emersione, dopo guerre o pandemie, del “lato buono” dell’umanità. E anche venendo al qui ed ora, l’apparente solidarietà o senso di disgrazia comune che sembra affratellare in questi giorni le popolazioni, intanto già non vale nei rapporti tra un paese e l’altro (cfr. gli scontri in atto nell’Unione Europea su chi deve pagare la pandemia) e in più entrerà prevedibilmente in crisi appena si passerà a decidere nei singoli paesi le priorità nelle riaperture, nelle distribuzione dei soldi, nelle gerarchie tra chi verrà salvato e chi lasciato nelle peste. In quanto poi all’accettazioneo dei processi di centralizzazione del potere, del controllo capillare e della gestione extraparlamentare, un segnale evidente viene già dalla supina accettazione di provvedimenti spesso del tutto strampalati, contraddittori e presi saltando le procedure democratiche e condivise, messi in atto proprio da chi solo due mesi fa sosteneva che in Italia era tutto pronto per affrontare al meglio il virus (cfr. intervista a Conte da parte di Lilli Gruber del 27 gennaio): il quale Conte, malgrado o forse grazie proprio a simile decisionismo, riscuote un consenso popolare crescente anche tra chi non ama i partiti di governo. Insomma, non farei proprio affidamento sul nuovo comunismo, e manco su un beato e salvifico comunitarismo che dovrebbe germogliare dal virus.
4) Infine. Come già per le pandemie durante l’Impero romano, anche l’espansione del virus della spagnola dimostra che non c’è bisogno di centinaia di migliaia di voli aerei l’anno per diffondere un’epidemia nel mondo. Accadeva per l’Impero romano, senza aerei, treni o crociere navali, bastavano gli spostamenti a piedi, a cavallo o sui carri. Tra il 1918 e il 1920 la spagnola arrivò nei posti più impensabili senza bisogno di voli aerei: giunse in tutto il Sud Pacifico, in Polinesia e alle Fiji, in Nuova Caledonia e a Samoa (unica inspiegabile eccezione, l’Australia), nell’Oceano Indiano, dal Madagascar a Mauritius, nei Caraibi dalle Antille Olandesi fino alle Bahamas, in zone artiche e antartiche. Né, per questo, negli anni successivi gli scambi e gli spostamenti mondiali si attenuarono, anzi. Dunque, a meno di voler tornare indietro a più di 3000 anni fa, preso atto dell’indispensabile e inevitabile interconnessione mondiale tra le popolazioni umane e le altre specie viventi, virus e batteri compresi, sarebbe bene mettersi l’anima in pace. In particolari circostanze e per determinati e limitati periodi, si possono anche chiudere le frontiere. Ma, fermo restando che anche con il Corona le chiusure inter-statuali non hanno dato grandi risultati, credo che pure alla fine di questa pandemia non resisteranno a lungo le restrizioni alla cosiddetta globalizzazione che è poi semplicemente l’irreversibile interconnessione mondiale dell’umanità. E dunque tutti i ragionamenti e gli sforzi vanno spostati non su un ritorno ad una mai esistita età aurea, ma più efficacemente sulle misure permanenti per preservare e bonificare l’ambiente e per limitare assai i danni di future epidemie che potranno ripresentarsi nel futuro: cosa che alcuni paesi hanno già dimostrato possibile.
Le gravi responsabilità delle burocrazie statali e dei governi un po’ ovunque
Tra le singolarità di questa fase drammatica c’è la sparizione, nella pletora degli opinion makers, non solo della galassia degli esperti di medicina alternativa e “naturale” che, ça va sans dire, se ne sono guardati bene, e a ragione, dall’aprire bocca sull’epidemia in corso: ma anche e soprattutto dei sostenitori della letalità dei vaccini, la diffusa, fino a ieri, schiera dei no-vax. La cosa davvero bizzarra, però, è che sovente a partire dagli stessi ambienti ove le più sciagurate tesi grilline (dalle scie chimiche alla venificità dei vaccini) avevano trovato fertile terreno, così come le più feroci condanne verso le peraltro non innocenti grandi case farmaceutiche, si elevano ora alti lai esattamente per l’opposto, ossia per il fatto che queste ultime non avrebbero approntato con largo anticipo una sorta di vaccino preventivo. Tra le numerose amenità del genere, circolanti in Rete, ne ho scelta una in particolare, perché viene da un personaggio autorevole della nostra cultura e del nostro giornalismo, oltre che, fino a poco fa, anche parlamentare europea. Sto parlando di Barbara Spinelli che, il 5 marzo scorso in un articolo sul Fatto Quotidiano, sosteneva – facendo riferimento ad un rapporto della Goldman Sachs (?? non proprio dei fustigatori del liberismo!) e ad uno scritto di Leigh Phillips, giornalista e divulgatore scientifico inglese – la tesi che la pandemia non dipenderebbe dal Coronavirus di per sé, né dall’occultamento per un mese e mezzo dell’inizio dell’epidemia in Cina, né dalla inaudita impreparazione di quasi tutte le burocrazie statali e governi mondiali; bensì dal “culto” del libero mercato che impedirebbe il progresso scientifico e la ricerca e che in particolare non avrebbe consentito di mettere in circolazione con anticipo un vaccino contro i Coronavirus. Poiché, dunque, non ci si può aspettare nulla dalle grandi case farmaceutiche, preoccupate solo dalla ricerca del profitto in tempi brevi, sarebbe spettato agli Stati – scrive Spinelli – di investire a tempo debito in tutti i vaccini utili, visto che la maggioranza di tali Stati, nei paesi capitalisticamente sviluppati, disporrebbero di tutte le conoscenze e le tecnologie più avanzate.
A parte che non è affatto vero che la maggioranza degli Stati, pur sviluppati, abbiano a disposizione più conoscenze e più tecnologie delle principali case farmaceutiche che di vaccini si occupano da tanti decenni, è evidente che Spinelli, come tanti seguaci dell’idea del capitalismo pandemico, ha vaghe idee sui vaccini e sulla loro efficacia, che addirittura si situano talmente all’opposto dei no-vax da far risultare persino più ragionevoli questi ultimi. Intanto il costo di un vaccino è particolarmente elevato (si calcola che si oscilli in media tra i 2 e i 5 miliardi di dollari) e, sempre in media, si calcola che in genere occorrano dai tre ai dieci anni (i tempi possono accelerare se si interviene su ceppi virali già noti) per renderlo disponibile urbi et orbi. Ma questo sarebbe persino il meno. Il fatto è che – in questo almeno i no-vax sono più aderenti alla realtà di Spinelli e dei suoi ispiratori “scientifici” – ogni vaccino presenta un tasso di pericolosità legato all’effetto di potenziamento della malattia che può provocare se viene somministrato a persone che hanno già anticorpi: così ad esempio si è verificato negli esperimenti di vaccini anti-Sars e Mers su animali. In più, a consigliare prudenza, ci sono le possibili mutazioni dei virus stessi, che possono rendere pericolosi vaccini costruiti sul modello precedente alla mutazione che, peraltro, come nel caso della spagnola, può sparire all’improvviso e non riemergere più. Se qualsiasi Stato si fosse messo a preparare vaccini anti-Sars alcuni anni fa, li avrebbe tenuti in congelatore chissà fino a quando, visto che quel virus è misteriosamente scomparso. Quale Stato avrebbe potuto permettersi di buttare miliardi di dollari per un vaccino poi rivelatosi inutile? E con uno sguardo al passato, a che sarebbe servito scoprire ad esempio un vaccino anti-spagnola, che so, nel 1921 o 1922, una volta che quel virus era sparito per sempre?
Ma ancor più di queste considerazioni, è sorprendente che una giornalista, non esperta di vaccini ma adusa alla politica, abbia questa irrealistica idea sugli Stati, sulle burocrazie statali e sulle forze politiche che le animano, credendo che davvero essi lavorino per l’interesse popolare quando la quasi totalità degli Stati (che poi altro non sono che “capitalisti collettivi”, per l’analisi del cui concetto rimando ai miei libri Benicomunismo e Oltre il capitalismo) hanno abbondantemente dimostrato anche in questa crisi quanto siano dipendenti da interessi e logiche privatistiche, non meno dirompenti di quelle del capitalismo privato e persino più condizionate da burocrazie inefficienti, predatorie, corrotte. E quale migliore dimostrazione dell’attuale, sul fatto che le responsabilità del disastro che viviamo vadano ricercate non in un presunto capitalsimo pandemico con i suoi addentellati farmaceutici, ma proprio negli Stati (esclusi quattro o cinque previdenti al punto giusto), nelle onnipresenti e monopolizzanti burocrazie statali e nelle principali forze politiche che ne occupano i principali gangli operativi? Non è gravissima responsabilità del governo cinese, ad esempio, e del suo intero apparato statale, l’aver occultato per un mese e mezzo, più o meno, l’esplosione dell’epidemia a Wuhan e nella regione dell’Hubei, pur di non screditare l’immagine del neo Impero Celeste, impedendo così di salvaguardare in tempo il resto del mondo? Non è altrettanto grave responsabilità quella di tutti gli Stati occidentali ( ma anche orientali, a parte le quattro o cinque eccezioni già più volte citate) che non hanno mosso un dito per prevenire la catastrofe e limitare i danni in anticipo, piuttosto che arrivare poi in tragico ritardo con la economicamente distruttiva e individualmente oppressiva soluzione “facile” del “tutti tappati a casa”? E venendo a casa nostra, non è forse una grave responsabilità dell’intera burocrazia statale, del governo ma anche dei partiti di opposizione (ancora il 28 febbraio Salvini chiedeva di riaprire tutto, palestre, discoteche, piscine e saune comprese) non aver fatto nulla di serio per prepararsi a contenere l’epidemia senza dover chiudere tutto e far fallire milioni di persone?
E sì che non c’era da inventarsi miracoli, visto che la strada era già stata tracciata a partire dalla Corea del Sud che a questo si era preparata dall’ultima epidemia di Sars, che aveva colpito in particolare proprio la Corea. Ma il 27 gennaio (ben 75 giorni fa) Giuseppe Conte, intervistato da Lilli Gruber, sosteneva con la massima sicumera che l’Italia era assolutamente pronta ad affrontare l’eventuale arrivo dell’epidemia. Sarebbe bastato per prepararsi davvero che quell’impresentabile figuro, che per un incredibile scherzo del destino si è trovato miracolosamente a fare il ministro degli Esteri, avesse fatto un telefonata al suo collega coreano per apprendere che di fronte a questo genere di epidemie: a) la prima assoluta cautela da rispettare è fornire il personale sanitario di tutte le difese dal contagio e quindi mascherine chirurgiche impermeabili, occhiali, camici e tute che impediscano ogni passaggio del virus; b) a seguire, l’individuazione degli infettati non può essere lasciata al momento della comparsa di forti sintomi perché in queste influenze la maggioranza dei colpiti sono del tutto asintomatici e tanti altri hanno lievi sintomi confondibili facilmente con banali raffreddori; il che, dunque, richiede tamponi a tappeto, con risultati a brevissimo, da fare anche a tutti coloro che siano circolati in zone, locali o assembramenti ove di sicuro il virus sia passato; c) una volta individuato, grazie ai tamponi, che il soggetto è infetto, esso non va isolato in famiglia ma posto in quarantena distanziato da tutti; e a tal fine vanno creati luoghi appositi senza contatti di alcun genere con altri pazienti; d) al fine di individuare i possibili soggetti che abbiano frequentato zone a rischio e per tracciarne gli spostamenti, va violata, previo avvertimento, la loro privacy e vanno mappati grazie agli smartphone; lo stesso uso va fatto per evitare che sfuggano dalla quarantena; e) infine, fermo restando che in genere non occorre a nessun paese avere decine di migliaia di terapie intensive in condizioni normali, però una volta partita l’epidemia, e in tempi rapidi, ne vanno create in numero adeguato alle necessità e al di fuori dei normali ospedali che devono continuare a funzionare con gli altri ricoverati senza divenire a loro volta addirittura i principali focolai di contagio. Così’ facendo, al momento la più volte citata Corea (come pure Singapore e Taiwan) ha oggi un centesimo dei morti italiani e ha potuto permettersi di non interrompere le attività produttive né i sistemi di vita di milioni di persone. E invece in Italia è andata purtroppo in maniera ben diversa, e non certo per colpa del mitico capitalismo pandemico. Vediamo come e perché.
1) Malgrado la già citata, tracotante’affermazione di Conte il 27 gennaio già citata, del genere “siamo preparatissimi, il virus ci farà un baffo”, il governo e la burocrazia statale hanno mandato allo sbaraglio medici e infermieri senza neanche garantirgli quella indispensabile protezione per evitare che divenissero le prime vittime del contagio, rendendo loro e vari ospedali del Nord, soprattutto in Lombardia, i principali trasmettitori per parecchi giorni del virus a migliaia di pazienti ricoverati. Gravissima in particolare la responsabilità gestionale in Lombardia, malgrado in partenza la regione potesse contare sulle migliori strutture nazionali, alla pari con l’Emilia Romagna. Né ai cittadini/e italiani/e sono state fornite rapidamente mascherine efficaci, che avrebbero permesso di circolare, seppure distanziati, assai più liberamente fin dall’inizio senza contagiare urbi et orbi. Persino le mascherine meno protettive sono state ben difficilmente reperibili per circa due mesi, dopo essere state dichiarate inefficaci da vari “scienziati”, solo perché l’apparato burocratico non era stato in grado di attivare una decina di aziende tessili per produrle in tempi rapidi direttamente in Italia. Ancora la settimana scorsa la Regione toscana ha potuto distribuire mascherine di relativa efficacia (non quelle davvero impermeabili, le “chirurgiche”) solo perché finalmente la Cina aveva inviato il quantitativo richiesto alcune settimane prima; mentre la Lombardia le ha rese obbligatorie ma senza fornirle e proponendo la loro sostituzione con “almeno una qualsiasi sciarpa”(!!).
2) Il governo e le autorità regionali, sballottati tra i conflitti politici e tra i contrastanti pareri dei virologi stessi, non hanno seguito con coerenza nessuna delle due strade che già in Oriente si erano dimostrate efficaci: ossia quella cinese (o ancor meglio quella neozelandese, che però è stata avviata solo il 25 marzo con la chiusura totale che ha abbattuto pressoché totalmente il contagio, che era arrivato a 1200 casi, di cui solo 4 in rianimazione e una sola vittima, una donna di 70 anni con serie patologie pregresse; ma è pur vero che su 5 milioni di abitanti finora sono state multate solo 45 persone che non rispettavano il lockdown, non proprio come in Italia) della chiusura totale – che il governo si è potuto permettere perché l’Hubei è meno di un ventesimo dell’intera Cina, ove invece tutte le attività sono proseguite regolarmente); o quella, molto meno soffocante, più rispettosa dei diritti e più adatta all’Italia, seguita dal gruppo “virtuoso” di Corea, Singapore e Taiwan, cioè la via dei tamponi di massa, della tracciabilità dei luoghi infetti e delle persone che li avevano frequentati e dell’isolamento dei casi sospetti, al di fuori degli ospedali “normali” e dalle famiglie. Governo, burocrazie statali e regionali hanno oscillato tra l’una e l’altra strategia, con un susseguirsi di decreti improvvisati sull’onda dell’ultima “spinta” ricevuta. In una prima fase, a parte i 12 comuni lombardo-veneti, non si è chiuso niente, continuando a permettere qualsiasi grande evento, assembramento e mobilità all’interno delle due regioni (con una punta di vera follia il 19 febbraio quando, mentre già il virus era attivo in Lombardia, 45 mila tifosi bergamaschi si accalcarono allo stadio di San Siro per la partita Atalanta-Valencia di Champions, dando vita ad una “bomba biologica”, che ha provocato quasi certamente la incredibile virulenza pandemica nel Bergamasco e a seguire in tutta la Lombardia), nonché dalla Lombardia e dal Veneto alle regioni limitrofe, fino ad assistere all’arrivo del virus nelle altre regioni del Nord, e a fare capolino anche nel Centro-Sud, dato che ogni giorno centinaia di treni, con centinaia di migliaia di italiani ammassati senza alcuna precauzione, si spostavano da Nord a Sud.
3) In questo contesto, all’improvviso le decisioni governative e delle burocrazie statali e regionali, al seguito dei pareri mutanti degli esperti, hanno fatto un balzo in avanti gestito nella maniera peggiore, chiudendo tutte le scuole e le Università, anche laddove il virus non era ancora arrivato, lasciando però, assurdamente, tutto il resto aperto. Non ci volevano dei geni per capire che se lasci completamente disimpegnate proprio le fasce di et,à che in precedenza stavano per molte ore con i/le coetanei/e (a parte docenti ed Ata) a rischio pressoché nullo e poi per lo più a casa a fare compiti, si sarebbe finiti con il diffondere maggiormente l’epidemia con la circolazione a milioni da mane a sera in città, aumentando di gran lunga i contatti con le fasce adulte, visto che restavano aperte le palestre, le piscine, i circoli sportivi, tutte le attività ricreative e ludiche, i pub e le pizzerie fino a tarda notte, con un’estensione della “movida” del week end all’intera settimana.
4) Ma neanche a questo punto è stata imboccata con decisione l’unica via che oramai era rimasta disponibile: e cioè lo screening a tappeto, di massa, dei possibili infetti/e, una volta verificato che il numero di contagiati senza sintomi risultava assai superiore ai casi acclarati: e che dunque la strada coreana era l’unica percorribile. Sono stati creati fumosi ostacoli a tale rilevazione a tappeto usando dichiarazioni degli esperti secondo le quali non sarebbero stati attendibili i test (certo, non al 100% no, ma in gran parte sì), i risultati sarebbero arrivati in ritardo e comunque non avevamo le strutture per permettercelo; e analoghe difficoltà sono state fatte per il reperimento dei respiratori e dell’approntamento di un numero di reparti di terapia intensiva che raddoppiasse i 5000 posti disponibili all’inizio dell’epidemia, nonché per la separazione di questi reparti dagli ospedali “normali” o per la mappatura telematica dei possibili contagiati. Oggi apprendiamo che, ad esempio, decine di aziende erano disponibilissime ad avviare fin da due mesi fa la produzione di massa di mascherine efficaci e di altre protezioni per medici e infermieri; che a Cormano (nell’hinterland milanese) esiste da 50 anni un’azienda specializzata nella produzione di dispositivi di protezione delle vie respiratorie che era in grado anche di decuplicare la produzione consueta se il governo o la Regione lombarda l’avessero chiesto; che per ovviare alla mancanza di respiratori, valvole, analizzatori di tamponi, avevamo a disposizione, tra le tante, un’azienda italiana (la Siare Engineering) che da decenni produce macchinari polmonari per mezzo mondo; che in Inghilterra la Dyson (aspirapolveri e asciugacapelli) ha realizzato in dieci giorni un respiratore per cui ha iniziato la produzione di massa; che negli USA la Abbot Labs (apparecchi di analisi medica) ha prodotto un apparecchio di modestissime dimensioni in grado di rispondere, con buona precisione, in 5 minuti sulla positività di un campione, e che di aziende in grado di fare cose analoghe in Italia ce ne sarebbero state a iosa (alcune delle quali pure di proprietà statale), se la burocrazia statale e regionale avesse fatto il minimo sforzo di usare queste capacità. Fino all’ultima intollerabile situazione dei reparti di terapia intensiva/rianimazione. Perché se all’inizio dovevamo imputare ai tagli delittuosi della Sanità il numero limitato di posti disponibili (non più di 5 mila di contro ai più di 20 mila in Germania che stanno permettendo colà di non lasciare a morire a casa nessuno/a dei casi gravi) oggi apprendiamo che in realtà in questi mesi i posti in terapia intensiva sono raddoppiati salendo a circa 10 mila: il che rende ancora più insopportabile che, di fronte a circa 3900 posti occupati attualmente dai malati e dunque avendone a disposizione altre migliaia, tantissimi anziani siano stati lasciati morire nelle stragi di tante case di riposo, soprattutto in Lombardia, o da soli nelle loro abitazioni per lasciare comunque libero il posto a gente più giovane e più sana.
5) Il
penultimo passo della chiusura, poi, è stato davvero sconcertante.
Il governo, con un decreto a sorpresa ma annunciato prima che fosse
applicabile, ha deciso la creazione di una rigida “zona rossa”
in Lombardia (e in Veneto ed Emilia in alcune province), non mettendo
in campo alcun coordinamento organizzativo per impedire lo
scontatissimo esodo di massa. Almeno 70-80 mila persone, in
prevalenza studenti, piuttosto che rimanere bloccati nella “zona
rossa”, sono fuggiti a Sud, insieme a tanti lavoratori/trici
improvvisamente disoccupati/e. Ad aggravare la situazione, ci hanno
pensato centinaia di migliaia di persone che sono letteralmente
scappate dalle regioni ad alto rischio, per una “emigrazione da
week end” – quasi carnascialesca, del genere “godiamocela
prima di essere rinchiusi fino a chissà quando” – verso tante
regioni a bassissimo contagio fino a quel momento, che ha riempito i
litorali di mezza Italia (con l’apertura delle seconde case al
mare), le piste da sci di tutto il Nord e i luoghi d’arte della
penisola, trasferendo il virus un po’ ovunque..
5) Infine, l’11
marzo il governo e tutte le autorità regionali, ottenuta un’intesa
bipartisan con le opposizioni (passate con Salvini dal “riapriamo
tutto” del 28 febbraio al “chiudiamo tutta Europa” del
10 marzo), sono pienamente entrati nella seconda modalità
prospettata all’inizio, chiudendo quasi
tutto, in una sorta di simil-Wuhan. Ma questo ultimo passaggio, che
proseguirà almeno per altri 20 giorni se non più, avviene quando
oramai i fatidici buoi sono fuoriusciti da tutte le simboliche
stalle. Perché da qualche giorni si rincorrono i pareri di esperti
sul fatto che i contagiati effettivi (al 95% senza sintomi o sintomi
lievi) sono almeno dieci volte tanto i conclamati, e cioè un milione
e mezzo, ma più probabilmente addirittura 5 o 6 milioni. Il che
significa che sono stati chiusi in casa, ovviamente senza mascherine
o protezioni, milioni di persone che manco sanno di essere infette e
che, al minimo, trasmettono il virus alla parentela (a meno che non
vivano da sole). Insomma, credo che questa assai negativa gestione
dell’epidemia possa essere sintetizzata nella disperata e
agghiacciante confessione/sfogo di una giovane donna che fa il medico
anestesista in un ospedale della provincia di Milano e che dal primo
giorno dell’esplosione dell’epidemia ha lavorato
ininterrottamente anche per 14-16 ore al giorno per cercare di
salvare il salvabile. La riporto quasi integralmente:
“Non ho abbastanza ossigeno negli impianti dell’ospedale…devo scegliere a chi darlo e la soglia di età si abbassa..tra un po’ non avremo più neanche la morfina per sedarli, almeno per farli morire sereni..Siamo devastati dal veder morire la gente senza avere i mezzi per curarla..Ci chiamano eroi. Ma quali eroi? Il punto è che sono arrivati troppi malati, tutti assieme e non si ha modo di curarli, non ci sono i posti-letto, non ci sono i macchinari, stiamo facendo 14-16 ore al giorno ma non riusciamo a gestirli tutti. Poi ci sono troppi colleghi che si ammalano, continuano a lavorare e infettano gli altri malati. Non ci fanno i tamponi perché se li facessimo e scoprissero che siamo positivi, dovremmo metterci in quarantena: e invece dobbiamo stare in reparto. Non se ne esce…Mandano in rianimazione ortopedici, ginecologi, vanno bene tutti. I rianimatori sono pochi, quindi ogni medico è necessario. Però farsi curare una polmonite da un ginecologo o da un ortopedico non è proprio garanzia di successo. Prendono infermieri che non hanno esperienza o che arrivano dagli ambulatori dove prima facevano i prelievi, li sbattono in terapia intensivo, con un carico emotivo fortissimo , con i pazienti che muoiono tra le loro mani. Bombe da cannone. E qualcuno non ce la fa e si suicida (n.d.s. cita il caso di due infermiere, una di Jesolo e una di Monza, che si sono ammazzate perché erano convinte di aver diffuso involontariamente il virus a parecchi pazienti, poi morti)..Non c’è niente di eroico nel non riuscire a fare il proprio lavoro per mancanza di mezzi e di personale, per mancanza di ossigeno e di morfina”.
Capito di cosa stiamo parlando? Altro che Stato salvifico che ci protegge dal capitalismo pandemico e dalle micidiali case farmaceutiche! Altro che Unione Europea “matrigna” e Germania egoista, indifferente e spietata che non rispetta le sofferenze dell’Italia, così duramente e inspiegabilmente colpita dal Fato avverso. Quella Germania, poi, che, partita molto dopo di noi, grazie alla sua abbondanza di medici e di reparti di terapia intensiva, grazie ai tamponi celermente avviati a tappeto, grazie a tutt’altra struttura statale e burocrazia annessa, oggi ha una mortalità meno di un decimo di quella italiana e un ventesimo di quella lombarda. E senza dimenticare che, mentre il governo italiano sulla carta decide numerosi interventi economici a favore di milioni di persone ad un passo dal lastrico e però dopo un mese né i cassa-integrati né i lavoratori autonomi hanno visto un euro, la “crudele Germania” non solo ha deciso rimborsi e sostegni ben superiori ai nostri ma soprattutto li ha erogati seduta stante. Come può un apparato statale e burocratico come quello italiano pretendere rispetto e copiose concessioni economiche dagli altri Paesi, quando non è nemmeno capace di difendere il proprio personale sanitario mandato alla sbaraglio, quando lascia morire migliaia di anziani reclusi in case di riposo, o abbandonati soli nelle proprie abitazioni, o quando neanche un mese dopo aver varato i provvedimenti di sostegno economico è stato capace di dare un soldo a milioni di persone che magari scamperanno al virus ma non alla distruzione di tutti i propri lavori e attività?
Piero Bernocchi
12 aprile 2020