L’araldo dell’onestà-tà-tà tra farsa e tragedia
Per certi versi la parabola di Giggino “Ping” Di Maio potrebbe avere la rilevanza austera che spetta alle vicende di un personaggio da tragedia greca. Emerso dal nulla di lavoretti precari appena accennati, segnato dalla nomea di eterno fuoricorso universitario incapace di portare a termine l’iter di studi a Ingegneria e a Legge, di cultura modesta, su di lui, all’improvviso, sono calati i riflettori illuminanti del padre-padrone dei Cinque Stelle, l’inquietante e sulfureo Casaleggio senior, che in un “casting” modello Scientology, ha scelto proprio Giggino “o ripetente” come leader maximo, con la benedizione dell’altrettanto sconcertante Grande Guitto, il Beppe Grillo co-fondatore e supremo garante, in apparenza, dei Five Stars. Hanno fatto aggio per Di Maio, sembrerebbe, il faccino pulito, il permanente abbigliamento da Prima Comunione, l’eloquio furbetto e il perenne sorriso fisso, a prima vista quasi demenziale (vedi la godibilissima parodia che ne fa il Crozza nazionale) ma probabilmente imposto dalla azienda Casaleggio come simbolo di un incrollabile ottimismo e di fede imperitura nelle magnifiche e progressive sorti del movimento a Cinque Stelle.
Solo che, dopo questa rapida ascesa nell’empireo del partito-azienda e dopo il trionfale ingresso nel governo addirittura come Numero Uno dello stesso, grazie al 32,5% di voti alle ultime elezioni, di contro ad un ben più ridotto 18% dell’alleato leghista, nel giro di pochi giorni è apparsa evidente l’enorme distanza esistente tra il comodo ruolo di opposizione – che consentiva di sparare frescacce colossali e promesse mirabolanti di radicali cambiamenti – e la nuova posizione di principale forza di governo. Se il cazzeggio televisivo, internettiano e massmediatico, svolto peraltro senza contestazione alcuna da parte dei giornalisti e senza alcun confronto con gli avversari politici (grazie a facili monologhi concessi supinamente da giornali e TV), aveva fatto credere ai fan dei 5Stelle di aver trovato un grande leader, convincendo magari lo stesso Giggino di essere assurto, da steward allo Stadio San Paolo di Napoli (unico lavoro della sua vita “per vedersi gratis le partite del Napoli”, commentò a suo tempo malignamente Berlusconi), a statista memorabile, destinato a cambiare da cima a fondo l’Italia, l’onerosissimo ruolo governativo ne ha messo a nudo, in tempi rapidissimi, l’estrema incompetenza, la cialtroneria mascherata dall’arroganza e dalla violenza verbale e la evidente fragilità caratteriale.
Di Maio si è trovato improvvisamente di fronte non solo l’ovvia difficoltà di passare dalle roboanti promesse alla realizzazione delle stesse, ma anche un altro ostacolo addirittura più impegnativo, evidentissimamente sottovalutato non solo da lui ma da tutto lo staff casaleggino, quello poi che da sempre indica la linea e le soluzioni che poi gli intercambiabili e pressoché ignoti parlamentari Cinque Stelle devono limitarsi ad eseguire senza fiatare. In primo luogo ha messo in crisi Di Maio e l’intero apparato casaleggino il ruolo via via dominante, fino a divenire straripante, di Matteo “il truce” Salvini e della sua Lega nazionale, sovranista, razzista e fascistoide. Salvini non si è preoccupato affatto di mantenere le promesse impossibili sul piano economico-sociale, la Flat tax, la vera cancellazione della Fornero e il ripristino delle pensioni “d’antan”, l’eliminazione della “buona scuola” ecc. Ha puntato tutte le sue carte sulla fobia razzista e sull’ossessione securitaria; ha sdoganato il razzismo dilagante sotto la pelle del corpaccione italico, la voglia crescente dei penultimi di mazzolare – e buttar fuori classifica – gli ultimi, i più deboli e indifesi; ha ingigantito la voglia paranoica di sicurezza, l’odio verso i “diversi” (anche se bianchi e italianissimi, qualora gay o occupanti di case, o oppositori politici radicali); ha scippato a Casa Pound quel “prima gli italiani” in assoluta antitesi con il secessionismo padano, ha recuperato non solo tutto il linguaggio fascistoide in generale ma anche le frasi celebri di Mussolini (“me ne frego”, “tanti nemici tanto onore”, “ se avanzo seguitemi” ecc.). Ed ha sbraitato contro i complotti finanziari mondiali alla Soros, rispolverando la paranoia fascistissima del complotto demo-pluto-giudaico degli anni ’30, ha solleticato in ogni modo l’avversione verso la “dittatura” tedesca e l’invadenza francese. Insomma, ha giocato cinicamente sul peggior repertorio introiettato dagli italiani nell’ultimo secolo e così facendo ha potuto non solo raddoppiare i consensi ma anche neutralizzare – almeno per ora – la crescente disaffezione delle strutture produttive della piccola e media industria, del commercio, dell’artigianato e delle professioni più influenti del Nord Italia, a cui ha additato i Cinque Stelle come alibi per la non realizzazione degli impegni e delle promesse di carattere economico. Messo all’angolo dall’iperattivismo di Salvini e dalla crescita esponenziale del suo consenso, costretto a fare da “palo” alla sua tattica di sfondamento nelle case degli italiani e ad abbandonare via via i punti fermi del grillismo delle origini (sì all’Ilva, sì al TAP, sì al Muos e tra un po’ pure sì al Terzo valico e magari pure alla TAV), additato, insieme al suo partito, come la vera causa dell’estrema confusione, incompetenza e cialtronaggine della compagine governativa, Giggino da Pomigliano ha sbandato ben oltre il comprensibile e pesantemente aggravato la crisi dei Cinque Stelle. Preso dall’ansia frenetica della rimonta, della replica colpo su colpo, tweet su tweet, minchiata Facebook su minchiata, nel giro di poche settimane la figura di Di Maio, che poteva mantenere connotati da sfortunato eroe da tragedia greca, travolto dal Fato e dai colpi degli Dei malevoli, ha virato verso la vera e propria farsa, in un crescendo grottesco di trovate dementi che fanno pensare alla sorte di quei giocatori al tavolo da poker che, per cercare una sempre più illusoria rivincita, aggravano la propria condizione fino a dilapidare tutto il patrimonio.
In un crescendo rossiniano, il 28 settembre Di Maio trascina i suoi in una demenziale riedizione delle uscite mussoliniane dal balcone di Piazza Venezia, esponendoli da quello di Palazzo Chigi con l’annuncio mentecatto del varo della “prima Finanziaria del popolo e per il popolo”, in grado di “cancellare per sempre in Italia la povertà”. Era appena finita l’eco della pagliacciata cosmica, che Di Maio si superava denunciando in una mitica trasmissione a Porta a Porta una “manina” responsabile di aver “manipolato”(a vantaggio dei “desiderata” della Lega) il decreto fiscale inviato al Quirinale, annunciando anche l’inoltro, per il giorno dopo, di una denuncia contro ignoti alla Procura. Questa volta il coro degli sghignazzi saliva al cielo della politica italiana anche grazie all’interessata collaborazione dei leghisti, a cui non parve vero di poter usufruire di tale e tanta cialtroneria. Ridicolizzato anche questo tentativo di rimontare sui leghisti (che nel frattempo sfondavano nei sondaggi anche la soglia del 30% e puntavano verso il 35%), esplodeva l’ignobile vicenda del condono totale degli abusi edilizi ad Ischia, infilato incredibilmente nel decreto sulla ricostruzione di Ponte Morandi a Genova e voluto spasmodicamente proprio da Di Maio. Su questo abominio, peraltro, le accuse ai Cinque Stelle hanno cominciato a spostarsi dalla denuncia della loro incompetenza e cialtroneria politica alla messa in crisi del dogma dell’”onestà-tà-tà”, colpendo nel segno a tal punto che le ultime uscite di Di Maio, sempre in cerca di una impossibile rivincita, hanno scavalcato anche i paradossi più estremi della derisione alla Crozza. Nel giro di tre giorni Di Maio ha inanellato: a) la dichiarazione del recupero in Finanziaria di 18 miliardi, grazie alle dismissioni di beni statali, stroncata in poche ore da una valanga di dati diffusi nei “media” che sottolineavano come negli ultimi cinque anni con le “dismissioni” si era recuperato a malapena 1 miliardo e che dunque di questo passo per arrivare ai 18 miliardi ci sarebbero voluti 90 anni; b) l’annuncio della immediata realizzazione del “tempo pieno” in tutte le scuole materne e elementari, grazie all’assunzione di 2000 (sic!!!) insegnanti, seguito da un’altra messe di dati dimostranti che, per realizzare il tempo pieno dappertutto, di docenti ce ne vorrebbero almeno 60-70 volte tanti, senza contare le notevoli spese per la gestione materiale, le attrezzature, le aule, le mense ecc. quando nella Finanziaria per la scuola non c’è un euro; c) la stampa in corso di 5 (o 6?) milioni di carte elettroniche (”veri e propri bancomat digitalizzati”) per ricevere il reddito garantito, super-cazzola brutalmente smantellata dai farfugliamenti televisivi alla Castelli, dalle smentite delle Poste e del Poligrafico, fino alla ammissione penosa di essersi ancora una volta inventato tutto.
Questa catena di vicissitudini, gaffe senza precedenti, minchiate da record, in condizioni normali e in un Paese normale avrebbero da tempo portato a scontate dimissioni del Di Maio, del suo staff, dei suoi consiglieri e della sua corte. Ma qui ed ora la Casaleggio Associati non se lo può permettere. La caduta di questo governo porterebbe necessariamente alle elezioni (non ci sono “volenterosi” che tengano, un altro governo pronto non c’è), al tracollo in esse dei Cinque Stelle e al trionfo di Salvini e alla probabile disgregazione del parto casaleggino. Cosicché, Di Maio resta al suo posto: ma la sua tragedia, già virata in farsa, sta scolorando negli ultimi giorni nella più vieta e sconfortante commedia all’italiana, quella che mette in scena l’Italietta delle piccole e medie corruzioni, delle modeste truffe, degli imbroglietti alla “io speriamo che me la cavo”, del menefreghismo collettivo verso il Pubblico, dell’avversione verso il rispetto dei Beni comuni, dell’individualismo sfrenato, del familismo amorale. Tutto questo bagaglio negativo dell’”italianità”, che coinvolge da tempo immemorabile la maggioranza degli italiani e che di solito viene mascherato addossandone le responsabilità alla “casta”, ai politici corrotti e mascalzoni ecc., lo stiamo vedendo riassunto, come in un apologo illuminante, nelle vicende della famiglia Di Maio messe a nudo, sempre di più nelle ultime ore e senza smentite, da una “semplice”inchiesta delle Iene. Che ricapitolo per sommi capi.
1) L’azienda di famiglia, di cui Giggino è proprietario al 50%, è stata gestita dal padre di Di Maio assumendo metà del personale (all’inizio sembrava solo uno, ora l’inchiesta ne registra 4 su 8 lavoranti ). Di Maio afferma di non averne mai saputo niente, malgrado, come tutta la sua organizzazione, abbia fatto, a chiacchiere, della lotta al precariato e al lavoro nero una bandiera acchiappa-voti di prima grandezza. 2) Ad un operaio infortunato venne impedito di fare denuncia all’Inail per non far crollare il castello del precariato in nero, andazzo abituale della ditta. Manco questa piccola infamia è stata smentita dal vicepresidente del Consiglio e ministro del Lavoro. 3) Nei terreni dove opera la ditta esistono costruzioni abusive, esattamente come abusiva era al tempo la casa di proprietà dei Di Maio, nonché rifiuti e scarti dell’attività edilizia da sversare negli appositi siti e lì invece abbandonati. Ignote anche queste vicende a Di Maio figlio. 4) Sul tutto grava anche una ipoteca Equitalia per tasse e multe non pagate intorno ai 170 mila euro. 5) La madre di Di Maio, prima insegnante e ora preside , risulta la vera titolare dell’azienda edile, intestataria della proprietà e della gestione della azienda, cosa incompatibile con il suo lavoro dipendente. Neanche su questo sono arrivate smentite. 6) A tutto questo malaffare si potrebbe aggiungere anche una nota grottesca, che potrebbe far pensare che il reddito di cittadinanza Di Maio se lo sia studiato in famiglia: avendo Antonio di Maio (il padre) dichiarato lo scorso anno un reddito di 88 euro, il fratello minore reddito zero e la sorella Rosalba, peraltro socia nell’impresa familiare, solo 7 mila euro, i tre sarebbero al momento beneficiari anch’essi del reddito suddetto.
Ora, se non stessimo parlando del vicepresidente del Consiglio, del massimo vessillifero dell’ossessivo ritornello “onestà-tà-tà”, del principale esponente del partito manettaro per eccellenza, di chi per molto meno ha chiesto dimissioni in massa di esponenti politici e governativi fino a ieri, di chi ha picchiato duramente su Renzi e Boschi per le colpe dei padri, se questo non si fosse proclamato come governo del cambiamento, della pulizia amministrativa, della fine della corruzione, potremmo chiudere la vicenda con il classico e italianissimo “così fan tutti” ed annoverare Di Maio figlio, oltre a tutta la famiglia, nella lista degli Italiani Qualunque, quelli sempre ad un passo dall’illegalità e dalla corruzione, se non spesso oltre, quelli che evadono le tasse appena possono, e anche quando non possono, che costruiscono abusivamente, che buttano i rifiuti dove capita, che nel loro piccolo inquinano con detriti e materiali tossici. Insomma la vecchia Italia democristiana, che ha trasmesso vizi e vizietti a quella berlusconiana, renziana ecc. E d’altra parte sono già molti ad etichettare i Cinque Stelle come i nuovi democristiani o, ancor più precisamente, come i nuovi dorotei. Solo che, oltre alla vistosa differenza di qualità che ci fa ripensare ai leader democristiani come a dei colossi politici rispetto a questa nuova genia di “scappati di casa”, i democristiani non dovevano fare carte false per restare al governo, visto che, caduto uno, se ne faceva un altro, sempre democristiano. E invece gli attuali parlamentari 5 Stelle, e in primis Di Maio, su cui peraltro incombe il ritorno del guerrigliero da tastiera dalla sua vacanza centroamericana, sanno che non avranno altra chance governativa (e per molti di loro manco parlamentare, a meno di rinnegare pure la regola dei due mandati) in caso di caduta del governo. Il che li mette nella condizione ideale per l’accettazione totale di qualsivoglia infamia razzista, ultra-autoritaria, fascistoide e spietata verso i deboli che il Truce Salvini deciderà di mettere ulteriormente in campo nelle prossime settimane. E i Cinque Stelle – con Di Maio in prima fila – verranno ricordati come coloro che hanno portato alle stelle la Lega, come i “cavalli di Troia” di Salvini e i principali responsabili dell’insediamento e dei veleni del governo più reazionario della storia della Repubblica.
Piero Bernocchi