di Piero Bernocchi
Leon de Winter è uno scrittore olandese che, oltre ai suoi libri, svolge una presenza social-politica costante, con articoli pubblicati su vari giornali e riviste europee. A proposito di Sinwar ha scritto in un articolo su Neue Zurcher Zeitung, quotidiano svizzero con quasi tre secoli di storia: “Yahia Sinwar aveva trovato l’arma con cui sconfiggere gli ebrei e manipolare il mondo: la morte dei suoi stessi connazionali. Invita gli ebrei ad uccidere il suo popolo e gli israeliani non possono sottrarsi alla lotta contro Hamas. Sinwar sapeva come stremare gli ebrei, ricattarli e metterli gli uni contro gli altri”. Effettivamente, il piano strategico di Sinwar, culminato nell’orrendo massacro del 7 ottobre, aveva una sua tragica grandezza strategica, che però, contrariamente alla lettura datagli da De Winter, è stata annullata da una catena di errori e di valutazioni, su possibilità non realizzatesi, commessi dal leader di Hamas e rivelatisi tragici e mortali per il popolo palestinese quanto per lo stesso Sinwar: catena di valutazioni erronee che qui proverò ad analizzare e commentare.
Il fallimento del tentativo di coinvolgere l’intero mondo islamico nell’attacco frontale a Israele
Sono in circolazione oramai da mesi attendibili documentazioni di varia e credibile provenienza che spiegano come il massacro del 7 ottobre fosse stato pianificato, magari con dettagli non identici, probabilmente da almeno un paio di anni e che fosse stato più di una volta rinviato, in attesa di scenari generali più favorevoli. C’è ampia concordia tra gli “addetti ai lavori” anche sui motivi, almeno due dominanti, che alla fine hanno fatto scegliere, a Sinwar e alla leadership interna a Gaza, la data del 7 ottobre. Tornerò più avanti sul secondo motivo, per soffermarmi qui su quello a mio avviso più rilevante e decisivo: e cioè l’assoluta necessità/obbligo di far naufragare l’ampliamento degli Accordi di Abramo (che avevano normalizzato i rapporti tra Israele, gli Emirati Arabi e il Bahrein) con l’inclusione dell’Arabia Saudita e forse pure del Qatar, e con la formazione di un assai influente blocco di paesi sunniti guidati dalla maggior potenza di tale mondo islamista, quella Arabia Saudita, grande e storica (fin dall’avvento degli ayatollah al potere a Teheran) avversaria dell’Iran sciita. Tra le intuizioni strategiche di Sinwar, quella di inserirsi come un cuneo che disgregasse il nascente schieramento favorevole alla normalizzazione dei rapporti con Israele e, nel contempo, saldasse definitivamente l’anomalia di un rapporto stretto, con conseguenti copiosi finanziamenti e sostegno bellico, tra un’organizzazione del radicalismo sunnita più estremo come Hamas e la roccaforte iraniana del mondo sciita (anomalia assoluta fino a qualche anno prima, laddove sunniti e sciiti si scannavano quotidianamente in tutto il mondo islamico, con percentuali di vittime ben superiori a quelle dei conflitti con cristiani, “occidentali” ed ebrei), è stata forse la più notevole e, almeno potenzialmente, quella in grado di aprire nuovi e inattesi scenari ai monumentali e apparentemente folli piani di distruzione totale di Israele.Per giungere però ad attivare un tale scenario, ci voleva un’azione così terrificante, sconvolgente e spietata, manifestantesi nelle forme più barbariche possibili, che fosse in grado di scatenare una risposta almeno altrettanto selvaggia, brutale e stragista da parte del governo Netanyahu, contando sulla colossale umiliazione imposta all’intero apparato bellico e militare israeliano ma pure sullo smacco planetario inflitto ad un capo di governo, ultra-ambizioso, senza scrupoli e senza remore, come Netanyahu che, pur di cancellare dalla scena l’ANP e Fatah, si era fatto ingannare da Sinwar, favorendone per anni l’ascesa al potere a Gaza, con una posizione dominante su tutti i palestinesi. Ritengo, conseguentemente, che gli orrori del 7 ottobre non siano stati dovuti alla barbarie spontanea e alla epidermica orgia senza freni di voglia di vendetta da parte delle migliaia di armati palestinesi coinvolti, ma che fosse stata pianificata e voluta da Sinwar e i suoi (e per tale ragione documentata ed esibita platealmente con video, foto e registrazioni sonore quanto più raccapriccianti possibili) proprio per rendere irrealistica e di fatto impossibile una risposta solo “moderata” da parte del governo israeliano, provocato a tal punto da spingerlo a una risposta quanto più feroce, distruttiva e impopolare possibile. La scommessa di Sinwar, certo massimamente cinica e spietata, ma non pazzesca in linea di principio, e anzi potenzialmente foriera di successo, è stata appunto quella di spingere Netanyahu ad attaccare Gaza con una forza distruttiva smisurata e senza precedenti, che provocasse il maggior numero di vittime possibili tra i civili (più volte Sinwar ha ammesso senza imbarazzo di essere disposto a sacrificare anche un numero spropositato di suoi concittadini/e non in armi pur di creare le condizioni per la sconfitta e la distruzione di Israele), in modo da suscitare da una parte la più diffusa indignazione mondiale contro Israele (e in generale contro la presenza di uno Stato ebraico in Palestina, da liberare dal “fiume al mare”), e che dall’altra spingesse tutto il mondo islamico, sunnita o sciita, ad entrare in campo militarmente, contribuendo in maniera decisiva alla distruzione di Israele.Malgrado la mia avversione politica, ideologica, culturale e morale all’islamismo da Guerra Santa e ai regimi dittatoriali come l’orrenda teocrazia iraniana e ad organizzazioni oscurantiste, reazionarie, ultra-misogine e omofobe come Hamas, Hezbollah, non posso negare che tale piano strategico aveva, almeno in potenza, quella che ho chiamato una tragica grandezza. E nella realtà di questo anno, tale piano il primo obiettivo lo aveva effettivamente raggiunto, cioè quello di suscitare una vastissima ondata di indignazione internazionale anche in ambienti fino a ieri insospettabili che, con grande rapidità, hanno accantonato gli orrori del 7 ottobre (che, anzi, hanno sovente salutato come un “riscatto” del popolo palestinese dopo decenni di sopraffazioni e umiliazioni, o come addirittura “l’inizio della Rivoluzione palestinese”), per reagire con una mobilitazione pressoché permanente contro il massacro in corso a Gaza, dove, indiscriminatamente, ai miliziani di Hamas uccisi dall’esercito israeliano si è accompagnato quasi ogni giorno un numero almeno altrettanto elevato di vittime civili, senza alcuna distinzioni tra uomini, donne, bambini.Quello che però non è avvenuto, rivelandosi nei fatti il principale punto debole di tale ambiziosissima strategia e il più grande errore di previsione di Sinwar e di chi ne ha condiviso la strategia, è stato il generale fallimento del tentativo di coinvolgere l’intero mondo islamico, sunita e sciita, nell’attacco frontale a Israele. Aposteriori, Sinwar ha dimostrato una sorprendente misconoscenza della variegata e ambigua complessità di tale mondo (più avanti vedremo come analoghi e altrettanto esiziali – per lui e per i palestinesi – errori di valutazione e previsione Sinwar li ha commessi anche nell’analisi della società israeliana e della psicologia dominante tra gi ebrei di Israele).Sorprende, tanto per cominciare, che il leader indiscusso di Hamas abbia davvero creduto ai roboanti proclami bellici e agli appelli per la distruzione della “entità sionista” (come i dittatori teocratici iraniani amano definire Israele, per non doverne fare neanche il nome in segno di massimo disprezzo) di due affabulatori e incantatori di massa come Khamenei e Nasrallah. Meraviglia che una mente così attenta ad ogni sfumatura del pensiero della radicalità islamista abbia potuto davvero credere che il regime teocratico e Hezbollah avrebbero deciso di mettere a repentaglio il proprio potere e dominio nei rispettivi paesi sottomessi, l’Iran e il Libano, e persino la sopravvivenza dei propri regimi, per entrare in campo accanto ad Hamas nello scontro frontale con Israele, ben conoscendo la propria inferiorità sul piano militare, ma anche la fragilità del proprio dominio interno, di fronte a due società in maggioranza ostili, in aperta rivolta come nell’Iran dell’ultimo biennio o sottomessa ma non consenziente e collaborativa come quella libanese, incapace di impedire la progressiva dominazione della minoranza sciita sul paese ma fondamentalmente desiderosa di una sua possibile débacle bellica.In verità, nei comportamenti di quasi tutti i paesi arabi e dell’Iran nei confronti della tragedia palestinese, c’è sempre stata una profonda strumentalità di fondo che Sinwar e i suoi avrebbero dovuto ben conoscere. Falliti i tentativi della Lega araba di sconfiggere militarmente Israele e di espellere la comunità ebraica dalla Palestina, la gran parte dei paesi arabi circostanti ha usato cinicamente il popolo palestinese e la sua lotta solo per creare le maggiori difficoltà possibili a Israele, per tenerla sotto costante pressione e per attivare la più diffusa solidarietà internazionale contro l’“entità sionista”. Solo che a questo cinico e strumentale disegno non si è mai accompagnata una reale solidarietà con il popolo palestinese, né in termini di significativi aiuti materiali né in quanto a dignitosa accoglienza ai profughi, almeno all’altezza dei proclami tonitruanti di circostanza. Figuriamoci se Hezbollah e la teocrazia iraniana potevano essere disposti a sfidare davvero, militarmente e in uno scontro aperto senza mediazioni, Israele, con la realistica possibilità di essere non solo travolti sul campo, ma anche di consentire alle diffuse opposizioni interne di saldare finalmente il conto alle insopportabili dominazioni ultra-decennali.Ma Sinwar ha commesso un altro errore di valutazione, altrettanto inspiegabile per chi, in tanti anni, aveva avuto modo di studiare dettagliatamente, e verificare da vicino e con massima cognizione di causa, di contatti e di legami, i complessi e contorti, ambigui e mutevoli rapporti tra le varie statualità e comunità islamiche mediorientali. Il leader di Hamas parrebbe aver preso sul serio, e massimamente sopravvalutato, il profondo legame che era riuscito a stabilire – fin da quando ancora era in galera in Israele e riusciva a corrompere le guardie carcerarie, così potendo colloquiare senza limiti non solo con i suoi “sottoposti” a Gaza, ma persino con il regime iraniano – fin dal 2011 con il regime degli ayatollah. Certo, l’anomalia di un’alleanza, così stretta, impegnativa e senza precedenti significativi, tra sunniti e sciiti, solitamente in guerra permanente tra loro da parecchi secoli, può aver contribuito a fuorviare le percezioni di Sinwar, al punto da fargli scambiare un accordo tattico (utilissimo per l’Iran per mettere in un angolo il progetto di una vasta parte del mondo sunnita di normalizzare i rapporti con Israele in nome dei comuni interessi economici) per una generale e permanente collaborazione strategica. Ma il grosso del mondo sunnita non ha mai digerito il rapporto quasi “intimo” tra la parte combattente del mondo sunnita palestinese con l’Iran, e ancor meno il grande potere acquisito da Hezbollah, altro portabandiera del minoritario mondo sciita e anch’esso grande alleato di Hamas: e quanto questa ostilità fosse viva, malgrado il sostegno comunemente sbandierato per i palestinesi durante i massacri a Gaza, si è potuto verificare apertamente con i festeggiamenti in tanti paesi arabi sunniti alla notizia dell’uccisione di Nasrallah: mentre, al contempo, non pare proprio che l’uccisione di Sinwar abbia suscitato in questi paesi grandi ondate di solidarietà e cordoglio.
Gli errori di valutazione di Sinwar sull’attuale popolo ebraico di Israele
Seppur meno eclatante, anche il secondo, catastrofico errore di valutazione di Sinwar ha avuto effetti dirompenti sul monumentale progetto strategico destinato a mettere in ginocchio Israele: laddove il leader di Hamas ha dimostrato un’altra grave défaillance di analisi sociale e politica, tanto più sconcertante per chi la società israeliana aveva avuto tutto il tempo e modo di studiare in dettaglio, avendone frequentato pure a lungo persino le carceri. Al proposito, la seconda parte del commento di De Winter citato all’inizio ( quel “Sinwar sapeva come stremare gli ebrei, ricattarli e metterli gli uni contro gli altri”) si è rivelata fallace. Sinwar credeva di sapere “come stremare gli ebrei”, ma assai probabilmente faceva i conti con i vecchi ebrei e non con quella realtà, che va ben oltre il sionismo d’antan, che è il popolo ebraico di Israele oggi. Effettivamente, almeno sulla carta, non aveva torto il leader di Hamas a ritenere favorevole, per l’invasione stragista del 7 ottobre, la profonda divisione nella società israeliana provocata dalla politica interna reazionaria e ultrautoritaria del governo Netanyahu, dominato, o comunque fortemente condizionato, dall’estrema destra oscurantista, teocratica e razzista, intenzionata a non concedere nulla, anzi a togliere ulteriormente ai palestinesi. Lo scontro interno alla comunità israeliana, prima del 7 ottobre, aveva effettivamente raggiunto un’intensità senza precedenti, provocando divisioni, conflitti e ondate di odio quali Israele non aveva mai conosciuto all’interno del mondo ebraico, mettendo in bilico la stessa permanenza in carica del governo. E, cosa rilevantissima al fine del successo del progetto strategico di Sinwar/Hamas, tale divisione aveva raggiunto la struttura militare, l’esercito, i servizi segreti e l’intero apparato combattente, difensivo e aggressivo, di Israele, che appariva altrettanto lacerato e diviso.Quello che però Sinwar non aveva calcolato, prevedendo anzi l’esatto contrario di quanto poi successo, ha riguardato quale sarebbe stato l’effetto del pogrom, terrificante e barbaricamente eseguito contro le comunità prossime alla Striscia, sulla popolazione israeliana tutta, scopertasi improvvisamente indifesa e vulnerabile, e in generale sul mondo politico e militare del paese. In un paese “normale”, con una popolazione “normale” e con un leader “normale”, molto probabilmente si sarebbero avverate le previsioni di Sinwar, e cioè che un attacco così sconvolgente – in grado di mettere a nudo la fragilità del sistema di contenimento dei settori dell’estremismo islamista che considerano la morte in guerra contro gli “infedeli” evento glorioso – avrebbe accentuato a tal punto le divisioni interne da farle arrivare fino alla rottura sociale più ampia e alla paralisi degli apparati politici e militari. Ma la società israeliana ebraica non è “normale”, ossia riconducibile alla norma di una qualsiasi società occidentale che non abbia dovuto subire secoli, anzi millenni, di sopraffazione, pogrom, persecuzioni costanti, stragi innumerevoli e sottomissioni, fino al mostruoso Olocausto nazista. L’immagine dell’ebreo agnello sacrificale, incapace di reagire e vittima di qualsivoglia potere costituito, è stata sostituita in pochi decenni da quella dell’ebreo acerrimo e spietato combattente, con un apparato militare, guerresco ma anche investigativo, di primissimo livello, immerso in un paese che, fin dalla nascita, si sente assediato e che, in particolari circostanze, accetta che si faccia di tutto, atrocità comprese, per la sopravvivenza di Israele.Cosicché, il 7 ottobre ha provocato l’esatto contrario di quanto previsto dalla strategia di Sinwar: il progressivo compattamento della società intorno all’unico leader disposto a tutto, nessun orrore escluso, pur di schiacciare Hamas (e a seguire, Hezbollah, fino allo scontro diretto con l’Iran, se necessario). Mettendo in conto pure una marea di vittime civili, adulti e bambini indifferentemente – che Hamas riteneva di poter usare come scudi umani che la proteggessero dallo sterminio programmato dei loro miliziani – giorno dopo giorno, un leader screditato, corrotto, ultrautoritario e apertamente osteggiato dalle componenti passabilmente democratiche e laiche (che pur esistono in Israele e che per più di un anno avevano messo in minoranza nella società il capo del governo, arrivando a un passo dal provocarne la destituzione), ha finito per prevalere e per tacitare ogni opposizione. Poi, la catena di uccisioni “eccellenti” di Haniyeh, di Nasrallah e dello steso Sinwar, in condizioni che pareggiano le più fervide fantasie di uno sceneggiatore cinematografico, ha non solo riabilitato la clamorosa défaillance dei servizi segreti del 7 ottobre, ma ha finito per convincere anche buona parte degli oppositori di Netanyahu che la strategia di risposta all’orrore del 7 ottobre con un terrore moltiplicato per dieci o per venti, che non si ferma di fronte ad alcuna “convenzione internazionale”, è quanto di più pagante, almeno nel qui ed ora, per la difesa di Israele. Insomma, l’esatto opposto di quanto Sinwar pensava di ottenere.
I fallaci scudi difensivi della protesta internazionale e degli ostaggi israeliani
È indiscutibile che almeno un risultato acclarato la strategia di Sinwar lo abbia raggiunto, quello che poi era uno dei principali obiettivi del massacro del 7 ottobre: creare a livello internazionale un’ondata di ostilità nei confronti del governo Netanyahu e più in generale contro Israele, e al contempo una forte corrente di simpatia e di sostegno ai palestinesi e nei confronti di Hamas. Solo che, anche da questo punto di vista, tale strategia, pur potente sulla carta, si è accompagnata con clamorosi errori di valutazione che ne hanno provocato il fallimento generale. Perché tale ondata di avversione nei confronti di Israele e di simpatia per palestinesi e Hamas non ha avuto la minima influenza sul comportamento del governo Netanyahu e sull’andamento della guerra a Gaza: anzi, per certi versi ha incattivito ulteriormente l’azione di un governo e di un apparato militare che di spietatezza e di assenza di scrupoli avevano già dato abbondanti dimostrazioni. Via via che la campagna d’odio verso Israele montava a livello internazionale, ha avuto facile gioco il leader israeliano a sostenere che essa non fosse solo il prodotto della solidarietà con i palestinesi ma che includesse pure un più generale moto antiebraico (il termine “antisemitismo” non è corretto, perché l’origine semitica è comune anche ad una parte significativa delle popolazioni arabe del Medio Oriente), elencando una serie di azioni effettivamente antigiudaiche messe in opera a livello internazionale soprattutto da parte di forze di estrema destra, nostalgiche della plurisecolare “caccia all’ebreo”. Insomma, Netanyahu è riuscito a neutralizzare, almeno all’interno, l’effetto del generale moto di solidarietà con i palestinesi, trasmutandolo in una riedizione dell’antigiudaismo; e, facendo leva sull’effetto vittimistico di chi si sente perseguitato dal mondo intero, ha ulteriormente compattato il fronte interno e ha potuto fregarsene alla grande non solo degli interventi dell’Onu, che ha anzi sbeffeggiato apertamente e platealmente, ma anche delle pressioni “moderatrici” della presidenza Usa, già azzoppata di suo dopo il pensionamento di Biden e resa ancor più debole dall’incalzare di Trump, schierato con Netanyahu e in cerca del voto ebraico a novembre.
Anche l’altra arma sulla quale molto contava Sinwar, e cioè lo “scudo” protettivo offertogli in linea di principio dagli ostaggi israeliani, si è rivelata spuntata e si è sommata all’elenco degli altri irreparabili errori di valutazione fin qui elencati. Mano a mano che passava il tempo, il numero degli ostaggi si è ridotto e le condizioni dei pochi/e liberati/e si sono rivelate, come prevedibile, disastrose, lasciando intendere che chi è rimasto nei tunnel di Gaza, qualora fosse liberato lo sarebbe comunque in drammatiche condizioni fisiche e mentali pressoché irreversibili. Cosicché, via via che alla distruzione di gran parte della struttura militare di Hamas, si sono aggiunti i successi delle uccisioni “eccellenti”, l’attenzione di gran parte della popolazione israeliana verso la sorte degli ostaggi è andata affievolendosi fino a ridursi quasi solo alla pressione, sempre più disperata e isolata, dei parenti degli ostaggi. L’estrema destra israeliana ha avuto buon gioco, dunque, nel sottolineare come, in definitiva, gli ostaggi non potevano avere un trattamento migliore da parte del governo rispetto alle centinata di giovani israeliani/e uccisi in combattimento a Gaza dall’ottobre 2023, e andavano in qualche modo considerati/e anche loro vittime di guerra. E ancor più semplice è stato per l’estremismo messianico di significative componenti della società israeliana rinfacciare a Netanyahu lo scambio – divenuto negli ultimi mesi impopolarissimo (mentre allora venne salutato positivamente dalla grande maggioranza degli israeliani), promosso nel 2011 dal leader israeliano in cerca di recupero di popolarità – tra mille detenuti palestinesi e un solo israeliano, il soldato Gilad Shalit, tenuto prigioniero a Gaza: mille detenuti tra i quali c’era il futuro leader supremo di Hamas, Yahya Sinwar, oltre a vari altri combattenti dell’organizzazione che, una volta scarcerati, hanno ripreso l’attività bellica, e molti dei quali hanno partecipato al massacro del 7 ottobre, sono stati braccati per mesi e buona parte poi rimasta vittima delle uccisioni mirate dell’esercito e dei servizi segreti israeliani.
Conseguenze e prospettive
Resta da valutare quali saranno le conseguenze dell’uccisione di Sinwar non solo sulla guerra Israele/Palestina ma anche sui più generali equilibri della conflittualità bellica nell’area mediorientale. Un titolo di un quotidiano, dopo la morte del leader di Hamas, fotografava in questo modo il suo ruolo: “Hamas era un’orchestra, Sinwar l’ha trasformato in uno show da solista”. In effetti, in una dozzina di anni Sinwar ha guadagnato una centralità inamovibile e senza precedenti per Hamas, a mio parere persino superiore a quella di Nasrallah per Hezbollah o Khamenei per il regime iraniano. E non tanto e non soprattutto per il carisma di una personalità, intransigente quanto spietata, in primissima fila nel confronto bellico e nell’odio sistematico per Israele, senza mai abbandonare il fronte di Gaza, persino feroce (l’epiteto brutale di “macellaio di Khan Younis” pare che non gli sia stato attribuito dagli israeliani ma dagli stessi palestinesi, in ragione della sua pratica di torturare e uccidere con le proprie mani presunti traditori e/o collaboratori di Israele): quanto piuttosto per una lunga serie di intuizioni innovative e strategiche che, nel giro di pochi anni, hanno elevato il livello di influenza di Hamas sull’intera area. Ancor prima di uscire nel 2011 dalle carceri israeliane, Sinwar era già riuscito a trovare il canale giusto per avviare, lui rappresentante di un’organizzazione sunnita, un imprevedibile rapporto di alleanza organica con l’Iran, paese dominante del mondo sciita. È stato l’inventore del progetto di educazione/indottrinamento dei giovanissimi scolari, per i quali inventò i campi-studio, per educarli all’ostilità e odio nei confronti di Israele; e più in generale, il costruttore di un tentativo, in buona parte riuscito, di identificazione tra Hamas e la popolazione di Gaza per connettere qualsiasi cittadino/a con l’organizzazione combattente, grazie alla decisione di occuparsi non solo delle questioni militari e politiche, ma anche dell’assistenza sociale, della formazione ideologica e culturale degli abitanti della Striscia, al fine di legarli strettamente e irreversibilmente ad Hamas, estendendo a livelli senza precedenti il reclutamento e pure l’addestramento militare, coinvolgendo la gran parte dei cittadini nel conflitto con Israele (o nelle azioni belliche o come vittime). E infine, è stato l’inventore del progetto strategico incentrato sulla strage del 7 ottobre che ha, di punto in bianco, cambiato il ruolo di Hamas non solo in Palestina ma sullo scacchiere mondiale. Ha scritto Michael Milshtein, uno dei maggiori esperti israeliani sul mondo palestinese: “Sinwar è un radicale, un estremista, è lontano da ogni compromesso, si sente un Saladino. Ma questo non vuole dire che non ragioni per obiettivi realistici: sapeva bene che il 7 ottobre non avrebbe distrutto Israele. Infatti, non ambiva a questo, voleva distruggere la fiducia dello Stato ebraico in se stesso, voleva rompere la società israeliana e il suo patto interno, porre fine al dialogo sulla coesistenza”. Il che è potuto avvenire soprattutto perché Sinwar – e questo forse è stato il suo maggiore successo – era riuscito a far credere a Netanyahu e alla leadership politica e militare di Israele che Hamas avesse smesso di essere un pericolo mortale, fornendo una paradossale immagine di un’organizzazione oramai intenzionata ad abbandonare i progetti di distruzione di Israele. “Quando parliamo di fallimento dell’intelligence – è ancora Milshtein – parliamo del fallimento di un’opinione basata sulla falsa immagine che Sinwar era riuscito a creare, che ha influenzato tutto il modo in cui Israele prendeva le decisioni politiche e militari… Era stato scambiato per uno con cui negoziare. Era stato abile nel creare questa immagine di leader attento alla politica”.
Tuttavia, malgrado questa inusitata centralità e indispensabilità in un’organizzazione che aveva per anni funzionato come “un’orchestra”, pensare che l’uccisione di Sinwar sia sufficiente a disgregare Hamas, fino alla sparizione o comunque alla massima emarginazione, non mi pare realistico. Personalmente, da anni ritengo che l’unica speranza di un futuro positivo per i palestinesi necessiti della fine dell’egemonia di Hamas sui palestinesi e di Netanyahu e dell’estrema destra su Israele. Ma le valutazioni, che si stanno diffondendo a livello internazionale tra commentatori e addetti ai lavori, sugli effetti dell’uccisione di Sinwar e della drastica riduzione degli effettivi militari di Hamas (tra le oltre 40 mila vittime del massacro di Gaza, osservatori vari calcolano che almeno la metà siano combattenti di Hamas che dunque avrebbe perso circa il 60% dei propri miliziani sul campo), in base a cui si sarebbero create le condizioni per l’emarginazione delle ali più estreme dei due schieramenti, mi sembrano esageratamente ottimiste (per chi la pensa come il sottoscritto, e che cioè tale emarginazione bilaterale sarebbe fondamentale per trovare una via di uscita dal conflitto) e comunque “consolatorie” e illusorie, almeno allo stato delle cose attuali. Se è vero che la figura di Sinwar non sembra riproducibile e la sua morte persino più grave per Hamas di quanto sia stata quella di Nasrallah per Hezbollah e di quanto sarebbe persino quella di Khamenei per la dittatura degli ayatollah iraniani, la massima centralizzazione (che poi voleva anche essere l’affermazione della centralità di chi era restato a Gaza a combattere in prima linea rispetto ai leader rifugiati in assai più confortevoli collocazioni in Qatar o in Turchia) imposta da Sinwar è stata l’eccezione non la regola gestionale di Hamas, costruita al contrario per non dare al nemico precisi punti di riferimento, e dunque con vari centri di comando, maggiori o minori. Esistono ancora vari leader di medio livello che operano relativamente al sicuro, ben lontani da Gaza e in generale ben protetti (le uccisioni di Ismail Haniyeh a Teheran e di Saleh Al Arouri a Beirut non sono la regola), ove raccolgono la gran parte dei finanziamenti e degli armamenti, oltre a mantenere i contatti con sponsor e sostenitori, statali e non. Queste basi esterne hanno consentito ad Hamas di vivere e prosperare a Gaza e, per quel che si riesce a capire da varie fonti analitiche internazionali, sono ancora per lo più operanti: e in quanto alla parte combattente in loco, se è vero che le perdite sono state pesantissime, è pure vero che non si intravede chi possa credibilmente sostituire l’egemonia di Hamas sul campo; per cui non pare impossibile la ricostituzione, almeno parziale, pure della struttura interna, una volta calati di intensità bombardamenti e massacri.
D’altra parte, mi sembra ancor più irrealistica, almeno al momento, l’emarginazione di Netanyahu e dell’estrema destra al governo in Israele. Ho l’impressione che gran parte delle valutazioni sugli sviluppi del conflitto tra israeliani e palestinesi avvengano senza tener conto del fatto fondamentale delle ultime settimane: e cioè che il conflitto è andato ben oltre i confini di Israele e Palestina e si è esteso, parrebbe irreversibilmente, non solo al Libano, ma minacci anche la Siria e sia sul punto di raggiungere quello che ne sarebbe il punto focale, e il più foriero di immani rischi distruttivi persino oltre il Medio Oriente: e cioè il confronto diretto tra i due nemici-chiave, Israele e Iran, prospettiva che l’eventuale vittoria di Trump nelle elezioni di novembre potrebbe rendere ancora più esplosiva a breve. In un quadro geopolitico del genere, troverei davvero sorprendente che colui il quale, recupero degli ostaggi a parte, ha ottenuto sul campo (con le tre uccisioni “eccellenti” ancor più che con i massacri a Gaza e con la distruzione di gran parte dell’apparato combattente di Hamas) buona parte dei risultati che si era prefisso, venisse accantonato e sostituito. Tanto più che, tornando all’epicentro della guerra dell’ultimo anno, resta esplosiva e irrisolta la questione di chi e come gestirà Gaza e la Cisgiordania. Fin da quando ho iniziato a partecipare attivamente (oramai ben più di mezzo secolo fa) alle mobilitazioni a fianco e in sostegno della lotta dei palestinesi, ho sempre scritto e detto che la soluzione dei “due popoli e due Stati” mi pareva fragile e assai difficilmente realizzabile positivamente, per lo squilibrio di forze tra le due eventuali entità: e che, seppur apparentemente idealistica e futuribile, almeno in nuce la prospettiva migliore sarebbe stata quella dell’evoluzione di Israele verso uno Stato laico, multiculturale, aperto a tutte le componenti etniche e religiose (non solo quella ebraica e quella palestinese, ma anche la arabo/islamica che, oltretutto, al momento conta almeno tanti cittadini/e quanto la componente palestinese) e dotato di istituzioni democratiche inclusive. Ovviamente, al momento un’evoluzione del genere appare fantascientifica: ma anche quella dei due Stati, federati o meno, non sembra davvero più realistica e attuabile. Cosicché, qui ed ora non si intravede alcuna soluzione che possa garantire, non solo una pacificazione militare, ma anche il riconoscimento dei diritti fondamentali del popolo palestinese. Insomma, l’uccisione di Sinwar mi pare non l’episodio che determinerà l’esaurirsi del conflitto, ma solo una tappa, seppur di grande rilievo, una “stazione”, cruciale ma non decisiva e conclusiva, di un calvario bellico non destinato ad esaurirsi ma che, anzi, minaccia di raggiungere vette di ancor maggior tragicità ed esplosività.
Piero Bernocchi