di Michele Nobile

  • 1. L’aggressione all’Ucraina: quali sono i veri obiettivi di guerra di Putin?
  • 2. Il nesso tra politica estera e interna: Putin, dalla collaborazione con Bush alla Russia come «alternativa di civiltà» all’Occidente
  • 3. La nuova Guerra fredda come strumento di controllo interno alle sfere d’influenza

1. L’aggressione all’Ucraina: quali sono i veri obiettivi di guerra di Putin?

Putin come Aleksandr Nevskij? Passerà alla storia per aver fermato i crociati alle porte della Santa Russia? Oppure i russi giungeranno alla conclusione che l’«operazione speciale» è una banditesca aggressione ai fratelli ucraini? Con un passo orwelliano, a proposito dell’Ucraina in Russia ora è vietato usare termini come invasione e guerra. Il 4 marzo una nuova legge ha emendato il Codice penale, punendo con la reclusione fino a tre anni chi discredita le forze armate o ne richiede il richiamo da altro Stato, pena che può salire anche a 15 anni in caso di non meglio specificate «gravi conseguenze». Sui mezzi d’informazione e sui social network è caduto l’ennesimo colpo di mannaia. Aleksej Naval’nyi, il più noto oppositore di Putin, subì nell’agosto 2020 un tentativo di avvelenamento che ricorda il precedente di Viktor Juščenko, candidato a Presidente dell’Ucraina nel 2004 contro il rappresentante dell’oligarchia industrial-finanziaria del Donbas e di Putin, Viktor Janukovič. Appena tornato dalle cure in Germania, nel gennaio 2021 Naval’nyi fu arrestato e condannato per direttissima a quasi tre anni di detenzione; il 22 marzo 2022 ha subito un’altra condanna a nove anni per peculato. L’arresto del politico russo fu uno scandalo internazionale ma è solo la punta dell’iceberg di una raffica di leggi che tra il 2020 e il 2021 hanno ulteriormente ristretto i margini di libertà politica per l’opposizione. Ad esempio, nel giugno 2021 non solo è stato vietato alle organizzazioni arbitrariamente classificate «estremiste» di partecipare alle elezioni d’ogni tipo, così impedendo al partito di Naval’nyi di concorrere alle elezioni di settembre per la Duma, ma dirigenti e semplici membri o simpatizzanti di tali organizzazioni «estremiste» sono stati privati del diritto di voto, rispettivamente per cinque e tre anni, sulla base delle loro posizioni politiche negli anni precedenti; ai cittadini russi è stato proibito di partecipare a organizzazioni «indesiderabili», sia in Russia che all’estero. Nel complesso le nuove norme hanno ampliato a dismisura la possibilità di etichettare in modo discrezionale individui e organizzazioni come «agenti stranieri», «estremisti» e «indesiderabili», aggravando le sanzioni pecuniarie e detentive, sottoponendo organizzazioni d’ogni tipo a più severi controlli amministrativi e costringendo all’autocensura quel che rimane di organi d’informazione indipendenti. Tra i numerosi individui e organizzazioni vittime di queste normative c’è anche Memorial, storica fondazione nata nel 1989 per documentare i crimini dello stalinismo e per difendere i diritti umani in Russia. Un esempio da cui s’intende bene cosa oggi s’intenda in Russia per «estremismo». C’è chi protesta contro la guerra scatenata da Putin, ma a metà marzo gli arresti erano stimati a quasi 15.000, un numero notevole che forse è più il risultato di più intensa e capillare repressione che delle dimensioni delle proteste, spesso deliberatamente organizzate in modo da esporre all’arresto solo poche persone. Mettendo insieme repressione poliziesca, censura, scioglimento di organizzazioni, fattispecie di reato vagamente definite, discrezionalità giudiziaria, frodi elettorali e rimozione del vincolo di non più di due mandati presidenziali, si può concludere che la Russia è oramai molto vicina al passo che separa un regime autoritario dalla dittatura aperta. L’ulteriore involuzione repressiva del regime e il controllo totale delle comunicazioni e della educazione sono in stretta relazione con la guerra in Ucraina. Non come conseguenza ma come causa della stessa. In altre parole: lo scopo primario di questa guerra e il momento in cui essa è stata messa in atto si spiegano con obiettivi diversi da quelli dichiarati da Putin. Che sono:

 «lo scopo di questa operazione è proteggere le persone che, ormai da otto anni, stanno affrontando l’umiliazione e il genocidio perpetrati dal regime di Kiev. A tal fine, cercheremo di smilitarizzare e denazificare l’Ucraina, oltre a portare a processo coloro che hanno perpetrato numerosi crimini sanguinosi contro i civili, compresi i cittadini della Federazione Russa»;

«garantire la sicurezza della Russia», in quanto «una presenza militare nei territori confinanti con la Russia, se gli permettiamo di andare avanti, rimarrà per decenni a venire o forse per sempre, creando una minaccia sempre crescente totalmente inaccettabile per la Russia»1.

         Sorvolo sull’ipocrisia del primo punto: basti ricordare il macello fatto dalle forze armate russe ai danni del popolo della Cecenia, con cui Putin riuscì a sottrarsi all’immagine di grigio «signor nessuno», la ragione per cui era stato nominato primo ministro dal presidente Yeltsin; e ricordo la strage di civili e le devastazioni della guerra in corso. Per ora sorvolo anche sul fatto che, in cambio della distruzione delle non poche testate nucleari tattiche e strategiche in possesso dell’Ucraina all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, la Russia si era impegnata a rispettare la sovranità e l’indipendenza dell’Ucraina2. Per scoprire quali siano i veri obiettivi di guerra di Putin occorre innanzitutto problematizzare il secondo argomento della narrazione con cui egli giustifica l’«operazione speciale»: quello per cui l’eventuale ingresso dell’Ucraina nella NATO e/o nell’Unione Europea costituirebbe una minaccia alla «sicurezza nazionale» della Federazione Russa e che quindi occorra smilitarizzarla e «denazificarla» con la forza. L’argomento geopolitico rivolto contro il cosiddetto Occidente è strumentale. Le finalità della guerra e il momento in cui è stata scatenata si spiegano invece:

a) con l’esigenza di Putin di ulteriormente sviluppare il nazionalismo imperiale grande-russo allo scopo di consolidare il regime interno alla Russia e il suo capitalismo oligarchico, che nell’ultimo decennio ha visto perdere consenso, come si è visto nei risultati delle elezioni e nelle proteste per i brogli elettorali.

b) Con l’intento di consolidare la sfera d’influenza russa nell’Unione Eurasiatica. Questo è un progetto che comprende le Repubbliche nate dalla fine dell’Unione Sovietica ma che richiama i temi dell’Impero zarista e della centralità della nazionalità russa.

La guerra serve dunque a Putin per delimitare due confini. Innanzitutto, all’interno della stessa Russia, tra i sostenitori del regime e gli oppositori di destra e di sinistra, che sono definiti «agenti stranieri», corpo estraneo alla cultura e alla società russa e quindi perseguibili a piacere. Sulla scena mondiale si tratta di affermare l’intangibilità politica d’una sfera d’influenza eurasiatica del capitalismo russo, da proteggere dall’influenza occidentale e dai suoi «agenti» interni. In futuro il problema potrebbe porsi però anche nei confronti del più dinamico capitalismo cinese, che in Asia centrale e in Siberia ha anch’esso interessi e forza d’attrazione.

2. Il nesso tra politica estera e interna: Putin dalla collaborazione con Bush alla Russia come «alternativa di civiltà» all’Occidente

 Per provare la validità delle precedenti tesi occorre un’analisi parallela delle mutevoli relazioni tra la Federazione Russa e le altre potenze e degli sviluppi della politica interna della Russia come entità politica multinazionale e potenza regionale. Quel che collega politica estera e politica interna è l’emergere, all’inizio del secondo decennio del secolo, della Russia come «alternativa di civiltà» all’Occidente e della costruzione dall’alto di una identità grande-russa, ideologicamente reazionaria e politicamente repressiva, intesa come centrale sia all’interno della multinazionale Federazione Russa sia nella regione eurasiatica. Un quadro scheletrico, ma comunque significativo, delle variazioni dell’umore delle relazioni tra le grandi potenze dopo la fine dell’Unione Sovietica emerge dalla consultazione dell’elenco dei veti opposti dai membri permanenti nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, l’organo oligarchico dell’organizzazione. I veti si distribuiscono così: dal gennaio 1990 al febbraio 1999: Stati Uniti 5 (Territori arabi occupati), Russia 2 (Cipro, Bosnia), Cina 2 (America centrale, Macedonia); da marzo 2001 a giugno 2009: Stati Uniti 10 (sul Medio Oriente e la questione palestinese), Russia 2 (Cipro e Georgia), Cina e Russia 2 (Myanmar, Zimbabwe); da febbraio 2011 a febbraio 2022: Stati Uniti 4 (sul Medio Oriente e la questione palestinese), Russia 12 (Medio Oriente, Ucraina), Cina e Russia 11 (sul Medio Oriente e Siria).È palese che, nonostante le polemiche, ancora nel primo decennio del nuovo secolo Cina e Russia fossero ben disposte a collaborare con gli Stati Uniti e che non facessero blocco. All’inizio del secolo Putin convergeva con l’Occidente nella lotta contro il terrorismo, che per lui era innanzitutto la guerra contro la secessione della Cecenia.

Nel 2003-05 esplosero le proteste popolari contro i governi filorussi di diversi Stati post-sovietici, le «rivoluzioni colorate» che riuscirono in Georgia, Ucraina e Kirghizistan; dimostrarono l’instabilità di questi regimi, ma non ne rivoluzionarono affatto la natura oligarchica. In Ucraina la «rivoluzione arancione» si risolse in un compromesso: Janukovyč, il rappresentante pro-Russia dell’oligarchia del Donbas, fu primo ministro nel 2002-2005 e da agosto 2006 al 18 dicembre 2007, fu poi eletto Presidente nel 2010 fino alla sua fuga in seguito alla mobilitazione popolare nel 2014. Nel 2004 entrarono nella Nato Estonia, Lettonia, Lituania, Bulgaria, Romania, Slovacchia; nello stesso anno i Paesi Baltici e la Slovacchia furono ammessi nell’Unione Europea e tre anni dopo anche Bulgaria e Romania. Da notarsi che i Paesi Baltici erano stati parte dell’Unione Sovietica e, come l’Ucraina, confinano con la Federazione Russa. In quel momento l’economia russa si stava ancora riprendendo dal tracollo degli anni Novanta, non era ancora stato lanciato il programma di modernizzazione delle forze armate (che avvenne dopo i problemi evidenziatisi durante l’invasione della Georgia nel 2008) e Putin aspirava a collaborare con l’amministrazione Bush e ad integrare la Russia nell’Occidente, col rango di super potenza con una propria legittima sfera d’influenza. Comunque, dichiarò che non avrebbe tollerato senza conseguenze l’entrata nella NATO dell’Ucraina e della Georgia. È interessante perché sembra che dal punto di vista russo entri in gioco qualcosa di più della mera vicinanza fisica e del conto dei membri della NATO e della UE. Si tratta anche della possibilità di considerare certi Paesi come parti integranti del «mondo russo» e artificialmente separati dalla Russia, quindi «naturalmente» nella sfera d’influenza russa, secondo una invalicabile «linea rossa» stabilita per tradizione imperiale e, ancor più, per l’immaginario culturale del nazionalismo grande-russo.

Infatti, si noti la differenza tra il 2004 – con l’ingresso nella NATO dei Paesi baltici – e quanto accadde dopo la Dichiarazione di Bucarest del summit della NATO nell’aprile 2008, secondo cui in un futuro indeterminato Georgia e Ucraina sarebbero potute entrate nell’organizzazione. La Dichiarazione fu il risultato di un compromesso tra l’amministrazione Bush che (con Polonia e Repubblica Ceca) premeva per avviare concretamente l’ingresso nella NATO di Georgia e Ucraina, da una parte, e Francia e Germania dall’altra. Il documento del summit era un fatto politico importante ma rimaneva una dichiarazione d’intenti di scarso rilievo pratico: la contrarietà francese e tedesca bloccò la messa in atto del processo formale che porta all’ammissione nell’organizzazione, il Membership action plan. Poiché il MAP richiede l’impegno a risolvere pacificamente le controversie etniche e territoriali, per i Paesi che hanno importanti dispute di confine e conflitti interni – che in questo caso coinvolgono, nientedimeno, la potenza nucleare Russia – è pressoché impossibile l’ingresso nella NATO e anche nell’Unione Europea. In Georgia, ad esempio, esisteva ed esiste il problema delle Repubbliche secessioniste dell’Ossezia del Sud e dell’Abcasia (che non sono etnicamente russe). Quattro mesi dopo la Dichiarazione di Bucarest, in agosto la Russia invase la Georgia, con la motivazione di proteggere la popolazione delle Repubbliche secessioniste, mossa che pare essere anche risposta alla dichiarazione d’indipendenza dalla Serbia del Kosovo nel febbraio dello stesso anno. Questa può essere anche una delle ragioni per cui Putin sostenne la ribellione degli attivisti filo-russi del Donbas, dando inizio alla «guerra ibrida» in Ucraina e poi riconoscendo le Repubbliche secessioniste.

L’invasione della Georgia nel 2008 pare quindi il miglior precedente dell’invasione dell’Ucraina nel 2022, ma non è così. Nel corso del primo decennio del secolo si accumularono motivi di contrasto tra Federazione Russa, Stati Uniti e NATO ma, nonostante tutto, il contesto complessivo non era lo stesso degli anni a venire. Applicando al XXI secolo categorie messe a punto per periodizzare la Guerra fredda, si potrebbe dire che in questo primo decennio le relazioni tra Stati Uniti e Russia furono una modalità di «antagonismo oscillatorio», d’oscillazione tra distensione e conflitto, ma decisamente più moderata di quella tra Unione Sovietica e Stati Uniti nel 1953-1969, non fosse altro perché mancavano – e ancora mancano – grandi lotte di liberazione sociale e nazionale che potessero dirsi anticapitalistiche3. Ancora durante le sue prime due presidenze e per gran parte di quella del suo surrogato Medvedev, Putin puntava a integrare la Russia come autorevole potenza nell’Occidente, non a porla come un’«alternativa di civiltà» ad esso. E infatti, gran parte dei partiti d’opposizione attaccavano Putin da posizioni nazionaliste e ultra-nazionaliste, accusandolo di non curare a sufficienza gli interessi dei russi all’interno e all’esterno della Federazione. Con Obama iniziò un reset delle relazioni tra Stati Uniti e Russia, che nel 2010 portò al nuovo trattato Start per la riduzione delle testate nucleari; tra le due potenze continuò la collaborazione a proposito dell’Iran, della lotta al terrorismo, della Corea del Nord; nel 2012 la Russia entrò nell’ Organizzazione mondiale del commercio. Putin poteva essere soddisfatto del successo di Janukovyč, eletto Presidente nel febbraio 2010. E durante la crisi del 2009 l’economia russa ebbe il crollo più grave nel Gruppo dei 20 Paesi industrializzati, per cui Putin aveva disperato bisogno di buoni rapporti con il capitale occidentale. Eppure si vede chiaramente che il quadro dei veti di Russia e Cina cambiò drammaticamente dal 2011. Per la Cina questo corrisponde al pivot verso l’Asia dell’amministrazione Obama finalizzato a contenerne le ambizioni geopolitiche, obiettivo che richiedeva rapporti più distesi con la Russia. Per quanto riguarda il regime russo, i fatti veramente nuovi furono le «primavere arabe» nel 2010-2011 – con l’intervento occidentale in Libia e l’appoggio ai ribelli in Siria, ma successivo all’esplosione spontanea delle rivolte popolari – e le elezioni legislative del 2011 in Russia, contraddistinte da un consistente calo del consenso per il partito di Putin (Russia Unita) e da (relativamente) grandi manifestazioni di protesta contro le frodi elettorali, che unirono tutta l’opposizione, dai democratici ai nazionalisti nostalgici dell’Impero. Calcolata sul totale degli aventi diritto al voto (invece che sui voti validi), la quota di Russia Unita è scesa dal 40% nelle legislative del 2007 al 29% nel 2011 e al 25% del 2016 e del 2021, con una quota di astensioni dal voto intorno al 50%; per le elezioni presidenziali i risultati per Putin, calcolati allo stesso modo, sono: 2000: 40%; 2004:50%; 2008: 48% (Medvedev); 2012: 41%; 2018: 51%. Nel referendum del giugno-luglio 2020 i voti favorevoli agli emendamenti costituzionali che permettono a Putin e Medvedev di ottenere altri mandati presidenziali sono stati il 53% (il 78% sui voti validi).

È la costellazione di eventi internazionali e interni all’inizio del secondo decennio del secolo che formò il quadro della svolta della politica estera e interna di Putin. Sulla scena pubblica internazionale la diplomazia e la propaganda russa non presentarono le «primavere arabe» per quel che erano, rivolte popolari contro regimi corrotti e dispotici, che avevano colto di sorpresa tutte le potenze, ma come l’ennesimo caso di interferenza occidentale nella politica interna di Stati indipendenti. Esse riproponevano l’incubo della possibile sollevazione popolare anche nella sfera d’influenza russa e nella stessa Federazione. Durante il secondo mandato presidenziale di Putin le proteste interne più importanti furono quelle contro la privatizzazione e la monetizzazione dei servizi sociali del 2005; i pensionati hanno manifestato spesso, e le mobilitazioni popolari del 2018 riuscirono a ridurre i danni della legge che ha innalzato l’età pensionabile. È però importante notare che alle manifestazioni contro i brogli elettorali nelle città maggiori hanno partecipato categorie di professionisti e lavoratori attivi e che la variegata opposizione al regime è per lo più caratterizzata da posizioni nazionaliste ancor più forti di quelle di Putin nei suoi primi due mandati – è il caso anche di Naval’nyi e del Partito liberal-democratico di Russia di Vladimir Žirinovskij, la cui denominazione di liberale e democratico è assai discutibile – e decisamente xenofobe. Alcune di queste organizzazioni, fascistoidi o nella tradizione dei centoneri del tardo Impero russo, hanno organizzato o partecipato a sommosse violente contro gli immigrati dal Caucaso e dall’Asia, riprendendo la logica dei pogrom antisemiti. Quindi, è anche per togliere spazio all’opposizione che all’inizio del secondo decennio del secolo Putin operò una svolta decisamente conservatrice, opponendo i valori della tradizione patriarcale e omofoba alla degenerazione morale dell’Occidente e accentuando la centralità della cultura e della storia statuale e imperiale russa nella definizione della cittadinanza di una Federazione che è però multietnica. La cacciata di Janukovyč nel 2014 fu un momento critico anche per questa ragione: con il consenso al regime già in declino, Putin doveva reagire con forza per togliere all’opposizione la carta del nazionalismo. L’annessione della Crimea risolse brillantemente questo problema e anche quello della strategica base navale di Sebastopoli, centro della Flotta del Mar nero. Da allora il regime ha ulteriormente accentuato la retorica del nazionalismo grande-russo.

L’invasione del 2022 può dunque essere interpretata come l’occasione per forgiare col fuoco e col ferro la figura monumentale di Putin quale «padre della Patria.Nello stesso tempo il governo russo lanciò un nuovo progetto politico, economico e ideologico: l’Unione Eurasiatica nell’ottobre 2011, invitando anche l’Ucraina. Questo è nello stesso tempo e prima di tutto il tentativo di costruire una nuova identità nazionale russa per consolidare e rilanciare il regime. E questa motivazione interna ha gravi implicazioni internazionali. È la ragione per cui le relazioni internazionali della Russia con il cosiddetto Occidente si sono gradualmente spostate da una situazione di «antagonismo oscillatorio» verso una nuova Guerra fredda.

3. La nuova Guerra fredda come strumento di controllo interno alle sfere d’influenza

 Mary Kaldor scrisse che la Guerra fredda non era stata il prodotto di una qualche congenita forza espansionistica del totalitarismo sovietico, come sostenevano i «guerrieri della Guerra fredda» negli Stati Uniti e nella NATO; e neanche il risultato di fattori interni agli Stati Uniti, come argomentavano gli studiosi «revisionisti» e, in genere, di sinistra, oppure un confronto tradizionale tra grandi potenze, come per i «postrevisionisti». Per Kaldor la Guerra fredda era una imaginary war, una guerra immaginaria che operava in modo da regolare gli affari interni delle due superpotenze e da strutturare i rapporti interstatali entro le rispettive sfere d’influenza. Quel che consegue da questa visione è la complementarietà ed il mutuo rafforzamento del sistema atlantico e di quello «socialista», l’uso strumentale di un’immaginaria minaccia esterna per reprimere le reali minacce interne alle rispettive sfere d’influenza4.Ritengo che Kaldor sottovalutasse sia la portata del conflitto potenziale tra le potenze capitalistiche e l’Unione Sovietica, che non era socialista ma neanche capitalista, sia il fatto che il «contenimento del comunismo» fu l’alibi con cui gli Stati Uniti, Francia e Regno Unito utilizzarono l’intervento militare diretto e colpi di Stato contro le lotte di liberazione nazionale e sociale. Tuttavia, è pur vero che prima della fine dell’Unione Sovietica la NATO non fece alcuna vera operazione militare; esisteva però una struttura segreta per la messa in atto di attività di guerriglia in caso d’invasione sovietica. Scoperta in Italia, dove è nota come Gladio, questa struttura è stata coinvolta nella «strategia della tensione» e nelle stragi. Quanto al Patto di Varsavia intorno all’Unione Sovietica, le sue guerre sono state tutte interne: l’invasione dell’Ungheria nel 1956 e della Cecoslovacchia nel 1968; vi si può aggiungere il colpo di Stato di Jaruzelski in Polonia contro il più grande movimento popolare europeo del secondo dopoguerra, Solidarność. Nel contesto del progetto eurasiatico di Putin va riconsiderata la tesi di Kaldor per cui la minaccia esterna è uno strumento «per reprimere le reali minacce interne alle rispettive sfere d’influenza». Ritengo che l’autentica motivazione dell’aggressione di Putin contro l’Ucraina sia esattamente questa. Una guerra reale per consolidare il regime interno e la sfera d’influenza russa in Asia centrale. Non si spiega, altrimenti, la decisione di intraprendere una sanguinosa avventura che appare del tutto irrazionale perché non può che avere effetti opposti agli obiettivi di guerra dichiarati da Putin: l’irrimediabile «perdita» dell’Ucraina, la cui identità sarà ora più che mai definita da un nazionalismo antitetico alla Russia, e il rafforzamento politico e militare della NATO.

Se è così la nuova Guerra fredda terminerà solo con la caduta di Putin oppure, dopo la prova di forza in Ucraina, con il reciproco riconoscimento delle sfere d’influenza tra Russia e Occidente, alle spalle e sulla pelle della libertà dei popoli interessati, lasciando un’Ucraina mutilata e devastata. Quale che sia l’esito finale della guerra di Putin, lo spirito di resistenza e il ricordo delle sofferenze inflitte al popolo dell’Ucraina saranno un ostacolo a questa spartizione del mondo.

Note

1       Address by the President of the Russian Federation, 24 febbraio 2022, testo sul sito del Presidente della Russia, http://en.kremlin.ru/events/president/news/67843

2       Su questo rimando a Michele Nobile, «Ucraina 8: il disarmo nucleare unilaterale dell’Ucraina. (Memorandum di Budapest del 1994), 20 marzo 2022, http://utopiarossa.blogspot.com/2022/03/ucraina-8-il-disarmo-nucleare.html

3       Riprendo la periodizzazione di Fred Halliday in The making of the second cold war, London, Verso, seconda ed. 1989. Si veda anche Michele Nobile, Imperialismo. Il volto reale della globalizzazione, Massari editore, Bolsena 2006.

4       Mary Kaldor, The imaginary war. Understanding the East-West conflict, Blackwell, Oxford e Cambridge (Mass.), 1990.  )