UN CONFRONTO TRA LA PANDEMIA “INVISIBILE” DEL ’68-’69 E QUELLA ODIERNA, E I CONSEGUENTI INSEGNAMENTI
Dall’inizio della Corona-pandemia ho trattato i tremendi problemi che ne sono scaturiti in numerosi scritti (cfr.www.pierobernocchi.it) in una parte dei quali ho introdotto vari e, spero, sufficientemente approfonditi confronti con altre pandemie, alcune molto lontane di secoli o addirittura di millenni, altre, come la “spagnola” e l’”asiatica” esplose nel Novecento. I motivi che mi hanno spinto a fare questi raffronti sono stati prevalentemente due: a) contrastare una vulgata che ha molto circolato negli ambienti di quella che amichevolmente chiamo “la compagneria” ma ancor più nell’ambientalismo climatista, animalista e “apocalittico”, secondo la quale la responsabilità di questa e di altre possibili pandemie del futuro sarebbe esclusivamente del capitalismo, della globalizzazione, della devastazione selvaggia della natura e dell’irruzione sconsiderata in habitat e tra specie animali che provocherebbero lo spillover (il salto di specie del virus); tutte cose non campate in aria come concause delle pandemie, le cui caratteristiche, però, sono riscontrabili in innumerevoli fasi storiche, sistemi sociali e ambientali pre-capitalistici e con una globalizzazione assai circoscritta; b) segnalare i comportamenti assolutamente diversi delle società mondiali e nazionale nei confronti di pandemie sviluppatesi negli ultimi 100 anni, laddove lockdown, quarantene, isolamenti e panico annesso furono inesistenti o assolutamente sottodimensionati rispetto a quanto sta accadendo nei confronti della Corona-pandemia: e malgrado in quei casi il numero dei contagi e dei morti fosse superiore a quelli odierni. A tal fine, il raffronto che ho sottolineato maggiormente è stato con l’”asiatica” del 1958-9 (dunque non confinata nella “preistoria” né legata, come la “spagnola”, ad un’altra catastrofe universale come la Prima guerra mondiale), durante la quale, malgrado oltre 100 milioni di contagi nel mondo e circa 2 milioni di morti, la vita, l’economia e i meccanismi sociali continuarono più o meno come prima.
Avendo pensato di aver scritto al proposito tutto ciò che mi sembrava utile, non sarei più tornato sull’argomento se, in maniera del tutto casuale (facevo una ricerca su come cambiano, a causa dell’arroganza imperialistica cinese, le “regole del gioco” a Hong Kong), non mi fossi imbattuto in una testimonianza relativa alla cosiddetta “epidemia influenzale di Hong Kong” del 1968-1969. Lo scritto era del dottor Antonio Panti, all’epoca “giovane medico massimalista” (così si autodefinisce) che, facendo il confronto con l’attuale pandemia, sottolineava con un certo stupore come allora non ci fosse stata in Italia “nessuna direttiva,nessuna protezione, nessuna quarantena o isolamento, non c’era la guardia medica e gli ospedali erano stracolmi perché tutti/e si ricoveravano direttamente”: e come nel contempo la vita continuasse senza alcuna cautela o modifica di comportamenti, e con i mezzi di informazioni che trattavano la faccenda come fosse del tutto secondaria. La sorpresa più grande per me non ha, in prima battuta, riguardato tanto il confronto con la reazione diversissima della società di allora rispetto ad oggi, ma il fatto che io non ricordassi affatto che nel ’68-’69 ci fosse stata una pandemia devastante che, partita da Hong Kong, aveva poi investito violentemente prima l’Asia, poi gli Stati Uniti per arrivare infine in Europa e nel resto del mondo. Diavolo, mi sono chiesto, ma come è possibile? Mi ricordo bene dell’”asiatica” che esplose quando avevo 10-11 anni e non ricordo nulla di una pandemia dilagata quando avevo 21-22 anni, ero pienamente coinvolto nei conflitti politici e sociali di quel biennio, leggevo una “mazzetta” di giornali al giorno e cercavo di seguire qualsiasi evento di rilievo a livello nazionale e internazionale?
Sulle prime, ho pensato che gli effetti numerici (i contagiati, i morti, la virulenza in genere) fossero stati ben più limitati di quanto sta accadendo ora e che per questo si fosse notata assai meno. Macché! Certo, il virus in questione (la sigla è AH3N2) era una mutazione del precedente AH2N2, quello dell’”asiatica” e dunque trovava una parte significativa della popolazione relativamente immunizzata; e per giunta nel ’69 arrivò anche un vaccino che limitò i danni. Pur tuttavia, seppure le valutazioni sono oscillanti tra una testimonianza e l’altra, si parla di più di un centinaio di milioni di contagiati/e nel mondo (più o meno come l’”asiatica”) e di un numero di morti di almeno un milione, sebbene altri studi arrivino fino al doppio. Il virus colpì duramente gli Stati Uniti con oltre centomila morti e in Europa in particolare la Francia (con oltre 30 mila morti/e), mentre in Italia si “fermò” intorno alle 20 mila vittime, anche perché il vaccino arrivò proprio in coincidenza con il picco di contagi in Europa. Insomma, nella tragica graduatoria dei disastri, l’epidemia del ’68-’69 si colloca in realtà al terzo posto dopo la “spagnola” e l’”asiatica” e, almeno per ora, prima del Corona-virus. Ma allora – e di qui l’impulso che mi ha spinto a produrre questo scritto – come è stato possibile che la stampa dell’epoca quasi non ne parlasse, che non si fosse fermato niente al punto che personalmente (e penso valga lo stesso per decine di milioni di italiani/e dell’epoca) neanche abbia conservato alcun ricordo di una tale pandemia? O come fu possibile che, con sulle spalle il fardello di centomila morti negli Stati Uniti, ad agosto ’69 a Woodstock si radunassero – nel più grande, famoso, celebrato evento musicale di sempre – circa 800 mila persone, ammassate come in un formicaio? E che in Italia (ma anche, seppur in misura minore, in altre parti d’Europa) si svolgessero senza alcuna preoccupazione, cautela, e nemmeno il più minimo timore, con scadenza settimanale una marea di cortei, assemblee e manifestazioni di massa che mobilitarono all’unisono milioni di persone?
Però, forse proprio questi esempi ci possono aiutare a trovare delle possibili risposte. I temi all’ordine del giorno in quel biennio erano davvero enormi, non li abbiamo ingigantiti noi di quella generazione: la guerra in Vietnam, i fuochi rivoluzionari o di rivolta, a carattere antimperialista e di liberazione nazionale, che si accendevano in mezzo mondo, la ribellione dei neri e dei giovani nel cuore dell’imperialismo-guida, lo sbarco sulla Luna, la rivoluzione sessuale, i più potenti movimenti studenteschi della storia in campo in gran parte del pianeta. “L’informazione confinò la pandemia nei vicoli: le strade principali erano tutte occupate. Nessuno pensò ad alcuna forma di confinamento, una pazzia totale (Clarin, quotidiano argentino)”. Proprio da queste considerazioni possiamo partire per analizzare alcuni profondi cambiamenti, intercorsi in poco più di mezzo secolo nel mondo “occidentale” e in Italia, per quel che riguarda lo zeitgeist (lo Spirito del tempo), la coscienza e l’immaginario individuali e collettivi delle due epoche e ipotizzare qualche possibile linea di tendenza sociale, filosofica, morale e politica dei prossimi tempi. Naturalmente, come per tutti i grandi cambiamenti, le ragioni, le motivazioni e gli agenti sono sempre plurimi: però, proverò a metterne in fila quelli che a me paiono i principali.
Dal trionfo del NOI a quello dell’IO
Malgrado molti denigratori professionali (quelli secondo i quali il ’68 è stato, più o meno, la fonte di tutti i mali sociali, culturali e morali odierni) degli avvenimenti del biennio ’68-’69 e dei movimenti sociali e politici dell’epoca sostengano che l’individualismo e l’egolatria odierni affondino le loro radici proprio nella cultura dei movimenti sessantottini, il sottoscritto, non fosse altro che come testimone diretto e protagonista “informato dei fatti”, può dire che proprio questo è uno dei più clamorosi falsi storici che gravano sul ’68: l’accusa di aver diffuso in tutti gli ambiti della società una sorta di individualismo senza freni, narcisista, basato sul culto di un Ego vorace di diritti ma del tutto incapace di accettare doveri; e di aver dunque determinato progressivamente nella società italiana (ma analoghe accuse circolano in vari altri paesi “occidentali”), il trionfo dell’Io sul Noi. In realtà, al ’68 e ai movimenti degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso si potrebbe fare la critica opposta: cioé quella di un eccesso di collettivismo, di una prevalenza, a volte quasi asfissiante, del Noi sull’Io, spesso e volentieri sacrificato alle esigenze collettive. Per restare anche solo all’Italia, il volontariato e la militanza corale, gratuita, continua, nel corso di un intero decennio, non hanno precedenti in tutta la storia patria: e si realizzarono grazie ad una fusione di massa, solidale anche nei momenti di forti scontri, che obbligava costantemente l’Io a subordinarsi alle volontà e alle decisioni collettive. Anche la vita privata non poteva prescindere da quella pubblica/politica di gruppo, o quantomeno non poteva contraddirla palesemente: e lo stesso leaderismo, che certamente ci fu, dovette passare al vaglio (tranne poche eccezioni) del giudizio pubblico, collettivo. Insomma, gli Ego dovettero adattarsi, all’incombenza del Noi, che solo poteva imporre di fatto, con la pressione morale e psicologica, la militanza volontaria e gratuita per un lasso di tempo che per molti/e dei militanti dell’epoca coprì per intero il cosiddetto decennio rosso (1968-1977), offrendo alla società tutta un vistoso allargamento della democrazia, consentendo al lavoro dipendente un significativo miglioramento di diritti e condizione economica, aumentando il tasso di democrazia nelle strutture pubbliche, nella scuola, nella sanità, persino nella magistratura e nella psichiatria, liberalizzando i costumi, i rapporti tra i sessi, gli stili di vita. Da questo punto di vista, il mutamento dello Zeitgeist in questo mezzo secolo è stato clamoroso, in genere nell’Occidente ma in particolare in Italia. Tra quel collettivismo sessantottino e l’attuale narcisismo di massa, caratterizzato dallo sbalorditivo dilatarsi degli Ego grazie soprattutto ai social – campo di battaglia ove milioni di individui si creano “partitini” personali, edificabili o smontabili a propria discrezione, senza alcun reale confronto collettivo, ruotanti intorno ad una moltitudine di mini-leader solipsisti e accecati dal bagliore dei like e dei followers, al punto da finire con il pensare che quella sia davvero la realtà – c’è non solo un abisso sociale, culturale e morale, ma, oserei dire, una vera e propria contrapposizione antropologica, una lontananza siderale di mondi.
Alla luce di queste considerazioni, credo si possano cominciare a spiegare i motivi delle vistose differenze di comportamento di fronte alle due pandemie. L’epidemia del ’68-’69 venne certo oscurata dai colossali avvenimenti in corso in quell’epoca ma anche perché nelle soggettività in movimento che coinvolgevano centinaia di milioni di persone nel mondo (e alcuni milioni nella sola Italia) prevaleva nettamente quel senso del Noi che faceva passare in secondo piano le sorti del singolo e la fragilità di fronte alla malattia, alla morte e in genere alle avversità della vita privata. Le ipocondrie e le paranoie fisiche ricevettero all’epoca un grande balsamo dall’impegno, collettivo, corale sul piano sociale, politico e culturale. Esattamente all’opposto è stato invece il processo sociale e culturale dello spirito del tempo in questi ultimi anni, che ha generato – con il grande contributo dei mass-media, della Rete e dei social – la convinzione diffusa e dominante che l’Io debba prevalere comunque sul Noi, che la “salvezza” non possa che essere individuale. Che, insomma, l’individuo sia un’isola, e che in quanto tale l’Ego-isola vada coltivato, difeso e esteso anche contro il restante territorio collettivo, e che l’intento principale della propria vita debba essere il continuo abbellimento e ingigantimento dell’isola, nel tentativo prometeico di trarne il maggior benessere e godimento possibile, con sullo sfondo un ideale “epicureo” (con il massimo rispetto per l’Epicuro reale, mi riferisco alla vulgata corrente sull’epicureismo). Non è dunque per nulla strano che milioni di isole epicuree siano andate in crisi totale di fronte alla brutale constatazione, indotta dal Coronavirus, dell’impotenza del singolo quando la Vita e la Natura presentano i veri conti pesanti agli individui: con la conseguente, imprescindibile necessità del Noi, del medico e dell’infermiere, dell’ospedale e dell’ambulanza, del rispetto delle regole da parte di tutti e del sacrificio necessario di coloro da cui tutti dipendiamo per mangiare, curarci, assisterci e sostenerci. Inoltre, la disgregazione progressiva negli ultimi decenni di tante imprese sociali collettive, delle identificazioni nei progetti globali che trascendano la singola persona, e la conseguente sparizione dei comportamenti da animali collettivi non potevano che consegnare, inermi e denudati di ogni certezza, milioni di persone al terrore della morte, della sofferenza individuale e della sparizione di ogni progetto personale, con il conseguente inabissamento inevitabile della miriade di isole epicuree, costruite con tanta fatica dagli innumerevoli e ipertrofici Ego “occidentali”.
In crisi il mito dell’onnipotenza umana e della scienza
Tra i miti che sono stati attribuiti al Sessantotto e al suo prolungamento nel “decennio rosso”, c’è quello della rivoluzione, ossia dell’aver creduto nell’attualità e concreta possibilità del superamento del capitalismo, in Italia e nel mondo. E’ indubbiamente vero che le leadership dei movimenti dell’epoca, in larghissima maggioranza, individuarono nel sistema di produzione capitalistico e nella mercificazione globale a fini di profitto individuale i responsabili della dissipazione della ricchezza materiale e sociale e della condanna ad un inferno terreno per tanta parte degli/delle abitanti del pianeta: e conseguentemente ne conclusero che, essendo tale ingiustizia opera di una particolare organizzazione produttiva, economica e sociale, il mondo potesse e dovesse essere cambiato superando tale organizzazione. E’ altrettanto vero che, a partire da questa opzione ideologica e politica, almeno per quel che riguardò l’Italia, il movimento – che nella sua concezione della politica e nel suo agire quotidiano nei primi mesi del ’68 sembrava proporre modelli gestionali di matrice più anarchica che socialcomunista – si ritrovò invece in breve tempo a proporre a centinaia di migliaia di giovani l’ossatura del marxismo e la lettura dei conflitti sociali del movimento comunista, secondo la quale l’antagonismo tra i gruppi sociali scaturisce dalla divisione tra chi detiene la proprietà dei mezzi di produzione e coloro i quali possono fornire per sopravvivere solo lavoro salariato, subordinato e per lo più indifeso: e che, dunque, una vera giustizia sociale e l’eguaglianza economica e dei diritti richiedano il superamento del sistema capitalistico. Ma, sulla base dell’esperienza mia e di decine di migliaia di protagonisti di quei movimenti, con i quali ho avuto familiarità politica e militante, è pura mitologia che questo conducesse davvero le aree più attive dei movimenti dell’epoca ad una convinzione profonda sull’attualità e sull’imminenza di una rivoluzione e del superamento del capitalismo.
In realtà la grande maggioranza delle leadership dell’epoca, al di là delle chiacchiere “gruppettare” e della demagogia assembleare che sovente prendeva il sopravvento, erano consapevoli che, a parte le sacrosante pulsioni ideali e morali contro le ingiustizie del sistema dominante, i movimenti tutti soffrivano dell’assenza di un vero e significativo progetto di trasformazione sociale, economica e politica. Proprio mentre il “socialismo reale” dell’Est europeo, di fronte alla Primavera di Praga, dava l’ennesima e oramai definitiva dimostrazione del proprio disastroso fallimento storico, non si riuscì, e non solo in Italia, a delineare neanche un abbozzo di progetto post-capitalistico che rifuggisse dal tentativo disperato di abbellire, o radicalizzare, quel comunismo novecentesco oramai demolito nella coscienza di miliardi di persone dallo stalinismo. Cosicché, già dal ’69, il movimento finì per frantumarsi in una miriade di partitini, gruppi e gruppetti, in gara per dimostrare di essere più a sinistra, più comunisti, più marxisti e più leninisti del PCI, e di rappresentare i migliori alleati e sostenitori della classe operaia, i migliori interpreti e paladini delle sofferenze delle classi sottomesse. Questa scelta fu in primo luogo la conseguenza dell’incapacità di elaborare una nuova e originale strategia di trasformazione sociale e un modello di nuova società che fosse agli antipodi rispetto al “socialismo reale”, da cui non si prendevano le distanze radicali, spostando invece le illusioni sulla sua fattibilità dall’Urss e dai paesi “satelliti” verso la Cina, il Vietnam, Cuba ecc. e dimostrando purtroppo di sapere troppo poco non solo del capitalismo per come si stava evolvendo ma soprattutto del funzionamento profondo della società italiana, con la conseguenza di non essere in grado di passare dalla denuncia alla proposta organica a 360 gradi.
E’ vero però che un mito che davvero ha dominato l’epoca e le nostre azioni nei movimenti e nei conflitti di quegli anni è stato quello del Progresso Storico – di matrice variegata, illuminista, positivista e marxista -, cioè di una filosofia della storia umana che la vede in continua, positiva evoluzione e raffinamento, verso una sempre migliore giustizia sociale, eguaglianza economica e dei diritti, fratellanza/sorellanza e solidarietà tra i popoli e gli individui. Certamente questo elemento, per tornare al cuore del nostro raffronto tra le reazioni alle due pandemie, influì non poco anche nella irrilevanza assegnata agli effetti nefasti della “influenza di Hong Kong”, nel momento in cui le sorti dell’umanità – alla luce delle trasformazioni mondiali e del protagonismo di tanti popoli, movimenti, settori sociali, classi e ceti – sembravano indirizzate verso un futuro più luminoso. Questa identificazione con una filosofia della storia positivista e sostanzialmente ottimista sulla Natura umana si è fortemente affievolita nell’ultimo ventennio, almeno in tutto il mondo “occidentale”. Se confrontiamo l’immaginario collettivo medio dei giovani del ’68 e dintorni e quello ad esempio dei cosiddetti millenial (la generazione dei nati tra i primi anni’80 e la metà dei ’90 del secolo scorso), come potrebbe la maggioranza di questi ultimi avere oggi una visione positiva dell’evoluzione umana e dell’inevitabile Progresso storico e sociale? Dopo aver assistito da bambini o in piena adolescenza prima al ritorno della guerra in Europa con i massacri e le stragi nella ex-Jugoslavia, poi agli attentati delle Twin Tower con il seguito del dilagare della guerra nel Medio Oriente e nel mondo islamico con le sue propaggini terroristiche in Europa, e poi a dieci anni di crisi economica di estrema gravità, per ricevere infine il colpo di grazia dell’improvviso smantellamento delle poche certezze rimaste per il proprio sistema di vita, causa Corona-pandemia? Perché quest’ultima aggressione ad un sistema di vita, che fino agli anni ’90 sembrava garantire comunque ad Occidente un benessere economico diffuso e relative certezze di vita per la maggioranza dei cittadini, ha anche colpito l’altro mito rimasto, quello di una sorta di onnipotenza prometeica degli umani/e e in particolare della Scienza, in grado di poter portare, al di là degli ostacoli sociali, economici e politici, gli individui verso un Superuomo (e Superdonna) libero dai condizionamenti fisici, da malattie e persino, entro certi limiti, dalla morte, prolungando indefinitamente la durata della vita e modificando a piacere l’orologio biologico di ognuno. Tale supponenza, megalomania e superbia si è diffusa negli ultimi anni a partire proprio dai vertici del potere economico e politico che, soprattutto negli Stati Uniti e nelle élites del capitalismo più potente (Silicon Valley e imprese dominanti dei Big Data), stanno spendendo cifre ingenti per prolungare il proprio potere e il proprio ruolo più a lungo possibile, dando vita a progetti che nel ’68 (ma anche una ventina di anni fa) sarebbero sembrati demenziali, dal tentativo di raddoppiare la durata della vita media, alla ri-programmazione del proprio corpo mediante l’assunzione di centinaia di integratori al giorno, dalla propria ibernazione nel caso di malattie oggi non curabili o non guaribili per potersi “risvegliare” al momento in cui la scienza avrà invece trovato la cura, alla creazione di un avatar praticamente immortale nel quale trasferire tutti i dati del proprio cervello (e peraltro qui da noi lo stesso Berlusconi ha investito somme considerevoli nei progetti dell’ospedale San Raffaele di don Verzé per allungare la vita, in primis la propria, almeno fino a 120 anni).
Se queste sono state le punte più paradossali di una allucinata corsa alla quasi-immortalità, confidando nel potere inarrestabile e illimitato della Scienza e conseguentemente dell Uomo Faber, non c’è dubbio che nell’immaginario collettivo c’era stato fino a ieri, sull’argomento, un cambiamento radicale di massa rispetto all’humus in cui crebbero i movimenti degli anni’ 60 e ’70, laddove invece la diffidenza nei confronti della Scienza, ritenuta al servizio delle potenze economiche e politiche, era considerevole e in quanto all’immortalità la si riservava casomai ai progetti di trasformazione sociale collettiva e ad alcune-idee guida nella lettura del mondo, ma non certo alle proprie sorti individuali. Niente di sorprendente, dunque, che le nostre società attuali siano arrivate del tutto impreparate, convinte come erano del potere quasi sovrumano della Scienza, e in particolare della medicina, al brutale e inaspettato trauma universale del Corona-virus.
“Non siamo abituati a essere in pericolo. Siamo i figli viziati della storia (n.d.s. l’autrice si riferisce prevalentemente alla Francia e per estensione all’Europa e al mondo “occidentale”, con particolare riguardo ai settori sociali più avvantaggiati prima della pandemia). Ma tutto questo è un sogno: la guerra, la miseria, il dispotismo possono sempre accadere. Il panico che abbiamo mostrato al momento di questa crisi sanitaria dimostra come il primo dramma collettivo che ci sia capitato da tanto tempo ci abbia colto alla sprovvista. Pensavamo di aver cambiato il mondo. In realtà è ancora il nostro mondo, anche se per molto tempo l’abbiamo nascosto…Un’intera popolazione che pensava principalmente al consumo, al tempo libero e alla carriera, si è trovata improvvisamente di fronte alla possibilità della malattia e della morte…Con questa pandemia siamo lontani dal post-umanesimo e dalla ‘morte della morte’. Che sciocchezza abbiamo accarezzato. L’individuo sovrano, che si presumeva onnipotente, si sta rendendo conto che il suo destino non è interamente nelle sue mani e di avere un terribile bisogno degli altri: la certezza di un progresso fatale ha cessato di esistere (Chantal Delsol, filosofa e storica francese, fondatrice dell’Istituto di ricerca Hannah Arendt, cattolica, autrice di numerosi saggi, l’ultimo dei quali è Le Crépuscule de l’universel ).
L’occultamento della morte e la mutazione della religiosità ad Occidente
Tra le cause dell’opposto comportamento sociale nei confronti della pandemia attuale rispetto a quella del ’68-’69 nonché all’“asiatica” del ’58-’59, va annoverata, a mio parere, pure la profonda differenza della sensibilità collettiva nei confronti della morte. Credo che su questo abbiano influito pesantemente, di certo per quel che riguarda l’Italia, almeno quattro fattori: a) una diffusa abitudine nel passato a venire a contatto con la morte, invece progressivamente e fortemente occultata negli ultimi anni; b) la differente influenza della civiltà e cultura contadina rispetto alla cultura odierna dominante dell’intellettualità e della middle class cittadine; c) il peso sensibilmente diverso della religiosità popolare negli anni ’50 e ’60 del Novecento rispetto ad oggi; d) l’ingigantimento attuale delle individualità (gli Ego ipertrofici) rispetto alle collettività (il ruolo del Noi), argomento che ho già trattato in precedenza. La pandemia del ’58-’59 coglieva una popolazione che era uscita solo tredici anni prima dalla Seconda guerra mondiale, con il suo carico micidiale di morti e di stragi collettive, che avevano toccato la stragrande maggioranza degli adulti della fine degli anni ’50. In più, una buona parte della popolazione aveva attraversato anche la Prima guerra mondiale e la pandemia più terribile della storia moderna, la “spagnola” del ’18-’19 che fece circa 50 volte i morti sia dell’”asiatica” sia dell’epidemia Hong Kong. La pandemia “sessantottina” arrivò circa dieci anni dopo, ma il ricordo delle mortalità a milioni era ancora vivo. Se invece veniamo all’oggi, la lontananza dalle tragedie belliche ma anche dalla falcidie provocata dalle epidemie più funeste del passato ha certamente colto la gran parte della popolazione assai più impreparata e indifesa nei confronti della morte di massa, Ma c’è anche dell’altro, legato in particolare alla cultura contadina, ancora molto viva in Italia negli anni ’50 e ’60. Prima di dovermi sottoporre allo stillicidio delle morti violente per motivi politici dei militanti degli anni’ 60 e ’70, nella mia infanzia e adolescenza, vissuta per un decennio in un paese di tradizione contadina, avevo già visto a breve distanza decine di morti o moribondi, acquisendo una relativa assuefazione alla concretezza e attualità della morte: e credo che più o meno lo stesso fosse accaduto a milioni di persone che vennero coinvolte nelle due pandemie citate. Mi domando, di contro, quanti/e degli attuali ventenni o trentenni, ad esempio, nella loro vita prima della pandemia siano venuti a contatto diretto con la morte concreta e brutale, quante persone abbiano visto agonizzare e esalare l’ultimo respiro. Negli ultimi decenni la morte è stata sistematicamente espunta dalla vita, occultata, marginalizzata, al punto da consentire alla gran parte degli individui di ignorarla fino a quando essa non colpisse gli affetti più prossimi. A chi era mai capitato nell’ultimo mezzo secolo di vedersi squadernare davanti, ogni giorno per cinque mesi, via TV, stampa o social, l’elenco dei nuovi morti quotidiani? Ritengo che la stragrande maggioranza degli italiani/e ignori a tutt’oggi che nel 2019 nel nostro Paese sono morte circa 170 mila persone di tumore (cinque volte i deceduti con Corona virus), circa 45 mila persone per malattie cardiache e circolatorie, quasi altrettante per malattie respiratorie o insufficienze polmonari e quasi 40 mila per infezioni acquisite in ospedale o per”malasanità”: tutte morti invisibili a livello di massa, a parte i coinvolgimenti individuali per parentele strette o amicizie prossime. Nella vita contadina e di paese del periodo tra le due guerre, ma anche negli anni ’50 e ’60, di media parecchie decine di persone ben note morivano annualmente, accompagnate ai funerali e alla tomba da una parte significativa della popolazione, che comunque ne veniva abbondantemente informata con necrologi e locandine diffuse in paese: oggi si muore nelle grandi città spesso ignorati/e pure da coloro che nei condomini abitano qualche piano sotto o sopra.
Mi sembra, infine, che ci sia un altro profondo cambiamento in questo mezzo secolo che attiene alla sfera della religiosità. Io mi definisco ateo, anche se a volte mi viene il sospetto che l’autodefinizione sia un po’ presuntuosa, perché alla fin fine il sottoscritto, come credo la totalità degli umani, è in grado solo di vedere e giudicare quello che è alla portata dei suoi sensi e delle sue analisi raziocinanti ma non di esaminare e giudicare eventuali realtà ultra-sensibili. Però, in ogni caso, resto fermamente convinto del carattere irriducibilmente storico di tutte le formazioni religiose, ritenute utili per far sopportare ad uomini e donne la pesantezza di una vita senza alcun particolare significato o scopo, se non quelli che ognuno/a decide di darsi, nonché l’intollerabile idea di morire e scomparire per sempre: e conseguentemente non ho mai dedicato particolare attenzione alla religiosità se non quando le sue strutture gerarchiche e temporali hanno interferito, cosa accaduta spesso, nella mia (e altrui) vita sociale, politica e culturale. Insomma, non sono particolarmente attrezzato per giudicare le modifiche nella religiosità italica, europea e “occidentale” dell’ultimo mezzo secolo. Però, leggo apodittiche affermazioni, come ad esempio quella della già citata filosofa (e cattolica fortemente impegnata) Chantal Delsol, che così risponde ad un intervistatore che le chiede quale sia la possibilità di rinascita del cristianesimo nell’attuale Europa ultra-secolarizzata: “Non dobbiamo raccontarci favole, stiamo assistendo alla fine della cristianità. E’ un momento doloroso e raro, poiché è la fine di una storia di due millenni. E’ la fine di una società la cui morale, leggi, costumi sono ispirati dal cristianesimo”.
Di primo acchitto sembra un’affermazione apocalittica, esternata però da una filosofa e storica che il cristianesimo lo ha studiato e lo studia in permanenza e lo conosce di certo assai più di me. Pur tuttavia, almeno il fortissimo calo della religiosità cristiana e cattolica in Italia, in Europa e nel mondo “occidentale” pare lampante anche a me: cosa che, però, non vale per tutte le religioni operanti in Europa, perché la ritrovata vitalità dell’islamismo, soprattutto di quello più radicale (in particolare il salafismo, o wahhabismo, sunnita) è sotto gli occhi di tutti/e. Di quest’ultimo colpisce non solo il ben alimentato espansionismo materiale, filosofico e culturale (che ha, come è noto, le case madri e i principali ispiratori in Arabia Saudita, negli Emirati Arabi e in Turchia, che finanziano copiosamente la penetrazione religiosa e culturale in Europa, parlando spesso di “riconquista”, riferendosi ai fasti passati dell’Islam) ma anche l’aggressività ideologica e morale che è, mi sembra, espressione di forte convinzione nel proprio credo e di fiducia nel futuro della propria fede, elementi che appaiono a prima vista invece sempre più deboli nel pensiero e nelle azioni del mondo cattolico e cristiano, che dà l’impressione nell’insieme di essere sempre più privo di certezze e di solide prospettive spirituali. E tale zeitgeist non riguarda, a mio modesto avviso, solo i cosiddetti fedeli ma anche le leadership della cristianità e del cattolicesimo. A me, e in genere a noi laici, a-religiosi e di sinistra, ad esempio, certamente piace papa Francesco per le sue posizioni in materia di diritti sociali, di accoglienza ai migranti, di ostilità alle guerre e alle ingiustizie e disparità economiche. Ma se ne guardassi il pensiero e l’agire da un punto di vista dottrinale e da religioso praticante, non potrei non notare che un qualsiasi mullah sembra avere molta più convinzione nei propri ideali religiosi e molta più voglia di battagliare (in tutti i sensi) per il proprio credo rispetto all’emerito papa cattolico attuale, che sovente appare più che altro un esponente, brillante e meritevole, di una dottrina morale e di una filosofia sociale in larga misura apprezzabili ma con un impianto di pensiero, ideologico e politico tutto interno alla materialità di questo mondo: cosa, comunque, certamente stimabile e positiva per noi rigorosamente laici, che temiamo supremamente i fanatismi religiosi, le ferree e mortifere convinzioni del Gott mit uns foriere inevitabilmente di catastrofi belliche, civili e sociali, anche senza dover richiamare per forza il nazi-islamismo dell’ISIS, Al Qaeda e soci.
Ad ogni modo, una cosa mi pare certa: che sia stato il progresso tecnico-scientifico e la conseguente illusione prometeica della quasi-onnipotenza umana, oppure la crescente identificazione, e conseguente condanna (nell’ambito del multiculturalismo) del cristianesimo con la dottrina religiosa che ha accompagnato le storiche e millenarie malefatte dell’uomo “bianco” e occidentale, o infine la disillusione sul ruolo-guida trascendente della Chiesa cattolica e cristiana, fatto sta che tra la profonda convinzione di massa nella religiosità europea, e italiana in particolare, del secondo dopoguerra (di cui ho vivi ricordi familiari) e il diffusissimo scetticismo odierno mi pare ci sia un abisso. Non ci sono attendibili statistiche o sondaggi in materia, ma sono profondamente convinto che, mentre durante le due pandemie citate degli anni ’50 e ’60, la netta maggioranza dei cattolici italiani abbia creduto che la morte non fosse la fine di tutto e che una qualche forma di esistenza ultraterrena li attendesse post-mortem, oggi tale convinzione sia ben altrimenti fragile e la fede sia scolorita, per la maggioranza di coloro che si autodefiniscono cattolici, in una sorta di civile credenza morale, con una punta di sottesa scommessa sull’al di là del genere “hai visto mai?”. Ed è evidente che la paura della morte – e in particolare di una così tremendamente solitaria, e con modalità particolarmente angosciose, come nelle prime settimane della Corona-pandemia – ha un impatto nettamente diverso se sei convinto che essa segnerà per te la fine di tutto oppure no.
La soffocante invadenza di stampa, TV e social
Al fine di cercare di spiegare le vistose differente di impatto individuale e sociale delle due pandemie, ho lasciato per ultimo il tema della soffocante, aggressiva e onnipresente invadenza dei mezzi di informazione, della stampa, delle TV e dei social durante la pandemia: ma non certo perché lo ritenga l’elemento meno rilevante nella creazione del panico di massa e dei conseguenti effetti sociali, economici e politici. Al contrario, ho ben presente l’abissale differenza tra il comportamento dei mass media nelle precedenti pandemie del secolo scorso e quello durante questi ultimi cinque mesi. In un mio precedente articolo (La Wuhan de “noantri”, in www.pierobernocchi.it) facevo appunto il raffronto tra l’attuale totalitaria copertura massmediatica e gli spazi ridottissimi che nell’informazione quotidiana italiana ebbe nel ’58-’59 una pandemia che pure colpì il mondo e l’Italia con effetti ben maggiori degli attuali (almeno fino ad ora). Ho poi sottolineato fin dall’incipit di questo scritto la sbalorditiva sparizione dell’epidemia “sessantottina” da tutta l’informazione italica ed europea. Certo, nel caso del ’58-‘59 esisteva in Italia un solo canale televisivo, di contro alle migliaia di quelli visibili oggi da tutto il mondo; non esistevano TV private e commerciali, e lo stesso valeva per la radio; e ovviamente non c’era il martellante e ossessivo “rumore di fondo” dei social. Ma, come ho cercato di spiegare elencando gli altri possibili motivi di differenza, l’occultamento derivò solo in parte da volontà politiche ed economiche indotte e imposte ai media. Accanto a questo ci fu, di sicuro nel ’68-’69, un effettivo disinteresse di massa, soprattutto da parte di quel mondo dei movimenti di ribellione e antagonismo che a tutt’altro badavano; e anche a proposito dell’”asiatica”, non posso dimenticare che, mentre ancora imperversava l’epidemia, l’interesse maggiore degli italiani era rivolto alle imminenti Olimpiadi che si sarebbero svolte a Roma nel 1960.
Ora è evidente che gli effetti di tale clamorosa messa in secondo piano delle epidemie degli anni ’50 e ’60, da una parte, e della copertura odierna 24 ore su 24 (della serie, tutto il virus minuto per minuto) con martellamento asfissiante, immagini angoscianti e numeri schiaccianti, non poteva che provocare effetti decisamente contrapposti. Però su questo ruolo dei media ho pareri piuttosto discordanti da quelli di una certa “compagneria” e tanto più dal mondo complottista che scorazza nei social. Ossia, non credo che l’ossessiva pressione massmediatica sia stata la conseguenza di un piano preparato a tavolino dal potere politico per passivizzare i cittadini ed evitare una conflittualità diffusa nel paese. TV e giornali sono oramai rilevanti imprese economiche in conflitto sempre più forte tra loro, a causa non solo della diffusione delle testate online e dei canali TV a cui ogni cittadino/a può oramai accedere, ma anche della micidiale pressione dei social che sempre più spesso conducono la danza informativa e comunicativa. In tale contesto, la pandemia ha costituito un boccone ghiottissimo per i voraci appetiti del circo mediatico, a cui non è parso vero di poter contare per mesi su un “ancoraggio” così forte del cittadino-utente. Tale “circo” ha oramai, e un po’ ovunque, una sua forte autonomia operativa che lo spinge ad ingigantire qualsiasi evento mediatizzabile, e tanto più un tale sconvolgimento mondiale. Sono stati piuttosto i politici a dover seguire l’onda mediatica e ad assecondarla, nel timore di esserne travolti, nel caso avessero sbagliato, per sottrazione o addizione, il tono, le proposte e le iniziative da tenere in riferimento alla pandemia: e i leader che a livello mondiale hanno provato ad ignorarla o ad andare controcorrente stanno ora pagando un prezzo molto alto, da Boris Johnson a Trump, da Bolsonaro a Putin. Certo, il governo Conte (ma anche gli amministratori regionali e comunali, e su tutti Zaia e De Luca) hanno cercato, anche con un buon successo in media, di trarre il massimo vantaggio dalla situazione: ma almeno altrettanto hanno fatto tutti i mezzi di informazione che hanno saputo cavalcare l’onda e potenziarla. D’altra parte qualcosa del genere era già successo negli ultimi anni con l’ingigantimento, da parte delle principali TV e giornali, della forte corrente “populista”, nazional-sciovinista, razzista, anti “casta” e anti-politica che esondava dai social e dall’umore “popolare” diffuso: ingigantimento che ha influito in maniera decisiva nello sbalorditivo successo dei 5 Stelle prima e di Salvini poi, anche se rifluito in seguito alla prova delle esperienze governative, in maniera clamorosa per i primi e più limitata per il secondo. E non si può certo dire che tale ruolo della quasi totalità dei media principali sia stato provocato da un “complotto” dei poteri economici “forti” per spazzare via gli altri partiti, anche se a posteriori molti padroncini e molta burocrazia statale si sono acconciati alla corte dei nuovi arrivati, contribuendo però a “rimodellarli” al punto che oggi i Cinque Stelle appaiono, per attaccamento alle poltrone, clientelismo e sistemazione istituzionale della parentela, una bruttissima copia, e ancor più famelica e arrogante (oltre che massimamente cialtrona e incompetente), della Democrazia Cristiana d’antan.
Alcune note conclusive (provvisorie)
In questi mesi non ho preso sul serio, neanche per un attimo, alcune interpretazioni enfatiche del possibile futuro post-pandemico che hanno avuto largo seguito ed echi mediatici rilevanti. Mi riferisco soprattutto ad affermazioni del tipo “Nulla sarà come prima” oppure alla ottimistica e illuministica idea che i cataclismi e le disgrazie collettive migliorino l’umanità, impongano di per sé radicali cambiamenti di vita nel dopo-catastrofe con la vittoria della cooperazione, della solidarietà, di “nuove forme comunitarie, democratiche e di partecipazione”: e in alcuni articoli mettevo in guardia dall’attesa fideistica di miglioramenti sostanziali e quasi automatici nelle società più segnate dai colpi della pandemia. Scrivevo ad esempio in Evitiamoci invenzioni sul “capitalismo pandemico” (in www.pierobernocchi.it):
“ Tale ottimismo, oltre a cancellare millenni di storia umana, non ha neanche fatto i conti con quel che si è verificato dopo la più grande pandemia della storia umana recente. Era passato solo un anno dalla fine della ‘spagnola’ che Mussolini fondava il partito fascista con trecentomila seguaci e avviava una mini-guerra civile che fece un salto di qualità l’anno dopo (ottobre 1922) con la marcia su Roma e la presa del potere da parte dei fascisti. In luogo di cooperazione, solidarietà e voglia di comunitarismo spuntava un dittatore che imponeva una lotta senza esclusione di colpi violenti tra classi, ceti e “in seno al popolo”; e in luogo di un’espansione della democrazia, si affermò, con il progressivo consenso della maggioranza degli italiani/e, un regime massimamente gerarchico, antidemocratico e oligarchico. Modello che fece da battistrada al nazismo e che ebbe come “dirimpettaio” ad Est il trionfo dello stalinismo, con la sua violenta spietatezza e la sua cancellazione di qualsiasi forma di democrazia politica, sindacale e civile”.
Ora, non intendevo sostenere che le catastrofi – epidemiche, naturali o belliche che siano – portino necessariamente ad aggravare la conflittualità inter-umana, intensificando il meccanismo dell’ homo homini lupus, né che la fascinazione del potere monocratico e dittatoriale, o la resa nei suoi confronti, siano lasciti inevitabili di tali catastrofi. Invitavo però alla massima cautela nei confronti di tesi ingenuamente facilone che prospettino l’inevitabile emersione, dopo la pandemia, del “lato buono” dell’umanità. Però, pur senza cullare illuministiche speranze sullo spontaneo trionfo del Bene nell’umanità post-pandemica o su rosee palingenesi nel quadro del “niente sarà come prima” (sorvolo sul grottesco “tutto andrà bene” delle prime settimane della pandemia), credo che alcuni insegnamenti ricavabili da questa tragedia – a livello di coscienza collettiva e di orientamenti politici, economici e sociali da cercare di imporre nella prossima fase – possano avere un qualche segno positivo, pur con le cautele del caso.
1) Considero ad esempio una buona cosa la vera e propria lezione di vita, certo spietata, che la pandemia ha imposto – e che non può non essere stata percepita – sulla illusorietà della morte della morte, della presunta, crescente scalata verso una sorta di semi-immortalità o onnipotenza umana, garantita dal progresso scientifico e tecnico, con il disastroso corollario del trionfo dell’Io sul Noi, della centralità dell’individuo-isola sulla collettività, di quella nefasta ideologia ultra-liberista di cui il massimo “campione” e cristallino rappresentante è stato negli ultimi decenni Margaret Thatcher. Come verrebbero interpretate oggi le più celebri frasi della visione del mondo thatcheriana, fonti del suo trionfo di allora? Cose del tipo: “La società non esiste, esistono solo gli individui. E l’economia è il mezzo per cambiarne il cuore e l’anima”? Oppure: “Sto con chi non conosce il significato della parola sconfitta, con chi sa che le cose si conquistano e pensa di meritarsi il successo che ha ottenuto, con chi si batte solo ed esclusivamente per vincere e sa che non conta altro che il risultato finale?”. Non ho dubbi: una Thatcher rediviva e portatrice di quella filosofia oggi verrebbe travolta, ridicolizzata, spazzata via: e d’altra parte i suoi pallidi emuli odierni hanno dovuto battere in ritirata, da Boris Johnson a Trump. La pandemia ha scientificamente dimostrato a miliardi di individui l’assoluta fragilità dell’uomo-isola e delle illusioni miracolistiche sul ruolo semi-onnipotente della scienza e dei suoi protagonisti; la insostituibile centralità del legame sociale, della solidarietà collettiva, della difesa dei Beni comuni, a partire dalla salute e dalla Sanità follemente sacrificata sull’altare del più sciocco e autolesionistico aziendalismo; dell’importanza dell’intervento pubblico in difesa dei diritti collettivi principali (salute, lavoro, reddito, istruzione, casa ecc.). Certo, a questa collettiva presa di coscienza, che renderebbe oggi pagliaccesche le teorie thatcheriane, non seguirà automaticamente un significativo cambio nelle politiche sociali ed economiche nel nostro Paese e altrove, se a tale coscienza non si accompagnerà una capacità di configgere, unitariamente e seriamente a partire dall’autunno, per imporre cambiamenti indispensabili. Però, a mio avviso, questa lezione della pandemia, seppur distruttiva nell’immediato, dovrebbe aver contribuito ad aprire gli occhi ad una moltitudine di individui i quali, nel loro “risveglio”, dovranno poi decidere se e come operare conseguentemente.
2) Personalmente ho perso da decenni quella che oggi mi pare una pia illusione e cioè che la Storia umana abbia una direzione e che essa sia positiva, cioè proceda deterministicamente verso una sempre maggior giustizia sociale ed economica tra gli umani, verso un progressivo incremento della solidarietà, dello spirito collettivo, della realizzazione dei principali diritti umani, a partire dall’attenuarsi dei livelli di violenza inter-umana e dalla fine delle guerre e così via. Oggi penso che in realtà non esista alcuna direzione storica prestabilita né alcuna conquista sociale, civile o politica che si possa considerare definitiva, acquisita una volta per tutte. Non parlerei nemmeno di “corsi e ricorsi” storici, che a modo loro prospettano una visione pur essa deterministica, del tipo “oggi si sale domani si scende..” a cicli continui e ripetitivi. Ritengo insomma che la storia umana la si giochi momento per momento e avanzamenti e arretramenti non siano né dati a priori né necessariamente ciclici, si costruiscano o si subiscano con la partecipazione e la responsabilità (o irresponsabilità) di massa; e che alla fin fine a tutti/e è dato di poter porre il proprio peso, grande o piccolo che sia, nella bilancia universale delle giustizie e delle ingiustizie, del progresso o del regresso sociale, economico, politico e civile. Ma se fino a poco tempo fa la perdita delle illusioni sulle “magnifiche e progressive sorti dell’umanità” mi pesava (della serie: ma se non ci si prospetta con una certa sicurezza, vicino o lontano che sia, il sol dell’avvenire, che lottiamo a fare?), negli ultimi tempi mi sono convinto dell’esatto contrario. E cioè che è stata proprio questa colossale e collettiva ingenuità – nel credere. ad esempio, che il “socialismo reale” avrebbe di per sé trasformato positivamente la natura umana, e in generale la convinzione deterministica che una palingenesi, una trasformazione globale degli umani sia scritta nella Storia – ad aver favorito il ciclo disastroso di grandi illusioni (e di conseguenti cecità sugli orrori che in nome del Progresso si compivano o si subivano in buon fede) e raggelanti disillusioni, che hanno portato poi all’abbandono totale di ogni impegno civile, sociale e politico di milioni di militanti, quando non addirittura al passaggio senza scrupoli dall’altra parte della barricata. Dunque, penso che la brutale lezione di realismo, maturata a partire dalle atrocità della guerra nella ex-Jugoslavia, dalle Twin Tower e dalla guerra permanente susseguente, con la micidiale crisi economica a seguire, e l’esplosione del razzismo e della lotta dei penultimi contri gli ultimi, lezione culminata infine con la regressione a umanità indifesa di fronte al virus-killer, potrebbe consentire alle nuove generazioni di affrontare d’ora in poi i conflitti collettivi con il sano realismo di chi non si illuda di avere “il sol dell’avvenire” a portata di mano, ma piuttosto di dover percorrere strade irte di ostacoli da affrontare con pazienza e continuità, giorno per giorno, con la coscienza che né le vittorie né le sconfitte sono mai definitive.
3) E tra gli elementi potenzialmente positivi, mi pare fuor di dubbio che si possa annoverare il fatto che la pandemia ha costretto i liberisti, i paladini dell’austerità, del trionfo del mercato “senza lacci e lacciuoli”, dell’individuo-isola, ad un clamoroso passo indietro. Fermo restando che, come dicevo poco fa, nulla è irreversibile e dunque ritorni di fiamma sono sempre possibili, è però evidente che ora il coltello dalla parte del manico lo hanno gli Stati; e per quel che ci riguarda, uno Stato che adesso ha a disposizione – al di là di quello che si pensi del MES, del Recovery Fund, delle coperture garantite dalla BCE ecc. – una massa monetaria senza precedenti e la possibilità di espandere il debito pubblico oltre ogni rosea speranza al tempo dell’austerità. Per chi come me crede che il capitalismo di Stato sia più potente di quello privato ed abbia decisamente più futuro rispetto a quello individual-familiare, la diffidenza verso il ruolo delle burocrazie di Stato (o borghesie di Stato), non si attenua per questo, né mi porta a considerare ciò che è statale come davvero pubblico e socializzato. Pur tuttavia, non si può non vedere come la pandemia abbia terremotato il precedente quadro politico-economico e come fornisca, almeno come potenzialità, uno spazio maggiore di conflittualità con possibili esiti positivi, almeno rispetto al quadro completamente bloccato degli anni scorsi, laddove i soffocanti vincoli europei, i Patti di stabilità, i bilanci bloccati e i ricatti finanziari scoraggiavano qualsiasi opposizione e lotta che volesse uscire dalla distruttiva austerità (questo almeno sul piano oggettivo, resta poi da vedere se le soggettività conflittuali saranno all’altezza del compito). Tra i punti più critici e cruciali dello scontro che, almeno potenzialmente, si annuncia, ne cito quattro, senza voler sottovalutare gli altri possibili.
a) La questione del lavoro e del reddito è già drammatica ma purtroppo molto probabilmente si aggraverà ulteriormente in autunno, con centinaia di migliaia di disoccupati/e in più. Il compito più difficile sarà quello di tenere il più possibile unito un fronte che tenga insieme le varie tipologie dei colpiti economicamente dalla pandemia, dedicando particolare attenzione ai settori meno visibili (o proprio invisibili), coloro che non sono oggi coperti né dalla cassa integrazione, né dal blocco dei licenziamenti, l’ampio spettro dei precari di ogni tipo, e senza dimenticare il piccolo lavoro “autonomo” che assai spesso è tale solo di nome, nonché buona parte della microimpresa virtuosa (cioè rispettosa del lavoro dipendente e dei suoi diritti, dell’ambiente e degli obblighi fiscali).
b) Il recupero e il rilancio di una vera, e intelligentemente organizzata, Sanità pubblica può avere in questo momento le vele gonfiate dal vento, drammatico ma travolgente, dei disastri pandemici aggravati, con tanto di numerose vittime anche tra il personale, dai micidiali vuoti in tema di prevenzione e di previsionalità provocati dalla privatizzazione e aziendalizzazione della salute. Una forte inversione di tendenza mi sembra oggi possibile e popolare come non mai.
c) In un percorso molto simile a quello della Sanità, anche la Scuola pubblica è stata pesantemente sacrificata nell’ultimo ventennio. La prolungata chiusura delle aule agli studenti e il pallido tentativo di “scimmiottamento” della scolarità avvenuto con la DAD (didattica a distanza) hanno messo di fronte a tutte le famiglie italiane con figli gli effetti dell’immiserimento economico e qualitativo imposto all’istruzione pubblica dalla sciocca filosofia dell’aziendalismo scolastico e della mercificazione dell’istruzione. Anche alla luce delle prevedibilissime difficoltà con le quali avverrà la riapertura delle scuole in autunno – che qualunque famiglia con prole in età scolare e qualsiasi cittadino/a interessato alle sorti dell’istruzione pubblica potrà seguire “in diretta”, giorno per giorno – anche in questo settore, come per la sanità, si potrebbe contare su un diffuso “risveglio” di sensibilità e attenzione generale, per indurre una forte inversione di tendenza per la riqualificazione economica e culturale della scuola.
d) Anche se nell’immediato la drammaticità della situazione sanitaria ha messo in secondo piano la questione ambientale e la difesa del territorio dalle aggressioni mercificanti, non c’è dubbio che, senza dover scadere nelle teorizzazioni estreme per cui tutte le responsabilità dei disastri sanitari vadano imputati al “capitalismo pandemico” e alla devastazione dei territori naturali, si potrà probabilmente suscitare nella coscienza collettiva, più che in precedenza, una diffusa sensibilità ai temi ambientali e di tutela del territorio. Anche se credo necessario che si vada oltre quel climatismo apocalittico (alla Greta Thumberg, per intenderci) che, utile per far esplodere l’attenzione sui temi ecologici a livello globale, rischia l’inefficacia se si concentra, appunto, sul richiamo continuo all’Apocalisse, all’Armageddon e alla fine del mondo come visione ideologica e solo sul climatismo come tema onnivoro, trascurando poi tutta la restante gamma di motivi di conflitto (qui da noi, in particolare, la difesa del territorio dalle Grandi opere inutili e dannose e dalle fonti di inquinamento quotidiano); tanto più dopo che questi mesi di vistosa riduzione delle attività inquinanti hanno dimostrato la possibile reversibilità positiva in tanti ambiti naturali.
Tutto questo, e quant’altro, richiederebbe però che i movimenti di opposizione, di base e conflittuali, oltre a raggiungere un’intesa sul piano programmatico – non lasciandosi andare a mega-piani velleitari e parolai ma puntando ad obiettivi e temi per i quali ci sono sufficienti margini di successo e di concreta conquista di posizioni – siano abbastanza maturi da superare la storica incapacità a fare davvero coalizione, rinunciando alle primogeniture e alla volontà di esercitare, con il proprio tema o con la propria organizzazione, egemonia sul restante fronte conflittuale, e creando invece un clima di effettiva parità tra le forze protagoniste delle lotte e procedendo nelle iniziative e negli obiettivi tramite la ricerca del più ampio consenso, e non con l’arroganza del più forte, vero o presunto. Riusciremo almeno stavolta a superare questo handicap storico che anche nel recente passato ha ripetutamente vanificato iniziative, lotte e prospettive che si annunciavano, almeno sul piano oggettivo, davvero promettenti?