Una nascita disastrosa, una giovinezza succube dello stalinismo, una età adulta al servizio delle istituzioni nazionali e nel rispetto del Patto di Yalta, una morte ingloriosa a 70 anni: questa mi pare la sintesi, certo brutalmente icastica, della storia del Partito comunista italiano che, nata il 21 gennaio del 1921, di nome e di fatto si è conclusa nel febbraio 1991, seppur con alcuni penosi strascichi successivi. Storia che, però, nasce soprattutto con un gravissimo peccato originale. Il peccato originale del PCI (alla nascita PCd’I, con tanto di apostrofo, per sottolineare che i comunisti italiani non si identificavano con il loro Paese, che non si stava fondando un “comunismo italiano”, ma una sezione nazionale del Faro Sovietico della Rivoluzione mondiale) in poche parole mi pare questo: nasce nel momento più drammatico della storia italiana del Novecento, mentre l’ascesa del fascismo è lampante, e lo fa senza avere la minima idea di cosa fosse diventata la società italiana dopo le distruzioni belliche, spalancando le porte al trionfo di Mussolini, in preda ad una sorta di delirio rivoluzionario che obnubila il gruppo dirigente e i militanti più convinti, accecati dalla luce della Rivoluzione d’Ottobre. E questo “peccato originale” si accompagna e si motiva con una subordinazione piena, come in nessun altro partito comunista dell’Europa occidentale, al bolscevismo sovietico malgrado quest’ultimo, nei quattro anni dalla rivoluzione, ne avesse già cambiato seccamente il segno, abolendo prima l’Assemblea costituente, poi i Soviet e poi ogni organo di rappresentanza istituzionale e partitica che non fosse il Partito comunista stesso. Tutte cose già abbondantemente segnalate non solo dagli anarchici e dalle altre forze politiche sovietiche, che pure si erano battute in prima fila per la rivoluzione ed erano state poi brutalmente eliminate, ma anche da colui che lo stesso Lenin per anni aveva ritenuto il più eminente dei marxisti della Seconda Internazionale, quel Karl Kautsky che gran parte del gruppo dirigente bolscevico aveva considerato il proprio maestro, il Papa rosso (Lenin dixit). E che, di punto in bianco, veniva violentemente tacciato di “rinnegato”, e peggio, per aver denunciato come il vero rinnegamento della democrazia socialista fosse stato opera proprio di Lenin, Trotsky e degli altri dirigenti dei comunisti russi che avevano – questa la tesi di Kautsky- instaurato una dittatura burocratica che sottometteva il proletariato e puntava ad una economia monocratica da capitalismo di Stato (n.b. a proposito di chi furono all’epoca i veri “rinnegati” consiglio la lettura, scientificamente ineccepibile, che ne dà Roberto Massari nel suo Lenin e l’antirivoluzione russa 1).
La catastrofica scissione del Partito socialista
Il “delirio rivoluzionario”, che indusse i comunisti italiani a operare la catastrofica scissione del Partito socialista il 21 gennaio 1921, può essere ben sintetizzato nei dieci punti (a loro volta sintesi dei 21 punti che i sovietici imposero a chiunque volesse costituire partiti comunisti e entrare a far parte dell’Internazionale Comunista) che il Congresso di Livorno del Partito socialista ovviamente non poteva accettare e che divennero il programma politico della nuova formazione, ufficializzati il 31 gennaio 1921 sul proprio organo di stampa Il Comunista. Eccone i passaggi fondamentali e illuminanti (i corsivi sono miei):
«Il proletariato non può infrangere né modificare il sistema dei rapporti capitalistici di produzione senza l’abbattimento violento del potere borghese…L’organo indispensabile della lotta rivoluzionaria è il partito politico di classe. Il Partito Comunista, riunendo in sé la parte più avanzata e cosciente del proletariato, unifica gli sforzi delle masse lavoratrici, volgendoli dalle lotte per gli interessi di gruppi alla lotta per l’emancipazione rivoluzionaria del proletariato…La guerra mondiale ha aperto la crisi di disgregazione del capitalismo, in cui la lotta di classe non può che risolversi in conflitto armato tra le masse lavoratrici ed il potere degli Stati borghesi…Dopo l’abbattimento del potere borghese, il proletariato non può organizzarsi come classe dominante checon la distruzione dell’apparato statale borghese, con l’instaurazione dello Stato basato sulla sola classe produttiva ed escludendo da ogni diritto politico la classe borghese…La forma di rappresentanza politica nello Stato proletario è il sistema dei Consigli dei lavoratori, già in atto nella rivoluzione russa, inizio della rivoluzione proletaria mondiale e prima stabile realizzazione della dittatura proletaria…La necessaria difesa dello Stato proletario può essere assicurata solo col togliere alla borghesia e ai partiti avversi alla dittatura proletaria ogni mezzo di agitazione e di propaganda politica, e con l’organizzazione armata del proletariato»2.
Dunque, mentre le squadracce fasciste imperversavano in Italia e Mussolini conquistava trasversalmente alla sua causa sempre più settori sociali, ceti e classi, e dopo il fallimento del “biennio rosso” e delle lotte nelle fabbriche del Nord, il Partito comunista nasceva preconizzando a breve «l’abbattimento violento del potere borghese e la distruzione del suo apparato statale»; e assegnava questo immane compito solo alla classe produttiva, cioè a quel proletariato di fabbrica non solo già sconfitto nel biennio precedente ma numericamente significativo solo nei poli industriali del Nord, più, in subordine, ad un bracciantato agricolo che ben pochi segni di spirito rivoluzionario aveva manifestato in precedenza, attribuendo solo a questi settori sociali i futuri diritti politici, di propaganda e di libertà di stampa che i comunisti si impegnavano a togliere non solo alla borghesia ma anche a tutti «i partiti avversi alla dittatura proletaria» e ai settori sociali da essi rappresentati. E il tutto, in un quadro in cui si interpretava la rivoluzione russa(che gli estensori del programma fingevano di considerare fondata su Soviet che, dopo una fugacissima apparizione strumentale, erano già stati cancellati da tempo) «come inizio della rivoluzione proletaria mondiale» due anni dopo il soffocamento nel sangue del movimento spartachista tedesco e la assoluta normalizzazione capitalistica nell’unico paese, la Germania, che nel 1918 ci si era illusi potesse seguire le orme della rivoluzione russa.
Ora, di certo, a parte questi deliri insurrezionalisti, la minimizzazione, anzi la vera e propria cancellazione dell’incombente minaccia fascista, non riguardò solo il nascente Partito comunista: il resoconto del Congresso di Livorno è davvero raggelante per la sua rimozione collettiva, che coinvolse la quasi totalità degli interventi, del pericolo principale che incombeva sull’Italia, sul movimento operaio e la sinistra comunque intesa. E ci mostra con cristallina evidenza un caso, mi pare senza precedenti a tali livelli, di cecità e di misconoscenza di quel che accadeva nella società italiana: che poi divenne il principale motivo della disgregazione di ogni barriera nei confronti della catastrofe in arrivo. C’è però da dire che tale cecità appare tanto più eclatante laddove colpiva quelli che poi in seguito sono stati considerati i veri padri teorici, filosofici e politici dei comunisti italiani, quelli che – a differenza di Bordiga sul cui settarismo, irrealismo e incomprensione delle dinamiche sociali dell’epoca nessuno storico o analista politico degli anni successivi (a parte i bordighisti) ha mai nutrito dubbi, tanto che mi pare superfluo tornare sulle sue responsabilità nelle disastrose scelte del PCd’I – non sono mai stati bollati, né in quegli anni né nei decenni successivi, da analoghe accuse di settarismo o dogmatismo ottuso, e men che meno, come invece è toccato ai bordighisti, poi cassati dalla storia del Pci, e anzi innalzati ai suoi “altari”.
E in primo luogo è davvero sconcertante, ancora oggi, leggere cosa scriveva, a proposito della società italiana degli anni post-bellici, Antonio Gramsci, l’unico leader comunista italiano apprezzato urbi et orbi e con immutata stima generale nei cento anni passati da allora.
Il mito degli operai e il disprezzo per la “piccola borghesia”
E’ probabile che nei giudizi che Gramsci, nel biennio precedente alla fondazione del partito comunista, dette sulle classi e sui ceti sociali che furono decisivi (a mio avviso almeno quanto il padronato industriale e agricolo e lo stesso Vaticano) nel trionfo del fascismo – e che Mussolini dimostrò di conoscere assai più del gruppo dirigente comunista – e in particolare sulla cosiddetta “piccola borghesia”, pesassero molto i decenni di disprezzo, contumelie e ostilità che la sinistra marxista aveva riservato a questo insieme di strati e ceti sociali, dai quali paradossalmente essa stessa, nella grande maggioranza, proveniva. Ma i giudizi feroci, e alieni dalla realtà fattuale, di un sofisticato intellettuale del genere lasciano a tutt’oggi comunque sconcertati. Ecco ad esempio cosa scriveva Gramsci nell’articolo pubblicato sull’Ordine Nuovo, intitolato e dedicato appunto alla “piccola borghesia”, dopo i violenti scontri di piazza del 2-3 dicembre 1919 in tutta Italia:
«La lotta non è stata tra proletari e capitalisti, ma tra proletari e piccoli e medi borghesi…La piccola e media borghesia è la peggiore delle classi, la più vile, la più inutile, la più parassitaria: la borghesia “intellettuale” (detta “intellettuale” perché entrata in possesso, attraverso la facile e scorrevole carriera della scuola media, di piccoli e medi titoli di studio), la borghesia dei funzionari pubblici, dei bottegai, dei piccoli proprietari industriali ed agricoli, commercianti in città, usurai nelle campagne. Questa lotta si è svolta disordinatamente, tumultuosamente, con una razzia condotta per le strade e le piazze al fine di liberarle da una invasione di locuste putride e voraci…La piccola e media borghesia è infatti la barriera di umanità corrotta, dissoluta, putrescente con cui il capitalismo difende il suo potere economico e politico; umanità servile, abietta, umanità di sicari e di lacché, divenuta oggi la “serva padrona” che vuole prelevare sulla produzione taglie superiori non solo alla massa di salario percepita dalla classe lavoratrice, ma alle stesse taglie prelevate dai capitalisti. Espellerla dal campo sociale, come si espelle una folata di locuste, col ferro e col fuoco, significa alleggerire l’apparato nazionale di produzione e di scambio da una plumbea bardatura che lo soffoca e gli impedisce di funzionare, significa purificare l’ambiente sociale»3.
Di contro al feroce odio sociale e disprezzo riversati con queste parole, in maniera indiscriminata e ultrasettaria, su milioni di persone, tra cui maestri elementari e insegnanti, artigiani e piccoli imprenditori, dipendenti pubblici e negozianti, tutti dipinti come «dissoluti e putrescenti» parassiti, «lacché abietti e corrotti» – per i quali Gramsci, che pure da tali ceti proveniva (l’unico lavoro da lui svolto fu quello di giornalista, non proprio un’attività da proletario industriale o agricolo) come quasi tutta la leadership socialista e comunista, non trovava di meglio che proporre «l’espulsione dal campo sociale come si espelle una folata di locuste, col ferro e col fuoco» –, si può ritrovare nello stesso articolo un’esaltazione altrettanto indiscriminata e sproporzionata degli operai “di città”, considerati senza eccezioni «rivoluzionari per educazione», e della fabbrica «come luogo dove deve iniziare la liberazione».
«Gli operai di città sono rivoluzionari per educazione, li ha resi tali lo svolgimento della coscienza e la formazione della persona nella fabbrica, cellula dello sfruttamento del lavoro. Gli operai di città guardano oggi alla fabbrica come al luogo in cui si deve iniziare la liberazione: perciò il loro movimento è sano, è forte e sarà vittorioso. Gli operai sono destinati ad essere, nella insurrezione cittadina, l’elemento estremo ed ordinatore ad un tempo,quello che non lascerà che la macchina messa in moto si arresti e la terrà sulla giusta via; essi rappresentano sin d’ora l’intervento nella rivoluzione delle grandi masse, e personificano in modo vivente l’interesse e la volontà delle masse stesse»4.
Che il gruppo dirigente del futuro Partito comunista d’Italia – così come la quasi totalità di quel Partito socialista di cui costituiva al momento l’ala sinistra e che pochi mesi prima alle elezioni politiche aveva pur raggiunto il 34% dei voti, in gran parte proprio tra quei ceti “piccolo-borghesi” violentemente impoveriti dalla guerra – avesse capito ben poco del sommovimento che la disastrosa partecipazione alla guerra aveva provocato nell’intero corpo della società italiana, ma in particolare in vasti settori di salariati non operai nonché di piccola e anche di media borghesia immiserita e sbandata, ci pare, a cento anni di distanza, una verità storica abbondantemente acclarata. Così come evidente fu l’incomprensione della fluidità degli spostamenti e sbandamenti sociali che si stavano manifestando in tutti gli strati intermedi della società e sui quali il fascismo nascente – che all’esordio apparve agli occhi di milioni di persone, non dimentichiamolo mai, come una sorta di costola radicale del socialismo – dimostrava già ben altra capacità di indagine, di lettura delle classi e dei ceti sociali, oltre che di programmi immediati e di azione. Ma di solito l’accusa storica che viene mossa, giustamente, ai comunisti che si staccarono nel 1921 dal Partito socialista, costituendo il nuovo partito in aperto scontro con i socialisti, è quella di non aver fatto fronte unito con essi dopo la scissione, oltre che con i sindacati, gli anarchici e le altre forze del movimento operaio e popolare. Però, questo peccato originale, che anche io imputo al PCI, ancor prima di essere una eclatante dimostrazione e una suicida deriva di estremo settarismo politico, aveva alla fonte un ancor più disastroso settarismo sociale, un obnubilamento analitico e politico, accentuato assai probabilmente dall’entusiasmo per la rivoluzione russa. Che portò Gramsci, non meno di Bordiga e di tutto il gruppo dirigente del PCdI, ad ingigantire oltre misura il ruolo della classe operaia e la possibilità che essa – insieme ai contadini poveri e al bracciantato di quelle campagne italiane che storicamente non avevano mai dato grandi prove di spirito rivoluzionario – potesse avviare addirittura un’insurrezione vittoriosa senza, e anzi frontalmente contro, l’intera popolazione “piccolo-borghese”, fatta per tanta parte di settori sociali impoveriti, piccolo commercio, ex-combattenti sbandati, espropriati di ogni avere e in genere ben più disperati e impoveriti degli operai, che erano indispensabili per la ricostruzione post-bellica.
Quanto questa strategia – con radici storiche nel totale spregio, sottovalutazione e misconoscenza di tanta parte della popolazione non borghese e non operaia – fosse disastrosa, velleitaria e illusoria, avrebbe dovuto apparire chiaro allo stesso Gramsci già pochi mesi dopo, quando in seguito alla cocente sconfitta degli operai piemontesi e dei loro Consigli di fabbrica dopo dieci giorni di sciopero e occupazione delle fabbriche di Torino e provincia, dovette prendere mestamente atto che la sua descrizione agiografica del potenziale rivoluzionario operaio, svolta nei mesi precedenti negli articoli dell’Ordine Nuovo, si era dimostrata del tutto irrealistica:
«La classe operaia torinese è stata sconfitta. Tra le condizioni che hanno determinato la sconfitta la cortezza di mente dei responsabili del movimento operaio italiano…la mancanza di coesione rivoluzionaria dell’intero proletariato italiano che non riesce ad esprimere dal suo seno una gerarchia sindacale che sia un riflesso dei suoi interessi e del suo spirito rivoluzionario..lo stato generale della società italiana e le condizioni di esistenza di ogni regione e di ogni provincia che costituiscono una cellula sindacale della Confederazione Generale del Lavoro. La classe operaia torinese è stata sconfitta perché in Italia non esistono le condizioni per un organico e disciplinato movimento di insieme della classe operaia e contadina. Di questa immaturità, di questa insufficienza del popolo lavoratore italiano è indubbio documento la cortezza di mente dei capi responsabili del movimento organizzato del popolo lavoratore italiano»5.
Quel movimento dioperaiche solo cinque mesi prima Gramsci giudicava «rivoluzionari per educazione», che costituiva «l’elemento ordinatore che non lascerà che la macchina messa in moto si arresti e la terrà sulla giusta via», considerato «sano, forte, e che sarà vittorioso», rappresentando «l’intervento nella rivoluzione delle grandi masse», diventava per lui e per i futuri dirigenti del PCdI improvvisamente «immaturo e insufficiente» a causa della «cortezza di mente dei responsabili del movimento operaio» e perché «in Italia non esistono le condizioni per un organico movimento di insieme della classe operaia e contadina». Malgrado queste valutazioni, drastiche quanto tardive e comunque assai più realistiche di quelle di pochi mesi prima, i leader comunisti non arrivarono però alla più logica delle conclusioni. E cioè che fosse tragicamente campata in aria una strategia insurrezionalista, per giunta esclusivamente fondata sulla classe operaia diretta da leader di “mente corta” ed ostili ad ogni prospettiva rivoluzionaria, e socialmente sola contro tutti (a parte l’auspicio di un’alleanza con i contadini poveri, sul modello sovietico), in conflitto frontale con tutta la “piccola borghesia”, con quei settori sociali “intermedi” usciti a pezzi dalla guerra, e contro i dipendenti pubblici e i lavoratori della scuola, trattati da parassiti «corrotti, dissoluti, servili ed abietti»; e incapace di dialogare persino con la gioventù studentesca desiderosa di rivolta, pur se imbevuta di un nazionalismo che era però anche voglia di rivalsa contro chi aveva trascinato in guerra l’Italia. Anzi! Lo stesso giorno dell’articolo gramsciano, l’Ordine Nuovo pubblicava anche la relazione dei rappresentanti della Federazione provinciale torinese (allineata sulle posizioni di Gramsci) al Consiglio nazionale di Milano del Partito socialista. Eccone alcuni brani tragicamente illuminanti sul “delirio rivoluzionario” del PCd’I, del tutto fuori dalla realtà sociale e politica:
«La fase attuale della lotta di classe in Italia è la fase che precede o la conquista del potere politico da parte del proletariato rivoluzionario o una tremenda reazione da parte della classe proprietaria e della casta governativa…Il Partito socialista, da partito parlamentare piccolo-borghese deve diventare il partito del proletariato rivoluzionario che lotta per l’avvenire della società comunista attraverso lo Stato operaio, un partito omogeneo, coeso, con una sua propria dottrina, una sua tattica, una disciplina rigida e implacabile. I non comunisti rivoluzionari devono essere eliminati dal Partito… Il Partito fonda la sua potenza e la sua azione solo sulla classe degli operai industriali ed agricoli.. e deve lanciare un manifesto nel quale la conquista rivoluzionaria del potere politico sia posta in modo esplicito, nel quale il proletariato industriale ed agricolo sia invitato a prepararsi e ad armarsi»6.
Insomma, malgrado la netta sconfitta del movimento dei Consigli e dell’occupazione delle fabbriche, nonostante il giudizio impietosamente negativo sulla direzione del movimento operaio, benché incombesse l’arrivo annunciato di un violento e vittorioso attacco reazionario, e sebbene si giudicasse “piccolo borghese” il Partito socialista in toto, pur tuttavia: a) la preoccupazione principale era «l’eliminazione dei non comunisti rivoluzionari» e la rottura drastica con tutti coloro che non lavorassero per l’insurrezione, per la «conquista rivoluzionaria del potere politico» e per l’instaurazione dello Stato operaio; b) si ribadiva che la rivoluzione era fatto esclusivo degli «operai industriali e agricoli», nonostante oltretutto i secondi non avessero dato affatto, tranne alcune rivolte in Puglia, segnali di anelito rivoluzionario; c) si continuava ad ignorare o disprezzare o voler combattere tutta quella parte della società in condizioni economiche e sociali assai simili a quelle operaie (anzi, in molti casi anche peggiori; nella ricostruzione industriale indispensabile gli operai di fabbrica erano addirittura i salariati con più futuro assicurato), la marea di disoccupati “non industriali”, gli espropriati di ogni piccolo avere, i ceti impiegatizi e professionali sbandati e immiseriti, abbandonati alla crescente propaganda degli ex-socialisti in via di fascistizzazione. E lo stesso Gramsci avrebbe rinnovato pochi mesi dopo, nel gennaio 1921 e con il fascismo oramai pienamente operante, tale violento disprezzo e incomprensione verso tutta la “piccola borghesia”, definita brutalmente “popolo delle scimmie”, identificata con il fascismo e di fatto consegnata sciaguratamente alla propaganda e alla ben altrimenti scaltra attenzione di quest’ultimo:
«La piccola borghesia cerca in ogni modo di conservare una posizione di iniziativa storica: essa scimmieggia la classe operaia, scende in piazza. Questa nuova tattica si attua nelle forme consentite ad una classe di chiacchieroni, di scettici, di corrotti..è come la novella della jungla di Kipling, del Bandar-Log, del popolo delle scimmie, il quale si crede superiore a tutti gli altri popoli della jungla, pensa di possedere tutta l’intelligenza, tutta l’intuizione storica, tutto lo spirito rivoluzionario, tutta la sapienza di governo…La piccola borghesia, anche in questa ultima incarnazione politica del “fascismo”, si è definitivamente mostrata nella sua vera natura di serva del capitalismo e della proprietà terriera, di agente della controrivoluzione. Ma ha anche dimostrato di essere incapace a svolgere qualsiasi compito storico: il popolo delle scimmie riempie la cronaca, non crea storia, lascia tracce nel giornale, non offre materiale per scrivere libri»7.
Colpiscono e sorprendono, in questo testo, molte cose: il vistoso autogol nella descrizione del “popolo delle scimmie”, dato che le caratteristiche attribuite alla “piccola borghesia” si attagliavano invece, e alla lettera, proprio ai dirigenti comunisti, loro sì davvero convinti «di essere superiori a tutti gli altri popoli della jungla, di possedere tutta l’intelligenza, tutta l’intuizione storica, tutto lo spirito rivoluzionario, tutta la sapienza di governo»; la pretesa di avere come comunisti, autonominatisi guida della classe operaia, il monopolio della mobilitazione di massa e di piazza, espressa con la derisione della vasta area sociale “intermedia” che, nell’incredulità di Gramsci e compagni, «scimmieggia la classe operaia e scende in piazza». Ma soprattutto sbalordisce una volta di più la sottovalutazione della reale sofferenza di vasti strati sociali non-operai, impoveriti e disperati, inseriti tutti insieme in «una classe di chiacchieroni, di scettici, di corrotti» considerata, con una previsione che sarebbe stata, prestissimo e violentemente, smentita dai fatti, «incapace a svolgere qualsiasi compito storico.. di creare storia..di offrire materiale per scrivere libri». Il tutto senza neanche uno straccio di tentativo di portare dalla propria parte settori consistenti di quegli strati sociali in difficoltà, offrendo alleanze e cercando di incanalare a buon fine la rabbia e la voglia di mobilitazione contro il Parlamento e lo Stato, e la conseguente disponibilità ad usare anche la forza contro le leggi dominanti.
Il suicida rifiuto di alleanze, persino con gli Arditi del Popolo
Peraltro, soltanto pochi mesi dopo, nell’estate 1921 gli Arditi d’Italia (era la più consistente delle organizzazioni degli ex-combattenti, raggruppando tanti reduci di guerra, e anche la più odiata dai comunisti per la sua funzione di sostegno al movimento fascista) si scindevano in due parti più o meno equivalenti e, a sinistra, nascevano gli Arditi del Popolo, con l’intento dichiarato, e subito messo in atto, di creare gruppi armati a livello nazionale in grado di opporsi alle sempre più aggressive squadre d’azione fasciste, e con un simbolo inequivocabile: una scure che rompeva un fascio littorio. Molti studi sostengono che nel luglio 1921 gli Arditi avessero dai 20 mila ai 50 mila membri (a seconda che si calcolassero solo gli iscritti, o anche i simpatizzanti e i partecipanti alle azioni), con almeno 150 sezioni in tutta Italia. Politicamente l’iniziativa era partita dal gruppo romano guidato dall’anarchico Argo Secondari, ex-tenente dei reparti d’assalto; ma vi militavano a pari titolo comunisti e anarchici, socialisti e repubblicani, cattolici e ex-dannunziani, senza partito e anche gente che fino a poco prima aveva militato nel movimento fascista, convinta di trovarsi tra “estremisti” socialisti. Ma ancor più interessante ne era la composizione sociale che registrava, fianco a fianco, operai e impiegati comunali, contadini e artigiani, studenti e insegnanti, dipendenti pubblici e disoccupati, reduci di guerra e gente che il militare non lo aveva neanche mai fatto. Insomma, si trattava in embrione di una combattiva, coraggiosa e agguerrita rappresentanza di quella coalizione sociale che avrebbe potuto non solo stoppare il fascismo ma, con un’alleanza a largo respiro, mettere davvero alle corde il potere economico e politico borghese dell’epoca. Eppure, malgrado gli Arditi finissero per costituire su scala nazionale l’unica vera resistenza armata al fascismo, ben più concreta dei fumosi proclami verbali dei dirigenti comunisti sulla “necessità dell’armamento operaio”, e nonostante le loro prime azioni di difesa cittadina (tra tutte quelle vittoriose di Sarzana e Viterbo) creassero incrinature tra le componenti fasciste più “moderate” e quelle più oltranziste, né i comunisti né i socialisti approfittarono di quella insperata, considerevole e di fatto ultima occasione per sconfiggere il sempre più violento e montante fascismo. L’esasperato settarismo politico di Bordiga – che aveva la maggioranza nel nascente PCdI -, malgrado la presa di posizione dei bolscevichi, della Terza Internazionale e dello stesso Lenin favorevoli ad un’alleanza con gli Arditi, finì per combinarsi con l’ultra-operaismo di Gramsci, il quale, pur favorevole di per sé a tale alleanza politica, ne entrava in contraddizione sul piano sociale a causa della sua drastica ostilità a quel «sovversivismo piccolo-borghese» che aveva giudicato, fino a pochi mesi prima, irreparabilmente reazionario, mentre ora una significativa parte di esso confluiva nella resistenza degli Arditi.
L’esaltazione per la vittoria bolscevica in Russia e per la fondazione del PCdI fece il resto ed accentuò il rifiuto sia delle alleanze politiche con socialisti, anarchici e popolari, sia di quelle sociali con gli strati “piccolo borghesi” disponibili, mentre il fatto che non fosse il Partito comunista a guidare la resistenza al fascismo degli Arditi del Popolo comportò un’ulteriore ostilità e l’isolamento progressivo di questa gloriosa esperienza e la sconfitta sanguinosa di un tentativo così coraggioso – che ebbe un punto culminante nella difesa di Parma8 contro diecimila squadristi fascisti che dovettero abbandonare la città con grande scorno politico e militare – e nello stesso tempo capace di superare, almeno in potenza, barriere ideologiche e sociali ingigantite dalla rigida ortodossia comunista, tragicamente incapace a capire la realtà di quegli anni. E fu la catastrofe: il fascismo trionfò e in breve tempo in Italia non restò traccia di “operai rivoluzionari” o resistenze, armate o meno, di comunisti e terzinternazionalisti, lasciando a tanti storici (ad esempio il Tom Behan di The resistibile rise of Benito Mussolini) la convinzione che un’alleanza di socialisti, comunisti e popolari con le forze degli Arditi e con gli anarchici avrebbe potuto fermare la «resistibile ascesa di Mussolini».
Il trionfo del fascismo
E invece, dopo un crescendo di aggressioni e di attività egemonica nel paese anche in quei settori proletari tanto idealizzati dal nascente Partito comunista, il 16 ottobre 1922 il gruppo dirigente fascista a Milano decideva di prendere il potere con la forza, assegnando ad un quadrumvirato (De Vecchi, De Bono, Balbo e Bianchi) la direzione dell’insurrezione armata e della marcia su Roma con circa 26 mila uomini, programmata per il 27-28 ottobre. Di fronte a questa sfida, il presidente del Consiglio Luigi Facta, dopo un tempestoso Consiglio dei Ministri e dopo aver ricevuto l’approvazione del re Vittorio Emanuele III, proclamò lo stato d’assedio, mobilitando 28 mila soldati per disperdere i fascisti e la marcia su Roma. Ma poche ore dopo il re cambiava idea, annullava lo stato d’assedio e il 29 proponeva a Mussolini di formare il nuovo governo, dopo le dimissioni di Facta: cosicché il 30 ottobre la marcia su Roma si trasformò in una passeggiata per acclamare il futuro Duce, divenuto capo del governo senza dover sparare un colpo. Pochi mesi dopo, a partire dal febbraio 1923 e fino al settembre, praticamente tutto il gruppo dirigente del PCd’I, a partire da Bordiga, venne incarcerato, con l’eccezione di Gramsci riparato a Vienna. E lo stesso Gramsci, divenuto il vero leader del partito e segretario nazionale dopo la rottura con Bordiga e i suoi, ed eletto al Parlamento nelle elezioni politiche del 6 aprile 1924 (in cui i fascisti con la loro Lista nazionale, e una di appoggio, presero il 65% e il PCd’I il 3,7%) rientrò in Italia, avviando una apparente autocritica, scrivendo ad esempio «Fummo, senza volerlo, un aspetto della dissoluzione generale della società italiana». Salvo però vanificare anche questa seppur tardiva presa d’atto della realtà quando, in agosto e due mesi dopo l’assassinio, avvenuto il 10 giugno, del deputato Giacomo Matteotti, segretario nazionale del Partito Socialista Unitario9 da parte di una squadraccia della cosiddetta “Ceka fascista” e, secondo tutte le principali testimonianze storiche, su mandato diretto di Mussolini10, e sopravvalutando l’indignazione diffusa per un breve periodo, presentava al Comitato centrale del PCd’I una relazione che perdeva nuovamente di vista la realtà sociale e politica (e anche quella elettorale: i fascisti al 65%, i comunisti al 3,7%). E persino in maniera più clamorosa che negli anni precedenti, rifiutando ancora una volta, dopo i disastri dell’ultimo biennio, l’alleanza con le altre forze dell’opposizione parlamentare (i cosiddetti “aventiniani”) che avevano abbandonato il Parlamento e che nella relazione venivano considerati solo una “variante” dei fascisti nella possibile gestione dello Stato “borghese”. Per sottolineare l’assoluta astrattezza delle posizioni gramsciane e del PCd’I, riconfermata anche in quei momenti, credo possano bastare i seguenti passaggi della relazione:
“Il regime fascista muore perché non è riuscito ad arrestare, ma anzi ha contribuito ad accelerare, la crisi delle classi medie iniziata dopo la guerra…Il delitto Matteotti è la prova provata che il partito fascista non riuscirà mai a diventare un normale partito di governo, che Mussolini non possiede dello statista e del dittatore altro che alcune pittoresche pose esteriori…Egli non è un elemento della vita nazionale, è un fenomeno del folklore paesano, destinato a passare alla storia nell’ordine delle diverse maschere provinciali italiane”11.
Ci volle poco a verificare quanto fossero fuori dalla realtà tali considerazioni e quanto poco i tre anni passati dalla fondazione del PCd’I fossero stati utili a far capire, almeno a posteriori, al suo gruppo dirigente – e in particolare a Gramsci, il suo leader e teorico indubbiamente più importante e capace – le ragioni del trionfo fascista. Mussolini si assunse la responsabilità del delitto Matteotti, e di ogni altro episodio di repressione violenta, il 3 gennaio 1925 con un discorso alla Camera, caratterizzato da toni di estrema arroganza che dovettero svelare anche agli occhi dei più sprovveduti dei dirigenti comunisti con chi si avesse oramai a che fare. Ne riporto qui i brani più brutalmente dittatoriali:
«Ma poi, o signori, quali farfalle andiamo a cercare sotto l’arco di Tito? Ebbene, dichiaro qui, al cospetto di questa Assemblea e di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica,morale, storica, di tutto quanto è avvenuto. Se le frasi più o meno storpiate bastano per impiccare un uomo, fuori il palo e fuori la corda! Se il fascismo non è stato che olio di ricino e manganello, e non invece una passione superba della migliore gioventù italiana, a me la colpa! Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione! Se tutte le violenze sono state il risultato di un determinato clima storico, politico e morale, ebbene a me la responsabilità di questo, perché questo clima io l’ho creato con una propaganda che va dall’intervento ad oggi»12.
Per chi avesse finto ancora di non capire, Mussolini minacciò ulteriormente l’opposizione “aventiniana”, promettendo che «entro 48 ore, la situazione sarà chiarita su tutta l’area»; e avviando un’ulteriore fase repressiva con nuove disposizioni, emanate nella notte da Luigi Federzoni ministro dell’Interno, che di fatto eliminavano libertà di stampa, di riunione e di organizzazione per gli oppositori. Che neanche allora riuscirono ad uscire dalla loro doppia paralisi, di un oramai sterile Aventino da una parte e dell’irrimediabile e cieco settarismo di parte comunista: nemmeno in una situazione così tragica, si realizzò, seppure oramai fuori tempo massimo, un minimo di unità tra comunisti, socialisti e popolari. Iniziava una dittatura ventennale senza praticamente uno straccio di opposizione e con un PCd’I che, gravato dall’immane “peccato originale” fin qui descritto, finì per consegnarsi totalmente alla più servile sudditanza allo stalinismo, di lì a poco analogamente trionfante in Unione Sovietica.
Note
1 Roberto Massari, Lenin e l’Antirivoluzione russa; Massari editore, Bolsena, 2018
2 Il Comunista, 31 gennaio 1921
3 Antonio Gramsci, Sugli avvenimenti del 2-3 dicembre 1919, in L’Ordine Nuovo 1919-1920, Einaudi, Torino, 1955, pag.61
4 Ibidem, pag.65
5 A. Gramsci, Superstizione e realtà, in L’Ordine Nuovo, 8 maggio 1920, pag.109
6 Per un rinnovamento del Partito Socialista, in L’Ordine Nuovo, cit. pp.117-122
7 A. Gramsci, Il popolo delle scimmie, in L’Ordine Nuovo, 2 gennaio 1921
8 Nell’agosto 1922 diecimila squadristi del Nord Italia, guidati da Farinacci e poi da Italo Balbo, assediarono Parma, trovando una fortissima resistenza da parte degli Arditi comandati dal deputato Guido Picelli e dovettero rinunciare all’occupazione della città. Ne parlano diffusamente William Gambetta E le pietre presero un’anima. Le Barricate del 1922, contenuto in Roberto Montali (a cura di), e Le due città. Parma dal dopoguerra al fascismo (1919-1926), Istituto Biblioteche del Comune di Parma, 2009. In quanto agli Arditi, apprezzabile tra gli altri il libro di Eros Francescangeli, Arditi del Popolo, Odradek, Roma.
9 Il PSU era nato da un’ulteriore scissione del Partito socialista, avvenuta dopo quella del PCd’I e condotta appunto da Matteotti.
10 Matteotti fu rapito mentre si recava al Parlamento dopo avrebbe dovuto pronunciare una dura requisitoria, come nelle settimane precedenti, contro i brogli nelle recenti elezioni politiche, portando anche prove di uno scandalo finanziario coinvolgente Arnaldo Mussolini, fratello minore del duce. Fu caricato a forza su una macchina della polizia politica fascista, denominata “Ceka fascista” a imitazione della polizia politica sovietica, struttura incaricata della repressione “occulta” di dissidenti e oppositori (fino all’omicidio) che si sarebbe poi trasformata in una struttura ufficiale, l’OVRA. Il gruppo dei cinque rapitori era condotto da Amerigo Dumini, ma ad accoltellare a morte Matteotti, che faceva resistenza, fu Giuseppe Viola. Gli assassini seppellirono il cadavere che venne ritrovato per caso solo due mesi dopo. La responsabilità dell’intera operazione venne attribuita a Cesare Rossi, fascista della prima ora, ex sindacalista “rivoluzionario” e messo a capo della segreteria personale di Mussolini che gli aveva affidato il comando della struttura “occulta”. Ma sia Dumini sia Rossi produssero due memoriali in cui accusarono direttamente Mussolini di essere il vero mandante e ricattandolo così esplicitamente. Cosicché, mentre Rossi venne scarcerato e si rifugiò in Francia, Dumini se la cavò con cinque anni di condanna per omicidio preterintenzionale, ma uscì di galera rapidamente e con una “liquidazione” economica, girovagando tra Italia e Africa, rientrando a volte in galera ma uscendone rapidamente e con “buonuscite”, sempre ricorrendo alla minaccia di raccontare tutta la verità sull’uccisione di Matteotti.
11 Relazione al Comitato Centrale del PCd’I del 13-14 agosto 1924, in L’Ordine Nuovo, 1 settembre 1924
12 Benito Mussolini, Discorso alla Camera dei Deputati, 3 gennaio 1925