Il governo Conte-bis, sulla cui valutazione troverete nel mio sito vari articoli, si è dissolto in tempi rapidissimi. A sostituirlo, Mattarella ha chiamato il “salvatore della Patria” Mario Draghi, per ripetere l’exploit del salvataggio dell’euro con il suo whatever it takes, la straordinaria immissione di liquidità per l’ acquisto di titoli di Stato per fare da scudo agli Stati europei più indebitati. Tutti i poteri del Paese gli hanno apparentemente reso omaggio: ma l’incoronazione a “sovrano” sarà duratura o la luna di miele svanirà appena si passerà alle prime decisioni serie? Di certo, questo Draghi non è quello che nel 2011, insieme al suo predecessore alla presidenza BCE, Jean Claude Trichet, intimava al governo Berlusconi durissime condizioni di austerità e tagli, provocandone la sostituzione con il tecnocrate “lacrime e sangue” Mario Monti. Tra quel Mario e questo c’è la stessa differenza esistente tra la disastrosa politica di austerità e di blocco della spesa pubblica imposti allora dall’Unione Europea, e l’attuale politica monetaria e di bilancio espansiva, con la centralità della spesa pubblica in deficit per far ripartire l’economia: svolta i cui maggiori artefici sono stati proprio Draghi e Angela Merkel. Chi confonde l’attuale Draghi con il Monti di dieci anni fa, appartiene alla folta schiera di coloro che identificano il capitalismo con il liberismo e che non hanno mai davvero compreso la funzione degli Stati (quelli potenti) come capitalisti collettivi e il loro ruolo soprattutto nei momenti di crisi economica. Con questa ristrettissima visione delle molteplici varianti a disposizione del capitalismo, ci si consegna a luoghi comuni, che si ripetono stancamente, malgrado le lezioni eclatanti offerte dal 2008 ad oggi dai massicci investimenti (senza precedenti) dei principali Stati per salvare le proprie economie, e si dimentica che gli Stati più forti agiscono, tanto più nei periodi di crisi, come “ cervello collettivo” per limitare i danni del capitalismo privato miope e anarcoide, consentendo grazie alla spesa pubblica la ripartenza di economie in sofferenza. Modalità di gestione che definirei “neo-keynesiane”, se sul keynesismo non ci fosse assai spesso una confusione prospettica che lo identifica con il trionfo dello Stato sociale, come se Keynes non fosse stato un liberaldemocratico concentrato sui modelli per far ripartire il capitalismo impantanato nelle crisi, e non una sorta di “benefattore” sociale.
Il neo-liberismo e lo Stato come capitalista collettivo
Scrive il nostro Rino Capasso: «In termini schematici, neo- liberismo significa: a) politica monetaria, mirata principalmente alla stabilità della moneta e alla lotta all’inflazione; b) tasso di immissione della liquidità basso e costante nel tempo; c) divieto di finanziamento monetario della spesa in deficit; d) politica di bilancio basata sul pareggio tra entrate e spese, con una drastica riduzione di entrambe; e) niente spesa pubblica in deficit e forte riduzione dell’intervento pubblico in economia; f) vincoli costituzionali o sovranazionali alla politica di bilancio. Come si fa a dire che il Quantitative Easing (60 mld al mese di liquidità per acquisti di titoli sul mercato secondario), il PEPP per 1850 mld di acquisti di titoli sino al 2022, la sospensione del Patto di Stabilità, l’emissione di Eurobond, il Recovery Fund , il Mes sanitario senza condizionalità, il Sure, sono politiche neoliberiste?E’ un disco incantato che ripete la stessa solfa, é come se il concetto di “neoliberismo” fosse allargato a dismisura fino a farlo coincidere con “capitalismo” . Il capitalismo è una grande spugna e vive di fasi diverse, con una alta capacità di adattamento. Le diverse fasi non si ripresentano mai uguali e perciò ha senso parlare di fase neokeynesiana. Resta da approfondire cosa di davvero nuovo avrà questa fase rispetto al keynesismo del passato».
Di mio aggiungerei che, prescindendo dal riferimento a Keynes che può dare adito agli equivoci citati poco fa, il non vedere la realtà e in particolare la svolta a 180 gradi della politica economica dell’Unione Europea, ha a che fare per tanta compagneria con una sorta di vero e proprio tic politico-ideologico: dicendo che c’è sempre il liberismo, ci si sente ancora conflittuali; mentre, prendendo atto che siamo in una fase diversa – nella quale di certo l’austerità, il blocco della spesa pubblica e la parità di bilancio sono imposizioni accantonate -, si teme di far credere ad alleati ed avversari di essere disposti a venire a patti con il potere. Chi è preda di tale loop politico-ideologico salta a pié pari l’assunto-base: la spesa statale in deficit non significa affatto che sarà una spesa buona a favore dei settori popolari. Anzi, nel nostro caso odierno, una spesa ingente – gestita dai partiti, calatisi in massa nel governo per spartirsi il bottino, e dalle inamovibili burocrazie (che definisco borghesie di Stato) incrostate negli apparati statali e istituzionali – può essere una spesa pessima che non fa da moltiplicatore all’economia ma che si disperde in mille rivoli, destinati a creare una palude di sprechi. Insomma, almeno fino alla piena uscita dalla crisi economico-pandemica (impensabile prima di un biennio), i rischi per la giustizia sociale ed economica non dipenderanno, a mio parere, da una presunta sudditanza di Draghi ad un inesistente “governo delle banche” o al complottismo della Grande Finanza (che in certi discorsi ricorda a volte una sorta di Spectre, oppure le invettive dell’estrema destra contro le plutocrazie giudaiche) quanto dalla direzione che i partiti di governo imporranno ai grandi flussi di denaro a disposizione e verso chi tali spese saranno indirizzate. Credo di conoscere a sufficienza gli argomenti predominanti tra i “continuisti”, attaccati al modello del liberismo eterno e immutabile. Si sostiene che la “sospensione” del modello liberista (Patto di stabilità, divieto di investimenti pubblici in deficit, pareggio di bilancio, austerità ecc.) sia del tutto apparente, e che l’attuale fase espansiva sia solo una sorta di éscamotage opportunistico in vista di un rapido ritorno all’austerità: perché le condizionalità dichiarate del Recovery Fund e quelle implicite del Mes, gli obiettivi di un ritorno veloce all’avanzo primario, l’insistenza posta sull’insostenibilità del debito pubblico, sono tutte prove di una volontà di far durare meno possibile questa sorta di “ricreazione” economica. Ora, è evidente che l’attuale modalità di intervento nella crisi vale fin quando la crisi stessa, economica e pandemica, sarà operante: il che significa come minimo un biennio. E come se ne uscirà, e quali saranno le future strategie capitalistiche in Italia e in Europa, dipenderà in larga misura anche dai conflitti sociali e politici che si saprà/sapremo innescare. Ma queste interpretazioni ripetitive risentono comunque di una cattiva lettura di cosa sia in generale il capitalismo attuale nei paesi più sviluppati, e di come lo sia in verità almeno da un secolo, a partire dalla sinergia conflittuale con la Rivoluzione russa e con il preponderante ruolo dello Stato nel “socialismo reale”, fino ad arrivare al vero e proprio trionfo del capitalismo di Stato cinese attuale.
La gran parte delle organizzazioni richiamantisi al socialismo e al comunismo hanno assai spesso considerato acriticamente la positività della statalizzazione dei mezzi di produzione, confondendo proprietà statale e proprietà sociale. Nel cuore stesso della elaborazione teorica di Marx e Engels, ci fu una sorprendente sottovalutazione del ruolo degli Stati come capitalisti collettivi: eccezione quasi unica, seppur rilevantissima, quanto Engels scrisse nell’Anti-Dühring: “Il modo di produzione capitalistico ha cominciato con il soppiantare gli operai, oggi esso soppianta i capitalisti e li relega tra la popolazione superflua…Ma né la trasformazione in società anonime, né in proprietà statale, sopprime il carattere di capitale delle forze produttive. Lo Stato moderno è una macchina essenzialmente capitalistica, il capitalista collettivo ideale. Quanto più si appropria le forze produttive, tanto più diventa un capitalista collettivo, tanto maggiore è il numero di cittadini che esso sfrutta. Il rapporto capitalistico non viene soppresso, viene invece spinto al suo apice”. E la Cina attuale rappresenta esattamente il punto più alto di questa spinta verso l’apice capitalistico. Anche nel pensiero marxista novecentesco in Italia, con poche eccezioni, il ruolo dello Stato, non come organo politico di controllo e repressione sbirresca al servizio dei padroni ma come capitalista collettivo,è stato grandemente sottovalutato. In verità, fin dall’affermarsi dei primi Stati moderni, il capitalismo non è mai stato affare solo di singoli padroni privati in “libera” competizione per l’accaparramento dei mercati: il liberismo economico integrale, accompagnato dal non-interventismo in economia degli Stati e dalla libera concorrenza pura, è sempre stato un’utopia del capitalismo, un sublime imbroglio teorico e politico per occultare l’unico vero liberismo, quello in materia di sregolato utilizzo della forza-lavoro indifesa. Se andiamo alla voce liberismo in un buon dizionario di Economia leggiamo che esso sarebbe un sistema “imperniato sulla libertà del mercato, in cui lo Stato si limita a garantire con norme giuridiche la piena libertà economica e a provvedere soltanto ai bisogni della collettività non soddisfacibili per iniziativa dei singoli, e nel quale c’è altrettanta piena libertà economica del commercio internazionale e si realizza un libero scambio, in contrapposizione al protezionismo economico e commerciale”. Ora, chi può seriamente sostenere che l’attuale sistema economico mondiale sia strutturato sulla base di un libero scambioscevro da qualsiasi forma di protezionismi o presenze monopolistiche che falsifichino o annullino di fatto la “libertà del mercato”? Non è realtà lampante che gli Stati più potenti agiscano in continuazione per distorcere il libero mercato, tanto più dopo il ciclopico intervento – che ha movimentato cifre colossali e senza precedenti – dei principali Stati nazionali per tamponare la crisi esplosa nel 2008, processo che si è amplificato ulteriormente con il whatever it takes di Draghi e della BCE e con la odierna, ingente massa di denaro messa a disposizione dei principali paesi europei per contrastare gli effetti della pandemia? Non è forse oggi ancor più lontano un mondo economico ove domanda e offerta si incontrerebberoliberamente in un mercato aperto e indenne da interventi politico-statuali?
Per la verità, il liberismo economico integrale, come descritto dai cantori di Monsieur le Capital, non è mai esistito, tanto meno dal Novecento post-Rivoluzione russa e “socialismo” sovietico e dal conseguente e concorrenziale interventismo statale spinto in economia ad Occidente, prima nel fascismo italiano, poi nel New Deal statunitense, nel nazismo tedesco e nella presa in carico di tutta l’economia bellica nei principali paesi tra il 1940 e il 1945, nonché nella ricostruzione post-bellica. L’unico liberismo vero che i singoli capitalisti hanno sempre cercato di imporre è quello nel mercato del lavoro e neiservizi sociali. Solo in questi campi il padronato privato ha sempre ricercato, e spesso ottenuto, una concorrenza priva di regole – occupati contro disoccupati, stanziali contro migranti, giovani contro anziani, precari contro “stabili”, lavoro dipendente contro piccolo lavoro autonomo – che faccia abbassare il più possibile il costo del lavoro; e analoga concorrenza senza regole è auspicata nei servizi sociali e pubblici, quel territorio che i lavoratori/trici hanno conquistato in decenni di dure lotte, che si sono tradotte in istruzione, sanità e assistenza sociale più o meno gratuite, pensioni, e in Beni comuni non sottoposti alla legge del profitto. Solo in tal senso è corretto parlare di neoliberismo: mentre del tutto infondata dovrebbe apparire oramai, soprattutto dopo i titanici interventi statuali anti-crisi del 2008 e a quelli assai ingenti attuali per contrastare gli effetti della pandemia, la tesi secondo la quale il neoliberismo avrebbe ridotto a simulacri gli Stati nazionali. Alla base di questo eclatante errore teorico e politico c’è, come in gran parte della storia del pensiero “ di sinistra” del secolo scorso, una distorsione del vero ruolo degli Stati fin dal momento in cui il capitalismo divenne il sistema economico dominante in Occidente, delle loro funzioni da cervello capitalistico collettivo, in grado di limitare, controllare e incanalare in qualche modo l’”anarchismo” dei singoli capitali privati e le oscillazioni troppo violente dei cicli economici, di effettuare i grandi investimenti a lunga gittata nei settori di sviluppo (l’altro ieri nelle ferrovie e nell’elettrificazione, ieri nella chimica e nella meccanica, oggi nell’elettronica e nell’informatizzazione del mondo: insomma, dai treni per il Far West a Internet) ove i singoli capitali mai si impegnerebbero, nonché gli interventi riparatori dopo le crisi. Non è stata forse una lezione decisiva quella fornita dai principali Stati occidentali che nel 2008 hanno mobilitato somme colossali (migliaia di miliardi di dollari solo negli USA, che neanche una ventina delle principali multinazionali insieme avrebbero potuto mettere in campo), per tappare le mortali falle create da banche, conglomerati finanziari e assicurativi? In realtà, gli Stati (intendo quelli forti ed efficienti) continuano ad adempiere – tanto più ora, di fronte ad una crisi sanitaria ed economica che minaccia di oscurare anche quella della Grande Depressione del 1929 – agli interventi di supporto, correzione, soccorso e stimolo dell’economia privata. E lo fanno svolgendo ruoli di sovvenzione (trasferendo ricchezza pubblica alle imprese private), di finanziatori (mettono a disposizione denaro attraverso credito agevolato o di donazione gratuita), di committenti (offrono commesse e contratti), di imprenditori diretti (producendo in prima persona merci e servizi), di regolatori (difendendo il capitale nazionale dalla penetrazione dei concorrenti, o indirizzando certe funzioni produttive a vantaggio o a danno di questo o quel gruppo privato). Le tesi sull’impotenza degli Stati nazionali, insomma, dovrebbero arrendersi alle confutazioni da parte della realtà, che prima negli anni di crisi economica post-2008, e tanto più ora e nell’immediato futuro di disastri post-pandemici, ne ha dimostrato l’inconsistenza, amplificando ulteriormente queste caratteristiche strutturali degli Stati forti, anche senza bisogno di dover richiamare le teorie keynesiane.
In verità, quella presunta separazione tra ruolo politico ed economico dello Stato, che avrebbe dovuto essere il segno forte della modernità, non è mai avvenuta sul serio e a fondo: e anzi, sia nel Novecento e tanto più in questo secolo, l’intreccio tra gestione politica ed economica è divenuto sempre più netto ed ha giocato, nella difesa e nello sviluppo del capitalismo, una funzione decisiva, senza la quale l’assenza di centralizzazione e direzione unificata del Sistema da parte dei capitali privati in lotta tra loro, incapaci di programmazione e di gestione unitaria sul piano globale, avrebbe probabilmente portato al tracollo l’intero sistema. Se il capitalismo ha potuto non solo sopravvivere ma riprendere slancio e forza dopo le due Guerre mondiali, se ha superato anche la Grande Depressione del ’29 e non è stato travolto neanche in questi tredici anni di crisi profonda e prolungata delle economie occidentali, e se riuscirà anche a non farsi abbattere dalla crisi sociale ed economica della pandemia, è e sarà solo grazie al massiccio intervento dei principali Stati, capitalisti collettivi in grado di immettere tanta ricchezza ricavata dai cittadini/e nel salvataggio dell’intero sistema. Un corrispettivo di questa lettura erronea del capitalismo moderno è stata ed è anche la teoria del governo unico delle banche, cioè del dominio mondiale delle banche e delle cordate finanziarie unite in una Santa Alleanza globale. Teoria fragilissima se solo si pensi che gli enormi interventi che hanno tenuto a galla il capitalismo europeo e statunitense – e che si stanno spendendo per farli sopravvivere anche alla crisi da corona-pandemia – non sono stati fatti da multinazionali finanziarie private ma da Banche centrali nazionali, dalla Federal Reserve per gli USA e dalla BCE per l’Europa. Impresa che sarebbe stata impossibile per banche e gruppi finanziari privati, oltretutto in una continua e spietata concorrenza tra loro, tale da rendere del tutto irreali grandi progetti unitari e coordinati tra “squali” che, oltre a divorare i “pesci” più piccoli, hanno come imperativo strutturale anche quello di azzannarsi tra loro.
Invadenza, trasformismo e vacuità dei partiti “leggeri”
Ma qui ed ora, nell’Italia del 2021 affidata alla guida apparentemente monocratica di Mario Draghi, bisogna sfatare un altro luogo comune, tenace ma inconsistente come i precedenti trattati fin qui: quello della emarginazione/impotenza dei principali partiti di fronte al potere “sovrano” di Draghi. Si fatica a prendere atto, una volta per tutte, di quale sia oggi la vera natura dei maggiori partiti italiani. Essi non hanno più consistenti e stabili vincoli ideologici, teorici, culturali e politici, e figuriamoci se morali, da rispettare: sono in netta prevalenza, e con ben rare e episodiche eccezioni, micidiali quanto vacue macchine di potere, finalizzate a conquistarlo e mantenerlo; e le posizioni ideologiche e politiche sono quasi sempre intercambiabili come maschere, insopportabilmente “leggere”. Le “creature” provenienti dallo scioglimento del PCI, ad esempio, ne hanno abbandonato del tutto tesi o riferimenti, sposando il liberismo più scriteriato; e negli ultimi due anni l’indefinibile PD di Zingaretti ha inghiottito tutto il possibile: voleva andare alle elezioni nel 2019 dopo il crollo del governo Lega-5Stelle, ma poi, senza batter ciglio, si è associato ai tanto (e qui giustamente) vituperati Cinque Stelle; non voleva Conte come presidente del Consiglio e poi lo ha fatto diventare un proprio riferimento al punto che solo un mese fa Zingaretti tuonava “o Conte o elezioni”. E invece eccoli qua, alla corte di Draghi in attesa di cambiare nuovamente bandiera nel caso le quotazioni del “sovrano” dovessero crollare repentinamente. Del trasformismo berlusconiano non conta neanche parlare, mentre quello dei 5Stelle, che dovevano “aprire il Parlamento come una scatola di tonno” e divenuti oggi i “tonni” più abbarbicati alla “scatola”, batte ogni record: hanno rinnegato tutto e accettato tutto, continuando ad espellere, con ritmi senza precedenti, chiunque provi a ricordare i principi, pur cialtroni, dell’esordio. Per rapidità e sfacciataggine di virata a 180 gradi, la Lega ha però superato tutti, passando in pochi giorni dal sovranismo fascistoide e dalla caccia al migrante all’europeismo più esibito e alla cancellazione assoluta delle parole “migrante” e “sicurezza”. Ma attenzione: una volta preso atto dell’intercambiabilità di tesi e programmi all’interno dei partiti e tra di essi, guai a sottovalutare quanto potere resti in mano ad essi, potere che hanno tutta l’intenzione di difendere e se possibile di ampliare (e del gioco trasformista fa parte anche Meloni e FdI, che intendono lucrare sul monopolio dell’opposizione, nella certezza che le prossime elezioni saranno vittoriose per il centrodestra e la competizione riguarderà solo la carica di presidente del Consiglio, tra Lega e FdI). L’ingresso in massa dei partiti nel governo non segnala alcuna resa a Draghi, ma solo il desiderio di partecipare da protagonisti alla spartizione del “bottino”, la ferrea volontà di foraggiare le proprie consorterie, i propri circuiti affaristici, le proprie lobbies sociali.Certo, nel governo Draghi ci sono otto tecnocrati, messi a guardia di ministeri- chiave, che potrebbero tentare di avviare riforme strutturali dannose; ma sarebbe davvero assai ingenuo sottovalutare il potere di interdizione dei 15 ministri politici, scelti con il manuale Cencelli della vecchia DC, disinteressati a riforme strutturali (sulle quali peraltro avrebbero prevedibilmente posizioni diverse), che bloccheranno ogni provvedimento che non faccia gli interessi delle proprie consorterie, e dedicheranno il maggiore impegno a fare una guardia serrata all'”equa” ripartizione del “bottino”, pronti a battagliare tra loro e con il “sovrano” per garantirsela.
Per chi si fosse fatto fuorviare dall’esaltazione corale ricevuta da Draghi, basterà ricordare che un sondaggio di Demos misurava in un 80% della popolazione i favorevoli al governo, mentre per Ilvo Diamanti, su Repubblica, la maggioranza era addirittura dell’85%: solo che questo consenso plebiscitario era rivolta non a questo Mario (che è intorno al 60-65%, parrebbe), ma al SuperMario Monti di dieci anni fa. Scriveva all’epoca Diamanti «Le Camere hanno votato la fiducia a Monti con una maggioranza senza precedenti, ma non molto più larga di quella espressa dalla popolazione». Bastarono un paio di settimane e i primi provvedimenti “tosti”, e il consenso tracollò: e al plauso nazionale si sostituì l’avversione e l’ostilità. Per un leader in Italia, niente è peggio del’apparente e superificiale consenso unanime, della piaggeria corale, dell’adulazione generalizzata, dell’apprezzamento universale ipocrita e lesto a trasformarsi nel dileggio e nell’abbandono (vedi le sorti dei Renzi e dei Conte e, seppur in misura minore, dei Berlusconi e dei Grillo, solo per stare all’ultimo ventennio). Il fatto è che i partiti al governo, invece che preoccuparsi delle sorti dell’Italia, condurranno un anno (o due) di campagna elettorale permanente, non si occuperanno né dei presunti grandi piani del capitalismo italico (cialtrone e miserabilmente dipendente dallo Stato come ben pochi altri in Europa) né di grandi riforme strutturali che non saranno certo i tecnici di Draghi, generali senza esercito, a poter fare in piena libertà, avviluppati come saranno dalla burocrazia statale e territoriale, dalla magistratura e dai partiti di governo che intralceranno qualsiasi mega-progetto che non rientri nei propri ristretti interessi elettorali. Già nella prima settimana di governo, Salvini ha sparato a zero sul governo in ben quattro occasioni. E ritengo che andrà avanti sempre così: la Lega non vottà lasciare spazio a Meloni e romperà le scatole in continuazione, ma di riflesso lo faranno anche i 5Stelle, in fase di disgregazione e di continua perdita di consensi; e tra poco toccherà anche a Renzi il quale, oltre alla vittoria contro Conte, non ha ottenuto nulla per il proprio partito e resta bloccato ad uno sconfortante 2-3% nei sondaggi; e alla fine pure al PD toccherà lamentarsi e smettere di provare a fare il collante tra forze non saldabili. E poi le grandi riforme in Italia, che spingano a sinistra o meno, esigerebbero potenti, diffusi e incalzanti movimenti sociali come negli anni ’60 e ’70, l’unico periodo nella nostra storia repubblicana in cui riforme significative, seppur di stampo socialdemocratico, sono state portare a termine (anche se in parte rimangiate negli ultimi decenni). Altrimenti, nella terra del Gattopardo e del Franza e Spagna basta che se magna, della cialtroneria, del familismo amorale, delle mafie e della corruzione diffusa, saranno sempre depotenziate o annullati dalle consorterie dei poteri di varia dimensione, consolidati nel “cambiare tutto per non cambiare niente“.
Insomma, penso che le luminarie trionfali per Draghi si spegneranno presto, e non mi sorprenderei se il “sovrano” si giocasse quella presidenza della Repubblica a cui sembra tener molto e che gli avrebbe dovuto suggerire di aver la pazienza di aspettare, riflettendo sul fatto che é molto più difficile dirigere un governo italiano che la BCE, dove perlomeno aveva a che fare con gente ben strutturata e non con cialtroni disposti a rinnegare anche le mamme per un po’ di potere.
E noi?
Mi riferisco ad un noi piuttosto indefinito, tanto più in una fase che ha azzoppato spinte, desideri e speranze di significative mobilitazioni, a causa della pandemia. Dirò, con un grado di inevitabile genericità, che per chi intende lottare per la giustizia sociale ed economica, per il lavoro, il reddito universale, i Beni comuni e i servizi pubblici, a partire da scuola, sanità e trasporti, un governo che dipende da un blocco senza precedenti di partiti, saldati in un micidiale patto per la spartizione del “bottino”, costituisce un temibilissimo avversario che potrà essere contrastato solo da ampie coalizioni, che evitino l’illusione di poter spuntarla battendosi solo sulla propria tematica. I Cobas stanno cercando di dare il massimo contributo per creare, come tante volte hanno fatto in 35 anni di storia, tali coalizioni e per realizzare l’intersezione tra i vari conflitti possibili. Però, pur impegnandosi in tutti gli ambiti utili, i Cobas credono che nell’immediato vada data una precedenza alla catena sociale e politica che collega scuola, sanità, trasporto pubblico e lavoro, per garantire la massima sicurezza possibile contro la pandemia ma anche contro l’utilizzazione malsana e clientelare degli ingenti fondi a disposizione. In particolare, avendo difeso strenuamente – e in splendida solitudine tra i sindacati, operando anche nella coalizione di Priorità alla Scuola – la riapertura totale delle scuole, in parte ora raggiunta e che va mantenuta, ribadiscono al nuovo governo la richiesta urgente di: a) portare a 20 il numero massimo di alunni/e per classe; b) aumentare gli organici, assumendo a tempo indeterminato i docenti precari con almeno 3 anni di servizio e gli Ata con 2 anni; c) investire in modo rapido nell’edilizia scolastica e garantire tamponi, tracciamenti e servizi sanitari nelle scuole. Per quel che riguarda la Sanità pubblica, i Cobas ritengono decisivo: a) un significativo aumento delle risorse finanziarie e degli organici con l’assunzione a tempo indeterminato di medici, infermieri e altro personale sanitario; b) la revisione del Titolo V in tema di autonomia sanitaria alle Regioni, restituendo alla gestione nazionale le decisioni fondamentali; c) investimenti seri sulla medicina territoriale e ridimensionamento drastico della Sanità convenzionata. Il terzo punto cruciale per la lotta alla pandemia riguarda il trasporto pubblico per il quale le richieste sono: a) lo stop alle privatizzazioni e esternalizzazioni delle aziende, attivandone la ripubblicizzazione; b) la fine delle gare per l’affidamento del trasporto, passando all’affidamento diretto; c) il potenziamento mediante assunzioni di personale viaggiante e rinnovo/aumento dei mezzi. Per quel che riguarda infine il lavoro in generale, si chiede: a) la proroga del blocco dei licenziamenti e l’estensione della Cassa integrazione a tutti i lavoratori/trici; b) la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, e la definizione per legge di un salario minimo dignitoso; c) l’internalizzazione stabile del personale degli appalti della Pubblica Amministrazione, la valorizzazione e la garanzia di pieni diritti (eguali per migranti e stanziali) per il lavoro femminile e giovanile. Conseguentemente, in questi giorni i Cobas stanno valutando le forme della possibile mobilitazione su questi obiettivi, non escludendo di includervi anche lo sciopero qualora i segnali che arriveranno dal nuovo governo si dovessero rivelare negativi.
22 febbraio 2021