Durante il confronto/scontro con Renzi nella oramai famosa trasmissione di “Porta a Porta”, Matteo Salvini ha riconfermato quanto aveva già anticipato pochi giorni prima in un’intervista al Foglio: e cioè che la Lega non persegue affatto l’uscita dall’euro perché ”l’euro è irreversibile”. Ha poi ribadito tale posizione in un’intervista al settimanale francese Point: “L’euro è stato un brutto esperimento ma, dato che la storia non può essere riscritta, stiamo lavorando per ridurre i danni causati dalle politiche monetarie e finanziarie europee”. Nella stessa intervista, Salvini ha mostrato altri elementi rilevanti nel processo di revisione generale dell’impostazione leghista, così come si era manifestata negli ultimi anni e in particolare nell’esperienza di governo con il M5S. Ad una domanda sulla Brexit, ha risposto “Non sogno una Italexit ma vanno completamente cambiate le regole dell’Europa”. E alla critica sul suo precedente sovranismo a carattere protezionista, ha replicato che, al contrario, “da un punto di vista economico mi definirei assolutamente liberista”. E si è rimangiato anche le ben note polemiche e contestazioni nei confronti del papa (“Rispetto fedelmente le indicazioni del Papa e della gerarchia vaticana”), rigettando anche le obiezioni sul suo legame con Putin e sull’allentamento della storica alleanza con gli Stati Uniti, definendosi “atlantista” e lasciando intendere di amare molto più i nordamericani che i russi.
A ruota e a ulteriore conferma della svolta a 180 gradi della Lega sono arrivate nei giorni seguenti le dichiarazioni, ancora più significative e nette, di due autorevoli esponenti leghisti, Gian Marco Centinaio, ex-ministro delle Politiche Agricole nel governo Lega-Cinque Stelle, e Attilio Fontana, governatore della Lombardia. Centinaio è andato oltre Salvini, quasi che il Capitano avesse per un bel po’ abbandonato la posizione classica della Lega e oggi fosse stato costretto a tornare all’ovile originario: “Il ritorno alla moneta nazionale non è un’opzione. Salvini l’ha detto chiaro e tondo: noi vogliamo modificare l’Europa, cambiarne le regole, ma restando dentro. E’ la nostra visione da sempre, sin dalle origini. Adesso Salvini se ne riappropria”. E altrettanto nettamente: “La parentesi ‘no euro’ del 2014 è definitivamente chiusa. Già all’epoca si era rivelata divisiva ma si rivolgeva ad un’opinione pubblica più propensa ad un’eventuale uscita dall’euro, non solo in Italia ma anche in Grecia e nel Regno Unito. Ora, in un contesto profondamente mutato tutti concordano sul fatto che l’assetto europeo vada modificato restando nell’euro. L’Europa, schiava delle burocrazie, che si preoccupa della circonferenza delle zucchine e resta impotente di fronte al massacro dei curdi a opera della Turchia, va cambiata. Ma nessuno può fantasticare sull’uscita dall’euro, basta, quella fase è archiviata”. In totale sintonia con Centinaio, e in modo più esplicito dello stesso Salvini (ai quali i due, pur ribadendo che la linea della Lega la detta il segretario, sembrano voler rimproverare di aver sbandato, seguendo le cialtronate dei Bagnai e dei Borghi), ecco le più rilevanti dichiarazioni sul tema da parte di Attilio Fontana: “Che l’euro sia irreversibile, lo sostengo da tempo. Anche quando qualcuno nel mio partito diceva il contrario, io affermavo pubblicamente che l’euro è una necessità imprescindibile. Le parole del segretario non mi hanno sorpreso. Nel partito qualcuno si è detto possibilista sull’uscita dall’euro ma la maggioranza non l’ha mai ritenuta fattibile. L’Italexit non si può prendere neanche in considerazione, sarebbe una sciagura per il nostro sistema economico-finanziario”.
Peraltro questo drastico cambio di rotta – al di là dei tentativi di Centinaio e Fontana di sostenere che l’Italexit non sia mai stata davvero nei piani della Lega – , si accompagna con una più generale ritirata strategica dei sovranisti europei (che, usando termini consolidati storicamente, andrebbero definiti piuttosto nazional-sciovinisti), iniziata dopo il generale e inaspettato mancato successo nelle ultime elezioni europee, ingigantito poi dall’incapacità dei governi e dei partiti antieuropeisti di trovare una qualche intesa e strategia comune nell’Europarlamento e nella costituzione della Commissione europea. In Italia analogo mutamento di rotta è stato fulmineamente adottato dal M5S che, di punto in bianco dopo il clamoroso euro-flop elettorale, si è dichiarato fedele europeista e addirittura ha contribuito in modo decisivo a far eleggere la tedesca Ursula Von der Leyen alla presidenza della Commissione europea, dopo aver tuonato per anni contro la burocrazia di Bruxelles e l’asse franco-tedesco colpevole di tutte le disgrazie italiche e continentali. Analoghe e precipitose svolte a 180 gradi nei riguardi dell’euro e dell’Unione Europea sono state operate un po’ ovunque, a partire dalle dichiarazioni di Marine Le Pen a proposito del fatto che la prospettiva di far uscire la Francia dall’euro e dalla UE è oramai definitivamente archiviata da parte del suo Rassemblement National, o dallo smaccato opportunismo dei vari Orban e Kaczynski, sulla carta ultrasovranisti, i quali, pur di conservare le laute sovvenzioni europee, hanno schierato Ungheria e Polonia a favore dell’elezione di Von der Leyen al massimo scranno europeo.
Però, tornando in Italia, si farebbe un errore marchiano se si ritenesse che l’abbandono della carta antieuro e nazional-sciovinista da parte della Lega porti ad un indebolimento o ad un “ammorbidimento” della politica salviniana. Il cuore del consenso, tributato al leader della Lega da parte di un vastissimo popolaccio xenofobo e securitario, non è mai stata la ventilata idea dell’uscita dall’euro: anzi le cervellotiche idee dei Borghi e dei Bagnai, strombazzate in tanti talk televisivi, hanno casomai tenuto in costante allarme quei settori industriali, finanziari e commerciali che, soprattutto nella piccola e media impresa e nei ceti professionali, hanno storicamente costituito il vero zoccolo duro del consenso leghista nel Nord Italia. I tre elementi-chiave, che spiegano il grande balzo in avanti compiuto, anche nel Centro-Sud, dalla Lega salviniana soprattutto nel suddetto popolaccio razzista e ossessionato dalla piccola criminalità (che è cosa distinta dai cosiddetti ceti “produttivi”, professionali e middle class del Nord Italia), sono, nell’ordine, a) l’ingigantimento dei sentimenti xenofobi di vasti settori popolari e ceti middle class particolarmente colpiti dalla crisi economica – e dunque la guerra dichiarata ai migranti, a nomadi e anche a rom e sinti stanziali-; b) il cavalcare e amplificare le fobie securitarie indifferenti ai dati reali su crimini e reati – e dunque il Salvini poliziotto, carabiniere, Guardia di finanzia o penitenziaria con tutto l’armamentario di divise e di tweet inneggianti alla “tolleranza zero” –; c) il messaggio sempreverde della drastica riduzione delle tasse (la flat tax, appunto), il cui impedimento da parte dei Cinque Stelle viene oggi citato da Salvini come la vera causa della caduta del governo giallo-nero.
Tutti questi punti di obiettiva forza della narrazione salviniana restano ancor oggi a favore della Lega e le danno, come ha ampiamente dimostrato la piazza di S. Giovanni (anche se i numeri sono stati ben minori di quelli sbandierati dal palco, i 50 mila dichiarati dalla polizia sono più o meno il dato reale), l’egemonia assoluta nel resuscitato schieramento di destra d’antan, seppure in presenza di una non trascurabile crescita del consenso di Fratelli d’Italia e personale di Giorgia Meloni e di fronte ad un Berlusconi sempre più spento e irrilevante e ad una Forza Italia prossima alla deflagrazione. Tanto più che Salvini, la Lega e la destra radicale, xenofoba, fascistoide e securitaria che rappresentano, vengono e verranno ulteriormente rafforzati – passato lo sconcerto dei sostenitori/trici per il clamoroso autogol che ha demolito il precedente governo – dalla penosa inconsistenza del secondo governo Conte e dalla rissosità senza precedenti tra i partiti che lo sostengono, che in confronto sta facendo sembrare baruffe di poco conto persino le polemiche e gli scontri che avevano caratterizzato la pur difficile coesistenza tra Cinque Stelle e Lega nel precedente governo. Non c’è un solo caso nel dopoguerra italico di governo così demenzialmente e autolesionisticamente in conflitto interno, dopo neanche due mesi dall’esordio, come si presenta oggi il secondo governo Conte. La coalizione dei quattro partiti più lo stesso Conte, che oramai sembra un partito a se stante, appare un micidiale campo di battaglia, ove le forze in campo (ma in realtà soprattutto la neocreatura renziana e i Cinque stelle versante Di Maio) alimentano una polemica continua al fine di strappare piccole dosi di consenso sondaggistico alle forze più simili e vicine, lottando non già su diverse opzioni strategiche o orientamenti politici davvero alternativi ma su dettagli e punti programmaticamente irrilevanti (la tassa sulle bevande zuccherate, merendine e voli aerei, il limite del contante, gli anni di galera da distribuire a potenziali evasori fiscali beccati con le mani in un “sacco” che contenga almeno un centinaio di migliaia di euro ecc.).
In questa guerriglia quotidiana svaniscono tutte le differenze politiche, ideologiche, culturali e persino le appartenenze di partito e si sconfina quotidianamente nella psicopolitica o nella egopolitica, ove l’unico riferimento plausibile per capirci qualcosa sono le ossessioni, le paure, le velleità e i desideri di singoli leader oramai svincolati persino dai controlli dei propri partiti o basi politico-culturali. Già il trasformismo italico aumentato a dismisura negli ultimi tempi, e senza pari negli altri paesi europei, ci aveva dimostrato, sia nella formazione del primo governo Conte sia nel passaggio al secondo, che oramai qualunque partito può cambiare orientamenti, anche a 180 gradi, da un giorno all’altro e allearsi al nemico di ieri, colpendo l’amico di poco prima andando all’improvviso a braccetto col nemico del suo nemico attuale. Ma ora si va anche oltre, perché assistiamo ad alleanze non solo con quelli che fino a ieri erano additati al popolo come dichiarati nemici storici ma anche a contrasti e conflitti sanguinosi tra leader dello stesso partito a fini di posizionamento personale. Qui ed ora, ad esempio, e in attesa che passando dall’autunno all’inverno il quadro di alleanze e ostilità muti di nuovo radicalmente, verifichiamo una singolare alleanza (e citerò i leader, visto che i riferimenti ai partiti sono oramai aleatori) tra Conte, Zingaretti e Grillo nella difesa strenua del governo e un’opposizione Di Maio-Renzi, che ammicca senza troppe remore anche a Salvini, impegnati a far saltare la leadership di Conte.
In questo ed altri, in apparenza laceranti, conflitti non c’è traccia di serie divergenze teoriche, ideologiche, politiche o culturali, ma solo la sconcertante evidenza di un brutale scontro per la crescita delle proprie posizioni di potere e del proprio ruolo partitico e ancor più personale, incurante non dico delle necessità della grande maggioranza degli italiani/e ma finanche del grave rischio di restituire, e pure in breve tempo, il potere, stavolta davvero maggiorato e “pieno”, alla destra estrema e a Salvini. I maggiori “guastatori”, in primo piano quotidiano nell’azione demolitoria, sono senza dubbio Matteo Renzi e Luigi Di Maio, esattamente coloro che, paradossalmente, perderebbero di più nel caso di un ricorso a breve alla prova elettorale e dunque proprio coloro che dovrebbero più darsi da fare per tenere comunque in vita il governo. Gli è che, proprio in una prospettiva di psicopolitica o di politica dell’Ego, il meschino rovello di Di Maio è impedire a Conte di prendere possesso della leadership del M5S e di costituirsi un proprio partito personale saccheggiando le “casse” dei Cinque Stelle, nonché quelle della comatosa Forza Italia (giorni fa Osvaldo Napoli, democristiano di lungo corso e poi tra i più ascoltati dirigenti di Forza Italia, confessava che, se Conte promuovesse un suo partito personale, almeno trenta parlamentari di FI passerebbero da un giorno all’altro con lui): e in una logica mors tua vita mea, Giggino è anche disposto a rischiare uno scontro frontale con il vate Grillo, massimamente schierato, da parte sua, in una prospettiva di compromesso storico PD-M5S di lungo corso e di sostituzione di Conte al Di Maio nella guida politica dei suoi grillini.
Più complesse e ambivalenti (ma anche più confuse e improvvisate di quanto dicano gli opinionisti mainstream) appaiono le intenzioni di Matteo Renzi, anch’esso all’assalto quotidiano della diligenza governativa e pure in gara con Di Maio per chi la spara più grossa giorno per giorno e per chi, conseguentemente, si accaparra i titoli migliori sulla stampa e in TV. Molti commentatori ritengono che l’obiettivo di Renzi sia la costituzione di una neo-DC, una sorta dunque di rinnovata “balena bianca”. Ma l’obiettivo, se fosse vero, sarebbe del tutto irrealistico. E non solo per ciò che un po’ di tempo fa sottolineava un ex-leader della DC d’antan, Guido Bodrato, usando una metafora quanto mai calzante: “La DC era come un vetro infrangibile. Quando è andata in frantumi, si è dissolta in mille pezzi e non è più ricomponibile”, come hanno confermato tutti gli innumerevoli, e disastrosi, tentativi in questi ultimi tre decenni di ricostituire un grande contenitore innanzitutto per il mondo popolare cattolico, centrista e moderato. Ma anche e soprattutto perché il programma di Italia Viva è un confuso e altalenante affastellarsi di temi contraddittori che si rivolgono a ceti e strati sociali cangianti, senza un filo conduttore ma seguendo, come nel modello Cinque Stelle, gli umori e i trend mediatici e internettiani, alla ricerca affannosa di un ipotetico Centro sociale e politico, moderato, riformista e liberale che è l’Araba Fenice italiana fin dai tempi degli infruttuosi e sconsolati tentativi dei La Malfa, Saragat o Malagodi e dei loro partiti repubblicani, socialdemocratici e liberali, mai andati oltre percentuali elettorali oscillanti tra il 3 e il 5%. In verità, l’unico concreto modello perseguito da Renzi e dai suoi è la riproposizione di una nuova Forza Italia, più social-liberista, un po’ ecologista e più attenta ai diritti civili, come ha platealmente dimostrato l’arringa finale del conducator fiorentino alla Leopolda, con una oscena esaltazione del Berlusconi “moderato, riformista, liberale e europeista”, di cui Renzi ha cercato di riscattare tutte le peggiori infamie, al dichiarato scopo di spartirsi con la Lega una parte delle future “spoglie” della comatosa Forza Italia: che è poi anche la ragione della guerra a Conte, la cui attrattiva finisce per esercitarsi più o meno nella stessa direzione. Altro che Macron italiano!
Di fronte a questa guerriglia permanente, appare già lampante che il governo non sarà in grado di modificare significativamente la stagnazione economica italica, non restituirà salario e reddito a milioni di persone, né servizi sociali né Beni comuni, e nemmeno rilancerà investimenti produttivi utili e positivi per uscire davvero da una crisi che, seppur più in sordina che nel recente passato, continua a mietere vittime tra i salariati e tra i settori più deboli della società. Il secondo governo Conte cercherà di vivacchiare con piccoli aggiustamenti qua e là, ma seguendo nella sostanza le linee economiche e sociali degli ultimi governi, sperando nell’intervento di uno “stellone” europeo di cui però non si intravedono tracce e fin tanto che la corda tirata dalle componenti più scalpitanti non finirà per spezzare i già molto precari equilibri tra i partner di governo.
Ma, venendo in ultimo a noi e al nostro mondo, tale contesto sembrerebbe il più favorevole per un rinnovato protagonismo di una sinistra alternativa, conflittuale, antagonista all’esistente, dalla parte degli ultimi e dei penultimi, del popolo migrante e di quello stanziale, di quello solidale, antirazzista e antixenofobo, che desidera la giustizia sociale, economica, ambientale e climatica. Come COBAS ci abbiamo provato a far ripartire questo buon popolo e a permettergli di “addensarsi” intorno alla lotta contro i decreti Salvini, contro il razzismo e l’ossessione securitaria, per fermare la canea fascistoide e liberticida ben simboleggiata dalla gestione salviniana del Ministero degli Interni e dalla sua egemonia nel precedente governo. Siamo partiti bene il 10 novembre dell’anno scorso con oltre centomila persone in piazza a Roma su tali obiettivi. E sull’onda di tale clamoroso successo, che coinvolse oltre 500 organizzazioni, comitati, reti, sindacati di base e collettivi, abbiamo costituito il Forum Indivisibili e Solidali che ha cercato di interloquire con gli altri movimenti in campo – quello ambientalista e “climatista” così come quello femminista – per costituire un fronte comune che provasse a cambiare il clima soffocante e reazionario provocato e ingigantito dal salvinismo. Di mobilitazioni locali, in sintonia con le nostre iniziative, ce ne sono state tante e si sono intrecciate con quelle degli altri movimenti e delle altre reti, da Non Una di Meno a Friday for Future, passando per i tanti NO territoriali alle Grandi Opere dannose e inutili. E alla fine, certo per un vero e proprio “autogolpe” e per contrasti interni al vecchio governo, Salvini, almeno per il momento, è stato defenestrato. Ma non possiamo essere soddisfatti dello stato generale dell’attuale opposizione di sinistra ai programmi economici e sociali dominanti, restati in buona parte in piedi nel passaggio dal primo governo Conte al secondo, nei cui confronti la nostra ostilità resta netta e ad ampio raggio, seppur siamo in grado di distinguerlo dalla gestione fascistoide del precedente. Quello che non siamo riusciti a fare è mettere in campo stabilmente un’Alleanza organica, una forte coalizione che sappia affrontare insieme i vari fronti conflittuali, che non ricerchi egemonie né contenutistiche né organizzative al proprio interno e che riesca ad influire significativamente anche sulle istituzioni e sui poteri, portando a casa via via risultati significativi di positivo cambiamento, senza aspettare palingenetici, globali e assai improbabili, almeno al momento, rovesciamenti dei rapporti di forza con i poteri economici e politici. Ci riproveremo anche nei confronti di questo governo, a partire dalla manifestazione nazionale del prossimo 9 novembre a Roma che promuoviamo come Forum Indivisibili e Solidali (di cui i COBAS sono componente fondativa e rilevante) insieme alle aree romane dei movimenti per la casa e dei centri sociali riuniti sotto la sigla di Energie in movimento. Chiederemo l’abolizione delle leggi Minniti-Orlando-Salvini, la chiusura immediata di CPR e lager di Stato, la riapertura dei porti per continuare a salvare vite, accoglienza incondizionata per tutte/i, la regolarizzazione generalizzata e permanente dei migranti attualmente senza documenti, la libertà di attraversare i confini senza vedersi opposti visibili ed invisibili muri, di mobilitarsi ed esprimere dissenso contro chi comprime i diritti sul lavoro, nega il diritto alla casa, fomenta l’esclusione sociale e impone come norma il razzismo e la xenofobia nella vita quotidiana.