di Michele Nobile
1. Soldati russi, tornate a casa! Pacifismo umanitario e pacifismo rivoluzionario
Nelle piazze del mondo si chiede che terminino immediatamente le ostilità in Ucraina, che si porti soccorso alla popolazione civile bombardata e costretta – a milioni – a rifugiarsi all’estero, che si assicuri al popolo ucraino di vivere in pace e di fare liberamente le sue scelte, quali che siano. E poiché oggi l’Ucraina è invasa dalle forze russe e i civili sono bombardati da missili russi, la parola d’ordine elementare non è yankee go home ma soldati russi, tornate a casa!
Lo slogan è insolito ma ha dei precedenti: valeva per l’invasione dell’Ungheria nel 1956, per quella della Cecoslovacchia nel 1968, per l’Afghanistan negli anni Ottanta – e del XXI secolo – e per la Cecenia nel decennio seguente. Esso ci dice che non esiste un solo imperialismo. Ed è ovvio per il pacifismo coerente, rivolto contro tutte le guerre, che vuole che si sciolgano le alleanze militari, che si ponga fine allo sperpero di denaro per accumulare armi; che rivendica il disarmo unilaterale degli Stati e, innanzitutto, la distruzione degli arsenali nucleari e degli strumenti di distruzione di massa. Il pacifismo umanitario rifiuta la violenza ma promuove l’azione diretta e la partecipazione di massa alla lotta per la pace.
La posizione pacifista e umanitaria è dalla parte giusta del progresso dell’umana civiltà. È una posizione moralmente sana, perché rivolta in modo universale contro ogni guerra e contro qualsiasi forma di militarismo. È sana perché persegue la coerenza tra i mezzi e il fine. È sana perché non riconosce come giusti accordi «di pace» sottoscritti sotto la costrizione di un esercito invasore.
Tuttavia, non è questa l’unica forma di lotta per la pace. Da un secolo a questa parte i movimenti contro la guerra che hanno avuto maggiore impatto sulla storia mondiale sono stati quelli scaturiti dalle lotte contro il conflitto tra gli imperialismi della Prima guerra mondiale e dall’aggressione statunitense al Vietnam. Dal primo sorsero il biennio rosso delle rivoluzioni in Russia, in Germania, in Austria, in Ungheria e la formazione dell’internazionalismo rivoluzionario organizzato nell’Internazionale dei partiti comunisti. Il movimento contro la guerra in Vietnam fu l’incubatore e l’anima di quell’insieme di processi e movimenti che culminarono nel «1968», incarnato dall’esempio di Ernesto Che Guevara e dal momento di crisi più acuta degli imperialismi «occidentali». E ricordo anche le proteste contro l’invasione sovietica della Cecoslovacchia.
Ovvia la differenza tra questi movimenti rivoluzionari e il pacifismo umanitario. Che sia laico o cristiano, per quest’ultimo non deve esserci differenza tra morale e politica. Quindi i mezzi di lotta devono essere integralmente coerenti con la finalità: esso respinge l’utilizzo della violenza da parte di chiunque. Invece, la lotta per por fine alla Prima guerra mondiale si radicalizzò fino a rovesciare l’autocrazia zarista e, sull’esempio della Russia, presentò il conto del massacro alle classi dominanti e ai governi di altri Stati. Mezzo secolo dopo, il contrasto tra la pretesa di difendere il «mondo libero» e il massacro in Vietnam spinse milioni di giovani a rivendicare per le strade del mondo non la conferma della spartizione del Vietnam (dopo la sconfitta del colonialismo francese, imposta da Unione Sovietica, Cina e Stati Uniti) ma la cacciata delle forze statunitensi e l’unificazione del Paese.
Dunque, per questi movimenti il rapporto tra morale e politica era ben più complesso che nel caso del pacifismo integrale e non-violento, e anche foriero di dilemmi e contraddizioni.
Tuttavia, tra il pacifismo integrale e umanitario e il pacifismo rivoluzionario esistevano ed esistono importanti convergenze che spiegano perché, in determinate circostanze, fosse e sia possibile trapassare da uno all’altro: entrambi rigettano la ragion di Stato, secondo cui le esigenze della «sicurezza nazionale» giustificano guerre aperte e coperte; conseguentemente, entrambi rifiutano come false e ipocrite le giustificazioni «difensiviste» delle guerre, sempre portate da ciascuno degli Stati belligeranti per giustificare le reciproche aggressioni; condividono l’obiettivo dell’uscita unilaterale dai blocchi militari, si tratti della NATO o, un tempo, dal Patto di Varsavia o ora dall’Organizzazione del Trattato di sicurezza collettiva (Russia, Armenia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan). Entrambi esigono la distruzione unilaterale degli arsenali nucleari, che sono minaccia diretta alla civiltà e alla vita, strumenti la cui produzione e possesso deve essere considerata come un crimine contro l’umanità; entrambi si basano sull’azione diretta e la mobilitazione di massa; entrambi diffidano dei poteri esistenti e si oppongono a soluzioni diplomatiche tra le potenze che non soddisfano o non garantiscono la libertà e l’indipendenza reale dei popoli; entrambi si oppongono al militarismo, alla spesa militare e alla militarizzazione della politica.
Le differenze tra il pacifismo integrale e umanitario e il pacifismo rivoluzionario possono ricondursi al fatto che il secondo ha una visione del mondo più realistica: insieme alle forme di lotta pacifica ammette l’autodifesa contro le forze armate dell’oppressore. È una posizione realistica perché basata sull’esperienza che le classi dominanti e gli Stati non rinunceranno mai spontaneamente al militarismo, alla guerra e all’imperialismo, perché questi fenomeni sono inseparabili dalla struttura gerarchica dell’economia mondiale capitalistica e dal sistema internazionale degli Stati. In definitiva, dal punto di vista del pacifismo rivoluzionario il fine di una umanità unita e in pace può realizzarsi solo attraverso la radicale trasformazione dei rapporti sociali in ciascun paese e, per lo stesso motivo, si fonde con la lotta contro l’oppressione e lo sfruttamento in tutto il mondo e – si deve aggiungere dopo un secolo di esperienza – contro l’oppressione di qualsiasi casta burocratico-statale pseudosocialista.
Pacifismo coerente e rivoluzionario hanno altre due caratteristiche comuni. Sono congenitamente internazionalisti, perché intendono la lotta contro la guerra e il militarismo come fatto mondiale e transnazionale. Il pacifismo genuino condanna tutte le aggressioni e non si schiera con nessuno dei campi in conflitto. E anche il realismo del pacifismo rivoluzionario ha una sua coerenza etico-politica: non si spinge fino a giustificare l’utilizzo di qualsiasi mezzo e azione in nome del fine e del colore della bandiera. La rivoluzione si sostiene ma non si esporta, gli Stati e gli apparati partitici e militari non possono sostituire l’azione e l’organizzazione autonoma degli oppressi. Il ricorso alle armi non è di per sé né emancipatorio né rivoluzionario. Rivoluzionaria è solo l’auto-emancipazione degli oppressi, la trasformazione dei rapporti sociali coniugata alla massima libertà e autogestione.
Il pacifismo rivoluzionario ha dunque una posizione moralmente difficile perché deve continuamente vigilare sul rischio di degenerazione dei mezzi e delle forme di lotta, al punto che mezzi e forme di lotta possono rovesciarsi in fine autonomo, produrre apparati e logiche di potere che si impongono sulla società, una nuova forma di dominio e la complicità con esso. Deve porre la massima attenzione a non cadere nella trappola della doppia morale e nell’applicazione di diversi criteri di giudizio a seconda della convenienza.
Il «campismo» e il «realismo» della ragion di Stato sono nemici del pacifismo autentico in ogni sua forma.
2. La sinistra reazionaria e l’aggressione all’Ucraina
Ho detto prima del realismo del pacifismo rivoluzionario ma a sinistra esiste un «realismo» completamente diverso, che per questo metto tra virgolette. Che è appunto quello che «comprende» o giustifica l’aggressione di Putin all’Ucraina scaricandone la responsabilità sulla NATO, in sostanza minimizzando la natura imperialista dell’aggressione dell’oligarchia russa al popolo dell’Ucraina. È il genere di pseudopacifismo ridicolizzato da Lenin e Rosa Luxemburg: quello che per pace intende l’«equilibrio» tra gli interessi delle potenze e il rispetto delle loro zone d’influenza, riducendo i popoli a oggetto di scambio.
Ne fornisco un campione: un articolo di Barbara Spinelli. Scelgo questo tra altri articoli ipocritamente «equidistanti» o apertamente pro-Putin per la sua apparente ragionevolezza, perché Spinelli è figura autorevole, già deputata europea nel gruppo di Sinistra europea unita/Sinistra verde nordica (GUE/NGL), giornalista che da decenni scrive su testate nazionali come La Repubblica, Il Corriere della sera, Il fatto quotidiano. L’articolo in questione del 21 marzo è significativamente titolato «Ucraina, l’Ue ignora i nostri interessi». Esordisce lamentando il numero «spropositato di menzogne» e la visione manichea dei commentatori; sostiene che se l’Ucraina dovesse entrare nella Unione Europea «l’egemonia nell’Unione sarà esercitata dall’Est, con Berlino che fungerà da arbitro avendo deciso di ergersi a potenza militare di primissimo piano». Nella genealogia della guerra è in primo piano l’allargamento della NATO «fino alle porte della Russia, per volontà dei Presidenti Usa». Si invocano il ritiro delle sanzioni, al fine di aprire trattative con la Russia, e l’accettazione del multipolarismo. E, dulcis in fundo, un compendio genealogico.
La genealogia della guerra ucraina non è ignota. Comincia quando la Nato promette di accogliere Kiev, nel 2008 a Bucarest; continua con la destituzione nel 2014 del Presidente Janukovyc, colpevole di aver ribadito la neutralità scelta dopo la fine dell’Urss; prosegue nel 2019 con l’adesione alla Nato iscritta nella Costituzione. Sempre nel 2014 scoppia la guerra nel Donbass, e il neonazista battaglione Azov viene inserito nell’esercito regolare ucraino. Gli accordi di Minsk-2 chiedevano che venissero concesse vere autonomie al Donbass, anche linguistiche, ma Kiev si opponeva
L’articolo e specialmente l’ultima citazione, presenta i fatti in modo da far risalire «la genealogia della guerra ucraina» alla NATO e all’Ucraina. Così che l’articolo di Spinelli propone una narrazione della genealogia della guerra in Ucraina che, in sostanza, è la stessa della giustificazione «difensivista» di Putin, che è poi la «difesa» dell’imperialismo più arretrato dalla forza d’attrazione dell’imperialismo più ricco e dinamico. Trascura che quella del 2008 circa l’ingresso nella NATO di Georgia e Ucraina era promessa assai vaga, fatta apposta per evadere il problema, e che tale è infatti rimasta per i successivi 14 anni. Viktor Janukovyč appare un qualsiasi Presidente arbitrariamente destituito perché neutralista: non si dice che rappresentava l’oligarchia industriale e finanziaria più potente dell’Ucraina e legata al regime russo, appunto quella orientale e del Donbas (ma Donbass in russo). Non si dice che dal 1997 al 2002 Janukovyč era stato governatore dell’Oblast di Doneck, poi primo ministro nel 2002-2005, Presidente dal 2010. Qualcosa che dovrebbe indurre qualche dubbio circa la «persecuzione» o – addirittura – il «genocidio» dei cittadini ucraini russofoni e far intendere che le proteste popolari che condussero alla fuga di Janukovyč, costate oltre un centinaio di morti, volevano appunto farla finita con l’arroganza dell’oligarchia, la corruzione, il nepotismo. Speranze tradite, perché a un gruppo oligarchico se ne sostituì un altro – anche grazie alla situazione causata dall’annessione della Crimea e dalla guerra – motivo d’alienazione politica che ha portato poi a eleggere Presidente la variante ucraina di Beppe Grillo. Spinelli ricorda lo scoppio della guerra in Donbas – ma chi l’ha fatta scoppiare, il demonio? – ma non l’immediato precedente dell’annessione della Crimea da parte della Russia. Tace sull’intervento diretto delle forze armate russe in Donbas e sul blocco dei porti di Mariupol e Berdjans’k nel 2018. Cita l’indirizzo della Costituzione ucraina circa la NATO, ma non dice che per la maggior parte dei membri della NATO questo è un desiderio tanto sgradevole quanto unilaterale, col metodo «genealogico» riconducibile alle mutilazioni territoriali messe in atto nel 2014 dalla Russia e alla concreta minaccia di una potenza nucleare, che vent’anni prima s’era impegnata a non usare mai le armi contro l’Ucraina. Spinelli coordina però la frase sulla Costituzione con quella sul battaglione Azov, cosa che suggerisce un nesso causale: la politica Ucraina orientata dai neonazisti, Paese che nutre in realtà molte illusioni sull’«Europa» come sinonimo di democrazia, ma che Putin vuole «denazificare» bombardando le città. Con lo stesso metodo – ma con qualche serio motivo – si potrebbe spiegare la decisione di Putin con il cedimento alle numerose organizzazioni – in Russia da tempo ben più consistenti e influenti del battaglione Azov – che aspirano a ricostituire l’Impero zarista, alle guardie bianche e ai fascistoidi eurasiatisti del genere di Aleksandr Dugin. E poi pare che tutto l’affaire della lotta armata in Donbas possa ridursi alla cattiva volontà di Kiev circa le «vere autonomie» – ma negli Oblast in cui il Partito delle regioni aveva un potere che la Lega Nord può solo sognare – come se l’obiettivo degli attivisti filo-russi insorti fosse questo e non la separazione dall’Ucraina, proclamata già il 7 aprile 2014 con la formazione delle Repubbliche popolari di Doneck e Lugansk, diversi mesi prima degli accordi Minsk II, che sono dell’11 febbraio 2015. Invoca il multipolarismo, ma non dice nulla sulla sostanza sociale e politica di questi molti poli. E se proprio si vuole utilizzare questa terminologia astratta, si potrebbe prendere in considerazione il fatto che la Prima e la Seconda guerra mondiale accaddero in un mondo senz’altro multipolare.
Una professionista non accumula frasette così congegnate per esigenze di sintesi, né per caso: o è terribilmente ignorante o ha un intento preciso. Condito con salsa europeista e nazionale: la UE sbaglia a sanzionare la Russia e questo non è neanche l’interesse dell’Italia. Cioè dei capitali italiani ed europei investiti o investibili in Russia?
Sull’ambiguità, le divisioni interne e le contraddizioni delle relazioni tra Ucraina e NATO (e Unione europea) rimando a un prossimo articolo. Qui basta annotare che, per quanto lo si possa deplorare, l’allargamento verso est della NATO (o della UE) non è stato imposto con bombardamenti o colpi di Stato, ma è stato voluto dai governi e dai parlamenti degli ex satelliti sovietici, costituiti sulla base di elezioni non contestate. Ci si chieda perché. È curioso come i «sovranisti» e gli antiamerikanisti considerino i popoli e i governi degli Stati «minori» come dei bocconcini che i mostri monolitici NATO e UE ingoiano in un batter d’occhio. Non pare considerino che sono anche soggetti attivi, benché in condizioni d’ineguaglianza, che hanno i loro interessi, aspirazioni e illusioni. Per chi è povero non è cosa da poco potersi muovere attraverso le frontiere, migrare in Paesi con redditi medi più alti e mandare soldi a casa. In Ucraina (e in Russia e in Bielorussia) «Europa» significa questo e la speranza che finisca un capitalismo particolarmente predatorio. Illusioni? Si, ma occorre farci i conti e, comunque, non si può negare con la corruzione e la forza delle armi il diritto a scegliere ed eventualmente disilludersi.
Spinelli conclude problematicamente, affermando che Putin «è riuscito a resuscitare la Nato, a incollare UE e amministrazione Usa» vero e pure scrivendo, bontà sua, «non neghiamo che Mosca sia l’aggressore». Ma se Putin è l’aggressore, allora perché togliere le sanzioni? Il mondo e i pacifisti devono calarsi le brache di fronte a una potenza nucleare, sia essa la Russia, gli Stati Uniti oppure Israele? La «genealogia non è ignota», cioè pare discendere tutta da un imperialismo, quello della NATO (che poi non è uno ma una coalizione di imperialismi e Stati minori) ma «non supponiamo nemmeno che Putin faccia i propri interessi»: cioè forse Putin attende migliori consigli da una giornalista italiana? Forse Putin è miope, ma non è sciocco. Persegue quelli che ritiene essere gli interessi della propria amministrazione e dell’oligarchia russa, ha aggredito l’Ucraina per rafforzarsi internamente, stringere la morsa sull’Unione eurasiatica e fare in modo che, se non può avere l’Ucraina nell’Unione, allora agli altri non resteranno che rovine. È l’ultimo atto per affermare la Russia come grande potenza e difendere la sua sfera d’influenza, ridimensionata dall’allargamento dell’Unione Europea e della NATO? Sì, ma l’«equilibrio» tra le potenze non può essere motivo di giustificazione. Altrimenti, con la stessa logica, si giustificano la Baia dei porci, il blocco di Cuba, il sostegno alla contras antisandinista, l’invasione di Grenada e di Panama e altro ancora: tutti eventi nella regione che per l’imperialismo statunitense sono il suo «cortile di casa», come per l’imperialismo russo è l’Ucraina. Anzi, per questo imperialismo l’Ucraina non è altro che la piccola Russia, uno Stato che non dovrebbe esistere.
E quale mancanza spicca nell’articolo? Non dico la solidarietà attiva ma la cristiana compassione per il popolo dell’Ucraina: per la gente comune, non per Volodymyr Zelens’kyj. C’è una sinistra pronta a caricare a testa bassa l’imperialismo USA ma che a proposito della Russia e della Cina si addentra nei sofismi e nella genealogia. Tuttavia, è cieca all’evidenza e volgare nella genealogia. Non è né umanitaria né rivoluzionaria. È reazionaria.
Quale che sia la lontana genealogia della guerra, l’Ucraina non è stata invasa dai marines o dalla Germania ma dalla Russia. La gente dell’Ucraina non è bombardata da missili NATO o europei ma russi. Gli ucraini resistono e combattono, ma la logica della sinistra reazionaria è che le potenze debbano mettersi d’accordo, nell’interesse del capitale italiano, europeo e russo ma alle spalle e sulla pelle della chiara volontà degli ucraini. La sinistra reazionaria non pensa che le piazze del mondo debbano riempirsi gridando vergogna e indignazione per l’aggressione all’Ucraina; né pare interessata a sostenere il pacifismo in Russia.
Insomma: le vittime ammettano d’avere un pistolone puntato alla tempia, i briganti si spartiscano il territorio e convivano in pace in un mondo multipolare.
È quanto accadrà, ma una cosa è certa: questo non è pacifismo, né umanitario né cristiano né rivoluzionario. È invece qualcosa che segue una vecchia logica: quella della ragion di Stato, dei Metternich e dei Bismarck. Quella che affida la pace alla mediazione tra le superpotenze, le stesse che scatenano le guerre e si armano di missili nucleari. È una logica Stato-centrica che, inoltre, non permette di comprendere le ragioni reali dell’aggressione di Putin né, quindi, gli sviluppi futuri del militarismo e del nazionalismo imperiale grande-russo. Sviluppi che sembrano riportare la Russia al tempo in cui era il bastione della Restaurazione e il bastone delle legittime dinastie europee.
La sinistra reazionaria è nostalgica delle sfere d’influenza della Guerra fredda e ben disposta nei confronti dei regimi dittatoriali. Solo che oggi non si tratta dello pseudosocialismo sovietico ma dell’imperialismo della Russia di Putin, il cui sogno imperiale è destinato a fallire perché non si possono far tornare indietro le lancette della storia. Tuttavia, prima di crollare minato dalle contraddizioni, questo sogno reazionario semina e può ancora seminare morte e distruzione.
Sul piano della valutazione etica e politica, la guerra di Putin contro l’Ucraina è una guerra che viola i sentimenti di umanità e civiltà, in questo non discostandosi dalle guerre volute dagli Stati Uniti, come quella contro l’Iraq. Non ci si può preoccupare degli interessi della UE e dell’Italia mettendo da parte gli ucraini e le ucraine in carne ed ossa, le cui vite e le cui case sono distrutte, mentre contrastano l’invasione con tutti i mezzi a loro disposizione.
Altrimenti non si otterrà altro che il disprezzo di chi subisce le bombe di Putin e combatte contro l’esercito d’invasione russo. La loro libertà è la nostra libertà.
Piero Bernocchi