Il Draghi accolto in queste settimane come il salvatore della patria non è quello che nel 2011, insieme a Jean Claude Trichet, intimava al governo Berlusconi durissime condizioni di austerità e tagli, provocandone la sostituzione con il tecnocrate “lacrime e sangue” Mario Monti. Tra quel Mario e questo c’è la stessa differenza esistente tra la disastrosa politica di austerità e di blocco della spesa pubblica imposti allora dall’Unione Europea, e l’attuale politica monetaria e di bilancio espansiva, con la centralità della spesa pubblica in deficit per far ripartire l’economia: svolta i cui maggiori artefici sono stati proprio Draghi e Angela Merkel. Chi confonde l’attuale Draghi con il Monti di dieci anni fa appartiene alla folta schiera di coloro che identificano il capitalismo con il liberismo e che non hanno mai davvero compreso la funzione degli Stati (quelli potenti) come capitalisti collettivi e il loro ruolo soprattutto nei momenti di crisi economica. Con questa ristretta visione delle molteplici varianti a disposizione del capitalismo, ci si consegna a luoghi comuni che si ripetono stancamente, malgrado le lezioni eclatanti offerte dal 2008 ad oggi dai massicci investimenti (senza precedenti) dei principali Stati per salvare le proprie economie, e si dimentica che gli Stati più forti agiscono, tanto più nei periodi di crisi, come “ cervello collettivo” per limitare i danni del capitalismo privato miope e anarcoide, consentendo grazie alla spesa pubblica la ripartenza di economie in sofferenza. Modalità di gestione che definirei “neo-keynesiane”, se sul keynesismo non si determinasse assai spesso una confusione prospettica che lo identifica con il trionfo dello Stato sociale, come se Keynes fosse stato una sorta di “benefattore sociale” e non un liberaldemocratico concentrato sui modelli per far ripartire il capitalismo impantanato nelle crisi.
La svolta a 180 gradi nella politica dell’Unione Europea
Il non voler vedere la svolta a 180 gradi della politica economica dell’Unione Europea ha a che fare con una sorta di tic politico-ideologico: dicendo che c’è sempre il liberismo, ci si sente conflittuali; mentre, prendendo atto che siamo in una fase diversa – nella quale l’austerità, il blocco della spesa pubblica e la parità di bilancio sono imposizioni accantonate -, si teme di far credere di essere disposti a venire a patti con il potere. Chi è preda di tale loop politico-ideologico salta a pié pari l’assunto-base: la spesa statale in deficit non significa affatto che sarà una spesa buona a favore dei settori popolari. Anzi, nel nostro caso odierno, una spesa ingente – gestita dai partiti, calatisi in massa nel governo per spartirsi il bottino, e dalle inamovibili burocrazie (o borghesie di Stato) incrostate negli apparati statali e istituzionali – può essere una spesa pessima che si disperde in mille rivoli, destinati a creare una palude di sprechi. Insomma, almeno fino alla piena uscita dalla crisi economico-pandemica, i rischi per la giustizia sociale ed economica non dipenderanno, a mio parere, da una sudditanza di Draghi ad un inesistente governo delle banche o al complottismo della Grande Finanza (che in certi discorsi ricorda a volte una sorta di Spectre, o le invettive dell’estrema destra contro le plutocrazie giudaiche) quanto dalla direzione che i partiti di governo imporranno ai grandi flussi di denaro a disposizione e verso chi tali spese saranno indirizzate. I “continuisti”, attaccati al modello del liberismo eterno e immutabile, sostengono che l’attuale fase espansiva sia solo una sorta di éscamotage opportunistico in vista di un rapido ritorno all’austerità. Ora, è evidente che l’attuale modalità di intervento nella crisi vale fin quando la crisi stessa, economica e pandemica, sarà operante. E come se ne uscirà, e quali saranno le future strategie capitalistiche in Italia e in Europa, dipenderà in larga misura dai conflitti sociali e politici che si saprà/sapremo innescare. Ma queste interpretazioni ripetitive risentono comunque di una cattiva lettura di cosa sia il capitalismo attuale nei paesi più sviluppati, e di come lo sia almeno da un secolo, a partire dalla sinergia conflittuale con la Rivoluzione russa e con il preponderante ruolo dello Stato nel “socialismo reale”, fino ad arrivare al vero e proprio trionfo del capitalismo di Stato cinese attuale.
Lo Stato come capitalista collettivo e l’utopia del liberismo integrale
La gran parte delle organizzazioni richiamantisi al socialismo e al comunismo hanno assai spesso considerato positiva la statalizzazione dei mezzi di produzione, confondendo proprietà statale e proprietà sociale. Nel cuore stesso della elaborazione teorica di Marx e Engels, ci fu una sorprendente sottovalutazione del ruolo degli Stati come capitalisti collettivi: eccezione quasi unica, seppur rilevantissima, quanto Engels scrisse nell’Anti-Dühring: «Il modo di produzione capitalistico ha cominciato con il soppiantare gli operai, oggi esso soppianta i capitalisti e li relega tra la popolazione superflua…Ma né la trasformazione in società anonime, né in proprietà statale, sopprime il carattere di capitale delle forze produttive. Lo Stato moderno è una macchina essenzialmente capitalistica, il capitalista collettivo ideale. Quanto più si appropria le forze produttive, tanto più diventa un capitalista collettivo, tanto maggiore è il numero di cittadini che esso sfrutta. Il rapporto capitalistico non viene soppresso, viene invece spinto al suo apice». E la Cina attuale rappresenta esattamente il punto più alto di questa spinta verso l’apice capitalistico. Anche nel pensiero marxista in Italia, con poche eccezioni, il ruolo dello Stato come capitalista collettivo è stato grandemente sottovalutato. In verità, fin dall’affermarsi dei primi Stati moderni, il capitalismo non è mai stato affare solo di singoli padroni privati in “libera” competizione per l’accaparramento dei mercati: il liberismo economico integrale, accompagnato dal non-interventismo in economia degli Stati e dalla libera concorrenza pura, è sempre stato un’utopia del capitalismo, un sublime imbroglio teorico e politico per occultare l’unico vero liberismo, quello in materia di sregolato utilizzo della forza-lavoro indifesa. Se andiamo alla voce liberismo in un buon dizionario di Economia leggiamo che esso sarebbe un sistema «imperniato sulla libertà del mercato, in cui lo Stato si limita a garantire con norme giuridiche la piena libertà economica e a provvedere soltanto ai bisogni della collettività non soddisfacibili per iniziativa dei singoli, e nel quale c’è altrettanta piena libertà economica del commercio internazionale e si realizza un libero scambio, in contrapposizione al protezionismo economico e commerciale». Ora, chi può seriamente sostenere che l’attuale sistema economico mondiale sia strutturato sulla base di un libero scambioscevro da protezionismi o presenze monopolistiche che falsifichino o annullino di fatto la “libertà del mercato”? Non è realtà lampante che gli Stati più potenti agiscano in continuazione per distorcere il libero mercato, tanto più dopo il ciclopico intervento – che ha movimentato cifre senza precedenti – dei principali Stati nazionali per tamponare la crisi esplosa nel 2008, processo che si è amplificato ulteriormente con il whatever it takes di Draghi e della BCE e con la odierna, ingente massa di denaro messa a disposizione dei paesi europei per contrastare gli effetti della pandemia?
L’interventismo statale e il fantomatico “governo mondiale delle banche”
Per la verità, il liberismo economico integrale non è mai esistito, tanto meno dal Novecento post-Rivoluzione russa e “socialismo” sovietico e dal conseguente e concorrenziale interventismo statale spinto in economia ad Occidente, prima nel fascismo italiano, poi nel New Deal statunitense, nel nazismo tedesco e nella presa in carico di tutta l’economia bellica nei principali paesi tra il 1940 e il 1945, nonché nella ricostruzione post-bellica. L’unico liberismo vero che i singoli capitalisti hanno sempre cercato di imporre è quello nel mercato del lavoro e neiservizi sociali. Solo in questi campi il padronato privato ha sempre ricercato, e spesso ottenuto, una concorrenza priva di regole – occupati contro disoccupati, stanziali contro migranti, giovani contro anziani, precari contro “stabili”, lavoro dipendente contro piccolo lavoro autonomo – che faccia abbassare il più possibile il costo del lavoro; e analoga concorrenza senza regole è auspicata nei servizi sociali e pubblici, quel territorio che i lavoratori/trici hanno conquistato in decenni di dure lotte, tradotte in istruzione, sanità e assistenza sociale più o meno gratuite, pensioni, e in Beni comuni non sottoposti alla legge del profitto. Solo in tal senso è corretto parlare di neoliberismo: mentre del tutto infondata dovrebbe apparire oramai, soprattutto dopo i titanici interventi statuali anti-crisi del 2008 e a quelli assai ingenti attuali, la tesi secondo la quale il neoliberismo avrebbe ridotto a simulacri gli Stati nazionali. Alla base di questo eclatante errore teorico e politico c’è una distorsione del vero ruolo degli Stati fin dal momento in cui il capitalismo divenne il sistema economico dominante in Occidente, delle loro funzioni da cervello capitalistico collettivo, in grado di limitare, controllare e incanalare in qualche modo gli “anarcoidi” capitali privati e le oscillazioni troppo violente dei cicli economici, di effettuare i grandi investimenti a lunga gittata nei settori di sviluppo (l’altro ieri nelle ferrovie e nell’elettrificazione, ieri nella chimica e nella meccanica, oggi nell’elettronica e nell’informatizzazione del mondo: insomma, dai treni per il Far West a Internet) ove i singoli capitali mai si impegnerebbero, nonché gli interventi riparatori dopo le crisi. Non è stata forse una lezione decisiva quella fornita dai principali Stati occidentali che nel 2008 hanno mobilitato somme colossali (migliaia di miliardi di dollari solo negli USA, che neanche una ventina delle principali multinazionali insieme avrebbero potuto mettere in campo), per tappare le mortali falle createsi nel sistema finanziario? In realtà, gli Stati (intendo quelli forti ed efficienti) continuano ad adempiere – tanto più ora, di fronte ad una crisi sanitaria ed economica che minaccia di oscurare anche quella del 1929 – agli interventi di supporto, correzione, soccorso e stimolo dell’economia privata. E lo fanno svolgendo ruoli di sovvenzione (trasferendo ricchezza pubblica alle imprese private), di finanziatori (mettono a disposizione denaro attraverso credito agevolato o di donazione gratuita), di committenti (offrono commesse e contratti), di imprenditori diretti (producendo in prima persona merci e servizi), di regolatori (difendendo il capitale nazionale dalla penetrazione dei concorrenti). Le tesi sull’impotenza degli Stati nazionali, insomma, dovrebbero arrendersi alle confutazioni da parte della realtà, che prima negli anni di crisi economica post-2008, e tanto più ora nel disastro pandemico, ne ha dimostrato l’inconsistenza, amplificando ulteriormente queste caratteristiche strutturali degli Stati forti. Se il capitalismo ha potuto non solo sopravvivere ma riprendere slancio e forza dopo le due Guerre mondiali, se ha superato anche la Grande Depressione del ’29 e non è stato travolto neanche in questi tredici anni di crisi profonda e prolungata delle economie occidentali, è solo grazie al massiccio intervento dei principali Stati, capitalisti collettivi in grado di immettere tanta ricchezza ricavata dai cittadini/e nel salvataggio dell’intero sistema. Un corrispettivo di questa lettura erronea del capitalismo moderno è anche la teoria del governo unico delle banche, cioè del dominio mondiale delle banche e delle cordate finanziarie unite in una Santa Alleanza globale. Teoria fragilissima se solo si pensi che gli enormi interventi che hanno tenuto a galla il capitalismo europeo e statunitense – e che si stanno spendendo per farli sopravvivere anche alla crisi da pandemia – non sono stati fatti da multinazionali finanziarie private ma da Banche centrali nazionali, dalla Federal Reserve per gli USA e dalla BCE per l’Europa. Impresa che sarebbe stata impossibile per banche e gruppi finanziari privati, oltretutto in una continua e spietata concorrenza tra loro, tale da rendere del tutto irreali grandi progetti unitari e coordinati tra “squali” che, oltre a divorare i “pesci” più piccoli, hanno come imperativo strutturale anche quello di azzannarsi tra loro.
P.S. Ultime dagli Stati Uniti, il paese ove indubbiamente esiste il capitalismo privato più forte del mondo. Biden, dopo che la Legge di bilancio statunitense aveva messo a disposizione per il 2021 1400 miliardi di dollari per il rilancio dell’economia e più di 900 miliardi per gli assegni di disoccupazione, ha stanziato prima 1900 miliardi per sostenere la domanda nell’American Rescue plan (Keynes pari pari, ma con cifre che la buonanima di Roosevelt se le sognava) e nell’ultima settimana un altro colossale intervento di 2000 miliardi in dieci anni per la costruzione di infrastrutture (altro classico keynesiano, ma un po’ meglio del fare buche e poi riempirle, esempio limite del keynesismo d’antan). Insomma, in tutto qualcosa come 6200 miliardi di dollari, che manco tutte le multinazionali con sede negli Stati Uniti e le banche e i gruppi finanziari USA avrebbero mai potuto mettere insieme. E ddobbiamo ancora discutere di un fantomatico “governo mondiale delle banche“, o della Spectre “pluto-giudaica” delle multinazionali finanziarie e di Stati nazionali ridotti al lumicino e al servizio di strutture private non in grado di movimentare manco un centesimo della massa monetaria a disposzione degli Stati?
La svolta a 180 gradi nella politica dell’Unione Europea
Il non voler vedere la svolta a 180 gradi della politica economica dell’Unione Europea ha a che fare con una sorta di tic politico-ideologico: dicendo che c’è sempre il liberismo, ci si sente conflittuali; mentre, prendendo atto che siamo in una fase diversa – nella quale l’austerità, il blocco della spesa pubblica e la parità di bilancio sono imposizioni accantonate -, si teme di far credere di essere disposti a venire a patti con il potere. Chi è preda di tale loop politico-ideologico salta a pié pari l’assunto-base: la spesa statale in deficit non significa affatto che sarà una spesa buona a favore dei settori popolari. Anzi, nel nostro caso odierno, una spesa ingente – gestita dai partiti, calatisi in massa nel governo per spartirsi il bottino, e dalle inamovibili burocrazie (o borghesie di Stato) incrostate negli apparati statali e istituzionali – può essere una spesa pessima che si disperde in mille rivoli, destinati a creare una palude di sprechi. Insomma, almeno fino alla piena uscita dalla crisi economico-pandemica, i rischi per la giustizia sociale ed economica non dipenderanno, a mio parere, da una sudditanza di Draghi ad un inesistente governo delle banche o al complottismo della Grande Finanza (che in certi discorsi ricorda a volte una sorta di Spectre, o le invettive dell’estrema destra contro le plutocrazie giudaiche) quanto dalla direzione che i partiti di governo imporranno ai grandi flussi di denaro a disposizione e verso chi tali spese saranno indirizzate. I “continuisti”, attaccati al modello del liberismo eterno e immutabile, sostengono che l’attuale fase espansiva sia solo una sorta di éscamotage opportunistico in vista di un rapido ritorno all’austerità. Ora, è evidente che l’attuale modalità di intervento nella crisi vale fin quando la crisi stessa, economica e pandemica, sarà operante. E come se ne uscirà, e quali saranno le future strategie capitalistiche in Italia e in Europa, dipenderà in larga misura dai conflitti sociali e politici che si saprà/sapremo innescare. Ma queste interpretazioni ripetitive risentono comunque di una cattiva lettura di cosa sia il capitalismo attuale nei paesi più sviluppati, e di come lo sia almeno da un secolo, a partire dalla sinergia conflittuale con la Rivoluzione russa e con il preponderante ruolo dello Stato nel “socialismo reale”, fino ad arrivare al vero e proprio trionfo del capitalismo di Stato cinese attuale.
Lo Stato come capitalista collettivo e l’utopia del liberismo integrale
La gran parte delle organizzazioni richiamantisi al socialismo e al comunismo hanno assai spesso considerato positiva la statalizzazione dei mezzi di produzione, confondendo proprietà statale e proprietà sociale. Nel cuore stesso della elaborazione teorica di Marx e Engels, ci fu una sorprendente sottovalutazione del ruolo degli Stati come capitalisti collettivi: eccezione quasi unica, seppur rilevantissima, quanto Engels scrisse nell’Anti-Dühring: «Il modo di produzione capitalistico ha cominciato con il soppiantare gli operai, oggi esso soppianta i capitalisti e li relega tra la popolazione superflua…Ma né la trasformazione in società anonime, né in proprietà statale, sopprime il carattere di capitale delle forze produttive. Lo Stato moderno è una macchina essenzialmente capitalistica, il capitalista collettivo ideale. Quanto più si appropria le forze produttive, tanto più diventa un capitalista collettivo, tanto maggiore è il numero di cittadini che esso sfrutta. Il rapporto capitalistico non viene soppresso, viene invece spinto al suo apice». E la Cina attuale rappresenta esattamente il punto più alto di questa spinta verso l’apice capitalistico. Anche nel pensiero marxista in Italia, con poche eccezioni, il ruolo dello Stato come capitalista collettivo è stato grandemente sottovalutato. In verità, fin dall’affermarsi dei primi Stati moderni, il capitalismo non è mai stato affare solo di singoli padroni privati in “libera” competizione per l’accaparramento dei mercati: il liberismo economico integrale, accompagnato dal non-interventismo in economia degli Stati e dalla libera concorrenza pura, è sempre stato un’utopia del capitalismo, un sublime imbroglio teorico e politico per occultare l’unico vero liberismo, quello in materia di sregolato utilizzo della forza-lavoro indifesa. Se andiamo alla voce liberismo in un buon dizionario di Economia leggiamo che esso sarebbe un sistema «imperniato sulla libertà del mercato, in cui lo Stato si limita a garantire con norme giuridiche la piena libertà economica e a provvedere soltanto ai bisogni della collettività non soddisfacibili per iniziativa dei singoli, e nel quale c’è altrettanta piena libertà economica del commercio internazionale e si realizza un libero scambio, in contrapposizione al protezionismo economico e commerciale». Ora, chi può seriamente sostenere che l’attuale sistema economico mondiale sia strutturato sulla base di un libero scambioscevro da protezionismi o presenze monopolistiche che falsifichino o annullino di fatto la “libertà del mercato”? Non è realtà lampante che gli Stati più potenti agiscano in continuazione per distorcere il libero mercato, tanto più dopo il ciclopico intervento – che ha movimentato cifre senza precedenti – dei principali Stati nazionali per tamponare la crisi esplosa nel 2008, processo che si è amplificato ulteriormente con il whatever it takes di Draghi e della BCE e con la odierna, ingente massa di denaro messa a disposizione dei paesi europei per contrastare gli effetti della pandemia?
L’interventismo statale e il fantomatico “governo mondiale delle banche”
Per la verità, il liberismo economico integrale non è mai esistito, tanto meno dal Novecento post-Rivoluzione russa e “socialismo” sovietico e dal conseguente e concorrenziale interventismo statale spinto in economia ad Occidente, prima nel fascismo italiano, poi nel New Deal statunitense, nel nazismo tedesco e nella presa in carico di tutta l’economia bellica nei principali paesi tra il 1940 e il 1945, nonché nella ricostruzione post-bellica. L’unico liberismo vero che i singoli capitalisti hanno sempre cercato di imporre è quello nel mercato del lavoro e neiservizi sociali. Solo in questi campi il padronato privato ha sempre ricercato, e spesso ottenuto, una concorrenza priva di regole – occupati contro disoccupati, stanziali contro migranti, giovani contro anziani, precari contro “stabili”, lavoro dipendente contro piccolo lavoro autonomo – che faccia abbassare il più possibile il costo del lavoro; e analoga concorrenza senza regole è auspicata nei servizi sociali e pubblici, quel territorio che i lavoratori/trici hanno conquistato in decenni di dure lotte, tradotte in istruzione, sanità e assistenza sociale più o meno gratuite, pensioni, e in Beni comuni non sottoposti alla legge del profitto. Solo in tal senso è corretto parlare di neoliberismo: mentre del tutto infondata dovrebbe apparire oramai, soprattutto dopo i titanici interventi statuali anti-crisi del 2008 e a quelli assai ingenti attuali, la tesi secondo la quale il neoliberismo avrebbe ridotto a simulacri gli Stati nazionali. Alla base di questo eclatante errore teorico e politico c’è una distorsione del vero ruolo degli Stati fin dal momento in cui il capitalismo divenne il sistema economico dominante in Occidente, delle loro funzioni da cervello capitalistico collettivo, in grado di limitare, controllare e incanalare in qualche modo gli “anarcoidi” capitali privati e le oscillazioni troppo violente dei cicli economici, di effettuare i grandi investimenti a lunga gittata nei settori di sviluppo (l’altro ieri nelle ferrovie e nell’elettrificazione, ieri nella chimica e nella meccanica, oggi nell’elettronica e nell’informatizzazione del mondo: insomma, dai treni per il Far West a Internet) ove i singoli capitali mai si impegnerebbero, nonché gli interventi riparatori dopo le crisi. Non è stata forse una lezione decisiva quella fornita dai principali Stati occidentali che nel 2008 hanno mobilitato somme colossali (migliaia di miliardi di dollari solo negli USA, che neanche una ventina delle principali multinazionali insieme avrebbero potuto mettere in campo), per tappare le mortali falle createsi nel sistema finanziario? In realtà, gli Stati (intendo quelli forti ed efficienti) continuano ad adempiere – tanto più ora, di fronte ad una crisi sanitaria ed economica che minaccia di oscurare anche quella del 1929 – agli interventi di supporto, correzione, soccorso e stimolo dell’economia privata. E lo fanno svolgendo ruoli di sovvenzione (trasferendo ricchezza pubblica alle imprese private), di finanziatori (mettono a disposizione denaro attraverso credito agevolato o di donazione gratuita), di committenti (offrono commesse e contratti), di imprenditori diretti (producendo in prima persona merci e servizi), di regolatori (difendendo il capitale nazionale dalla penetrazione dei concorrenti). Le tesi sull’impotenza degli Stati nazionali, insomma, dovrebbero arrendersi alle confutazioni da parte della realtà, che prima negli anni di crisi economica post-2008, e tanto più ora nel disastro pandemico, ne ha dimostrato l’inconsistenza, amplificando ulteriormente queste caratteristiche strutturali degli Stati forti. Se il capitalismo ha potuto non solo sopravvivere ma riprendere slancio e forza dopo le due Guerre mondiali, se ha superato anche la Grande Depressione del ’29 e non è stato travolto neanche in questi tredici anni di crisi profonda e prolungata delle economie occidentali, è solo grazie al massiccio intervento dei principali Stati, capitalisti collettivi in grado di immettere tanta ricchezza ricavata dai cittadini/e nel salvataggio dell’intero sistema. Un corrispettivo di questa lettura erronea del capitalismo moderno è anche la teoria del governo unico delle banche, cioè del dominio mondiale delle banche e delle cordate finanziarie unite in una Santa Alleanza globale. Teoria fragilissima se solo si pensi che gli enormi interventi che hanno tenuto a galla il capitalismo europeo e statunitense – e che si stanno spendendo per farli sopravvivere anche alla crisi da pandemia – non sono stati fatti da multinazionali finanziarie private ma da Banche centrali nazionali, dalla Federal Reserve per gli USA e dalla BCE per l’Europa. Impresa che sarebbe stata impossibile per banche e gruppi finanziari privati, oltretutto in una continua e spietata concorrenza tra loro, tale da rendere del tutto irreali grandi progetti unitari e coordinati tra “squali” che, oltre a divorare i “pesci” più piccoli, hanno come imperativo strutturale anche quello di azzannarsi tra loro.
P.S. Ultime dagli Stati Uniti, il paese ove indubbiamente esiste il capitalismo privato più forte del mondo. Biden, dopo che la Legge di bilancio statunitense aveva messo a disposizione per il 2021 1400 miliardi di dollari per il rilancio dell’economia e più di 900 miliardi per gli assegni di disoccupazione, ha stanziato prima 1900 miliardi per sostenere la domanda nell’American Rescue plan (Keynes pari pari, ma con cifre che la buonanima di Roosevelt se le sognava) e nell’ultima settimana un altro colossale intervento di 2000 miliardi in dieci anni per la costruzione di infrastrutture (altro classico keynesiano, ma un po’ meglio del fare buche e poi riempirle, esempio limite del keynesismo d’antan). Insomma, in tutto qualcosa come 6200 miliardi di dollari, che manco tutte le multinazionali con sede negli Stati Uniti e le banche e i gruppi finanziari USA avrebbero mai potuto mettere insieme. E dobbiamo ancora discutere di un fantomatico “governo mondiale delle banche“, o della Spectre “pluto-giudaica” delle multinazionali finanziarie o sentire da tante voci la litania sugli Stati nazionali che sarebbero ridotti al lumicino e messi al servizio di strutture private che di loro in realtà non sono in grado di movimentare manco un decimo della massa monetaria a disposizione degli Stati principali?
1 aprile 2021