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IN MOVIMENTO NEL CONFLITTO SOCIALE
I Cobas – queste singolari forme di organizzazione-movimento, che svolgono nel contempo attività sindacale, politica, sociale e culturale e che si fondano sull’autorganizzazione, sul rifiuto del professionismo politico-sindacale, sulla militanza volontaria e non retribuita – hanno condotto in questi anni un’intransigente e costante battaglia in difesa della scuola pubblica e contro la degenerazione di essa in scuola-azienda, incaricata di vendere l’istruzione come una merce; un’attività altrettanto permanente contro le politiche economiche liberiste e a favore del lavoro salariato/dipendente e della natura pubblica delle istituzioni e servizi sociali (oltre la scuola, la sanità, i trasporti, l’energia ecc..); una radicale opposizione contro la guerra permanente e globale – guidata dagli Usa a partire dal ’91 (guerra del Golfo) – e le politiche belliciste, razziste e antisolidali.
Da Seattle in avanti, poi, i Cobas sono stati parte fondante e integrante del movimento impropriamente denominato “antiglobalizzazione” o “no global” – e che più correttamente va definito antiliberista (e anticapitalista, tout court, in molte componenti) – che in Italia, da Genova in poi, ha dato un contributo decisivo alla ripresa del conflitto sociale, politico e sindacale.
I Cobas, invece, non hanno preso parte, se non sporadicamente con qualche iscritto/a o simpatizzante, al movimento di protesta civile anti-berlusconiana, definito giornalisticamente “dei girotondi”. Le ragioni di questa assenza, da parte di un’organizzazione che ha partecipato a qualsiasi moto sociale antagonista o anche solo progressista di questi ultimi anni, sono leggibili in buona misura a partire dalle vistose divergenze, che qui riassumerò, rispetto alle posizioni espresse nel “canovaccio” proposto da Paolo Flores D’Arcais come base di discussione per questo numero di Micromega: pur tenendo presente che Paolo rappresenta una delle posizioni, seppur autorevole, dei “girotondisti” e non ne può enunciare l’intera gamma espressiva; e che la stessa cosa vale per i Cobas rispetto al più ampio movimento dei lavoratori o a quello antiliberista.
Proverò dunque a seguire i dieci punti del “canovaccio” di Flores per contribuire a far capire se, come e dove i movimenti antiliberisti e anticapitalisti italiani, o almeno le loro componenti Cobas, possono incontrare e fare pezzi di percorso insieme al movimento di protesta civile “dei girotondi”.
1. La prima riflessione di Flores – quella che parte da un sondaggio nel quale un quarto degli elettori berlusconiani esprime simpatia verso i “girotondi” – mi pare tutta permeata da un vero e proprio assioma politico: il permanere, cioè, di due campi “avversi” e ben marcati/distinti nel novero degli attuali partiti italiani, una sinistra e una destra. L’assioma sembra saltare a piè pari la grande novità dei cinque anni di governo di centrosinistra: il fatto, cioè, che tale esperienza ha scompaginato nel profondo ogni strutturale demarcazione e differenziazione tra i due campi, almeno per ciò che riguarda le forze politico-istituzionali. Paolo, come molti protagonisti dei “girotondi”, sembra sottovalutare l’omogeneizzazione programmatica avvenuta in questi anni tra i due “campi avversi”, mentre è molto attento ad ogni sorta di “inciucio” istituzionale, con particolare riferimento al conflitto di interessi, la giustizia e la gestione TV: e mentre condanna aspramente tali nefasti connubi, in qualche modo pare derubricarli nella categoria dei “clamorosi errori” causati dall’”ossessione di conquistare i moderati”.
In realtà, la categoria “errore” non si attaglia affatto alle scelte, perfettamente coerenti e conseguenti l’assunto iniziale (e cioè gestire il liberismo come e meglio della destra classica), compiute dal centrosinistra. Una volta che, a conclusione di qualche decennio di sofferta “deriva” in tale direzione, la grande maggioranza della sinistra istituzionale italiana ha accettato di gestire l’attuale fase liberista (seppur il termine, come vedremo, non va preso alla lettera) del capitalismo italiano e internazionale, essa ha rapidamente cancellato ogni sostanziale differenza programmatica con la destra tradizionale.
Almeno a livello partitico – ma con disastrose ricadute sociali e sindacali – le differenze tra i due “campi” sono apparse, in ben poco tempo, non superiori a quelle esistenti ad esempio negli Usa tra democratici e repubblicani o in Gran Bretagna tra Blair e i conservatori: non differenze di programma e di referenti sociali dominanti, ma sfumature di stile, di metodo, di gradualità nell’applicazione del liberismo, di diverse attenzioni alla cooptazione dei sindacati e degli interlocutori sociali; dentro però un’omogeneità sostanziale di impostazione ideologica, economica e strutturale. Non c’è praticamente un tema importante sul quale questa sintonia/unicità di fondo non si sia manifestata clamorosamente nel quinquennio di governi Prodi- D’Alema- Amato: ed è tale unicità che ha poi lasciato disarmato il centrosinistra di fronte alla controffensiva berlusconiana, prima, e alla sua per nulla irresistibile vittoria, poi.
Solo l’anomalia del “berlusconismo” (conflitto di interessi, rozzezza gestionale, presenza del razzismo fascistoide e antieuropeo leghista, eccesso di egemonia di un tycoon “impolitico” ecc..) sta restituendo spazio e possibilità di recupero ad un centrosinistra che ha accumulato tanti e tali “scheletri nell’armadio” da destinarsi a molti anni di sconfitte se avesse avuto di fronte una qualsivoglia destra europea presentabile e non così singolarmente “anomala” nello stile.
Vogliamo fare un sommario elenco di tali “scheletri”, che hanno allontanato dalla “sinistra” tanta parte del suo tradizionale “popolo”? Tanto per cominciare, in nessun periodo – di certo non nei decenni di egemonia democristiana – la filosofia del “privato è bello, pubblico è corrotto e scialacquatore” è stata magnificata come durante i governi “ufficiali” e “ufficiosi” (il primo governo Amato, ad esempio, e quelli Ciampi e Dini, inoltre) del centrosinistra degli anni’90.
Le privatizzazioni – quasi sempre vere e proprie donazioni ad un padronato abilissimo nel socializzare le perdite e privatizzare i guadagni – hanno dilagato, così come la drastica riduzione del carattere pubblico e gratuito dei servizi sociali, dalla sanità ai trasporti all’energia, saccheggiati da gruppi privati che hanno sottratto ai cittadini qualità, quantità e gratuità dei servizi offerti.
Nella scuola, in particolare, Berlinguer ha fatto quanto la Dc in tanti decenni di dominio non aveva neanche osato tentare,varando una legge di “parità scolastica” che ha equiparato la scuola pubblica, di tutti e per tutti, con la scuola privata, di parte e di tendenza, consentendo il pieno dispiegamento del finanziamento pubblico a quest’ultima.
La riduzione del salario diretto e di quello differito (pensioni) al lavoro dipendente, dal primo al secondo governo Amato, non ha avuto uguali in Italia nel dopoguerra: un massiccio e rapido spostamento di risorse dal Lavoro al Capitale, dai salariati alle imprese, che nessuna destra-destra avrebbe potuto operare altrettanto impunemente. E, come se tale salasso non bastasse, il culto della flessibilità/precarietà del lavoro ha avuto, dopo il ’95, il suo massimo sviluppo: e l’aspro scontro di queste settimane sull’art.18 non deve far dimenticare che, con il “pacchetto Treu” varato dal centrosinistra, è stato introdotto in Italia il lavoro “interinale”, il lavoro”in affitto” e avviate/legalizzate tutte le forme possibili di lavoro precario, sottopagato, indifeso, senza diritti, nel più assoluto silenzio da parte dei sindacati “concertativi”. La grande maggioranza dei neo-assunti di questi anni ha già subito la cancellazione di fatto dell’art.18 ed è stata abbandonata in balia di un padronato tanto liberista nei confronti del lavoro salariato quanto garantista/ protezionista/ statalista al momento di chiedere sovvenzioni, protezioni ed aiuti pubblici allo Stato.
La legge Bossi-Fini è abominevole, una oscena forma di introduzione di rapporti di lavoro para-schiavistici per gli immigrati: ma i Centri di Permanenza Temporanea, i lager che da qualche anno imprigionano periodicamente gli immigrati, sono realtà altrettanto scandalose, ideate e realizzate dal centrosinistra.
E la guerra? La sudditanza italiana e l’unità di intenti con gli Usa e con gli altri alleati bellici sono state così alte durante il governo D’Alema da portare l’Italia per la prima volta in guerra senza neanche un dibattito e un voto parlamentare e, per sovramercato, da partorire quel mostruoso ossimoro ideologico e politico della “guerra umanitaria” (che per la Cgil divenne la “contingente necessità”), che ha imposto a milioni di italiani/e addirittura di applaudire e tifare per la distruzione della Jugoslavia. E si potrebbe continuare a lungo.
Su tutti questi aspetti cruciali della politica nazionale e internazionale – vorrei chiedere a Paolo e, per esso, ai “girotondisti” – dove era/è il discrimine tra destra e sinistra, dove erano/sono i “nostri” e dove i “loro”? E, al di là della “simpatia” di un quarto dell’elettorato berlusconiano per i “girotondi”, quanto di tale elettorato si è diretto verso la destra-destra perché in cinque anni di governo la netta maggioranza della “sinistra” ha fatto sua – ben oltre le questioni, per Paolo Flores davvero scottanti, del conflitto di interessi o della magistratura – tutta l’argomentazione ideologica, politica, sociale e culturale della destra liberista, senza neanche qualcuna delle sottigliezze del socialiberismo, della sinistra capitalistica alla Jospin?
2-3. Con tutto il rispetto per il peso che temi come la giustizia o la gestione dell’informazione hanno, oggi come ieri, definirle, come fa Paolo, “la posta in gioco essenziale della fase storica che stiamo vivendo” mi pare una vistosa esagerazione. Intanto perché, in un ordine obbligato di priorità non avrei dubbi a farli precedere dalle tematiche del conflitto sociale di cui ho già parlato a proposito delle nefandezze del quinquennio di centrosinistra, dallo scontro tra Capitale e Lavoro a quello sulle privatizzazioni delle strutture e dei servizi pubblici, dal portato della guerra permanente e globale in corso (dall’Afghanistan alla Palestina, con in vista l’Iraq e chissà che altro) alla “caccia all’immigrato”: tutte tematiche di scontro che, oltre a incidere più profondamente nella società rispetto al conflitto di interessi, finiscono per determinare quei rapporti di forza che poi si riflettono anche in materia di giustizia e gestione dell’informazione.
Ma anche perché le mitiche “legge uguale per tutti” e “informazione libera e pluralista” in questi decenni io non le ho mai viste, né in Italia né altrove. La giustizia è sempre stata massicciamente influenzata – per non dire del tutto dipendente, come durante gli anni più aspri del conflitto sociale – dal potere politico: e, anche su questo terreno, individuare differenze nel rapporto/subordinazione tra governi di centrodestra e di centrosinistra mi pare assai arduo.
In quanto poi al “pluralismo” dell’informazione, almeno coloro che si sono mossi in questi decenni in modo conflittuale e antagonista alla gestione del potere economico e politico (e ancor più le componenti dichiaratamente anticapitaliste) non l’hanno mai conosciuto. Solo per restare ai Cobas, nei nostri quindici anni di esistenza, a partire dalla scuola abbiamo avuto varie fasi di grande influenza sul conflitto politico, sindacale e sociale, guidando sovente movimenti di centinaia di migliaia di persone. Solo negli ultimi cinque mesi abbiamo effettuato tre scioperi nazionali, portando in piazza globalmente almeno trecentomila persone; e due anni fa, battendo il “concorsaccio” berlingueriano (con il quale il ministro voleva “scremare” un 20% di presunti superdocenti meglio pagati e metterli a capo di una fantomatica gerarchia di “bravi”: il tutto in base ad un concorso a quiz) con uno sciopero di almeno il 70% della categoria e con più di centomila persone sotto le finestre del Ministero della Pubblica istruzione, abbiamo decretato l’irrimediabile sconfitta politica del centrosinistra nella scuola.
Eppure, mentre alcune migliaia di “girotondisti” hanno ottenuto in TV l’”onore” di decine di dibattiti, nessuna delle trasmissioni TV (fatta eccezione per i servizi dei telegiornali) di “intrattenimento” politico ha mai dedicato neanche dieci minuti ad una realtà come la nostra, considerata troppo conflittuale ed irriducibile al quadro di “compatibilità” televisiva, realizzando in questo totale oscuramento la massima unità d’intenti tra TV privata e “pubblica”, tra destra e “sinistra”, tra Vespa e Santoro.
Certo, comprendo bene lo sconcerto di quella sinistra compatibile e concertativa che anche durante i decenni di egemonia DC ha avuto sempre largo spazio (esclusa una parte degli anni’50) nei mezzi di informazione e in particolare nella RAI, quasi sempre ampiamente lottizzata con il contributo fattivo anche della “sinistra”, e altrettanto largo credito nei Palazzi di giustizia. Ma se guardiamo le cose dal punto di vista di chi (cioè i “senza potere e senza proprietà”, e aggiungerei “senza padrini”, di questa società) è sempre stato escluso dal diritto di essere “uguale”in materia di giustizia (anzi, è stato sovente criminalizzato e vessato a causa della propria opposizione irriducibile alla realtà politica esistente) e di accesso all’informazione televisiva, la fase attuale non costituisce una particolare novità, anche perchè nel quinquennio precedente l’ostracismo TV e l’uso della giustizia nel campo del lavoro ha raggiunto tali livelli vessatori (ad esempio, ai Cobas e al sindacalismo di base sono stati sottratti tutti i diritti sindacali, ivi compreso persino quello di potersi riunire in assemblea nei posti di lavoro, dal governo di centrosinistra – e non dalla Dc o dalla destra – e la magistratura ci ha scandalosamente e ripetutamente negato la restituzione del “maltolto” per pura e piena sudditanza al potere politico) da non farci leggere oggi ulteriori peggiorativi salti di qualità.
Alla luce di quanto detto, non posso, quindi, condividere l’affermazione di Flores secondo il quale “si potrà tornare a parlare a pieno titolo di destra e di sinistra quando sarà risolta la questione pre-politica della legalità e del pluralismo televisivo”. Esse sono sempre state questioni prettamente politiche: e l’assenza di discrimine – se non di “stile”, di diverso grado di consenso/consociativismo ricercato nella società dai due schieramenti – non è dovuto né agli “inciuci” in materia di TV e Giustizia, né a quelli che Paolo ripetutamente chiama errori (non siamo di fronte, insomma, a “compagni che sbagliano”), ma al lucido disegno, che riguarda l’intero programma economico e sociale, di gestire “da sinistra” il liberismo, o più esplicitamente l’attuale capitalismo, in Italia e in Europa, sposandone tutte le tendenze aggressive dominanti.
4-5-6. Spinto, mi pare, dall’ansia di evidenziare l’anomalia dell’attuale governo italiano rispetto ai paesi (capitalisticamente) “normali”, Flores incorre sovente nella tentazione di prendere per buona la descrizione che altri sistemi fanno di se stessi – la loro ideologia o apologia – in particolare in tema di giustizia e di liberismo/”libero mercato”, con punte particolarmente non condivisibili, come quando sembra indulgere in un discreto ma non trascurabile elogio del sistema giudiziario “americano” (che più propriamente definirei “statunitense”).
Ora, anche a voler prescindere dagli orrori giudiziari introdotti negli Usa, e trasferiti a livello mondiale, dopo gli attentati dell’11 settembre – il codice di guerra permanentemente applicabile ovunque, anche in assenza di guerra guerreggiata, inclusi sequestri di persona, omicidi “selettivi”, tortura e “gabbie di Guantanamo” -, anche nelle precedenti condizioni di “normalità” gli Stati Uniti presentavano (e presentano) il sistema giudiziario più ferocemente classista e razzista, iniquo e barbaro, di tutto l’Occidente ricco: di fronte alla quale iniquità, Paolo converrà che impallidisce quella dello “smembramento del CSM in due sezioni” o del “Procuratore disciplinare eletto dal Senato”.
Nella furia di una pur sacrosanta polemica antiberlusconiana, si toglie gran parte della forza alle proprie argomentazioni se si prende come riferimento positivo sul piano giudiziario (e, pare di capire, anche sul piano della legalità politica) un paese che applica a tappeto la mostruosità della pena di morte, che ammazza “legalmente” ogni anno centinaia di poveri e di neri che non hanno i mezzi per difendersi (che sovente o sono innocenti o erano minorenni al momento dei delitti, a volte addirittura mentalmente incapaci di intendere e volere) e che mai – neanche una volta negli ultimi decenni – ha portato davanti al boia esponenti di classi o ceti ricchi e potenti (cfr. il caso Simpson per tutti).
Ma se questa mi sembra davvero una aberrazione nella ricerca di confronti, penalizzanti per Berlusconi, con i paesi “normali”, anche i richiami, in chiave polemica contro il protezionismo/ monopolismo della destra italiana, al “regime di concorrenza”, al “liberismo che è antitrust”, al “principio del libero mercato” e all’”esproprio del mercato” segnalano un’altra divergenza non da poco con Paolo che spiega le difficoltà – speriamo almeno in parte superabili visto che comunque si parte da un’analoga volontà di contrapporsi al “berlusconismo” – di trovare efficaci momenti di mobilitazione unitaria.
In realtà, lo scavalcare le “regole del libero mercato” da parte del governo Berlusconi rientra pienamente nel liberismo “sui generis”, o a senso unico, che caratterizza ovunque il dominio sul mondo da parte dei più potenti paesi capitalistici, e degli Usa in primis. Anch’io, in effetti, ho fin qui usato il termine “liberismo”, prendendo alla lettera una autodefinizione che il sistema dominante ha propalato a piene mani in questi anni. Nei dizionari economici alla voce “liberismo” si legge: “sistema imperniato sulla libertà del mercato, in cui lo Stato si limita a garantire con norme giuridiche la piena libertà economica e a provvedere soltanto ai bisogni della collettività non soddisfacibili per iniziativa dei singoli, e nel quale c’è altrettanta piena libertà del commercio internazionale, e si realizza un libero scambio, in contrapposizione al protezionismo economico e commerciale”.
Chi può davvero sostenere che l’attuale sistema economico mondiale sia strutturato sulla base di tali principi, su un “libero scambio” scevro da protezionismi o monopoli che falsino o annullino la “libertà del mercato”? E che gli stati più potenti non intervengano in continuazione a violentare il “libero mercato”, anche in chiave apertamente protezionistica? Non è forse vero che oggi, più che mai, la realtà economica è ben lontana dalla ipotesi agiografica di una domanda e di una offerta polverizzate che si incontrerebbero liberamente su un mercato indenne da interventi politico-statali e monopolistici? E che anzi, oggi più di ieri, la concentrazione e l’intreccio finanziario globale spingono verso il monopolio e l’oligopolio e rendono utopico il “libero scambio”?
Per la verità, il capitalismo non è mai stato “sua sponte” davvero liberista. I singoli padroni hanno sempre odiato la concorrenza, divenendo ultrastatalisti quando si tratta di ricevere dallo Stato e dalla collettività e liberisti quando c’è da sottrarsi ai doveri verso la collettività. Più precisamente, quello capitalistico è un liberismo unilaterale, e si applica integralmente solo nei confronti del mercato del lavoro e delle strutture sociali pubbliche. Solo in questo campo si vorrebbe imporre una concorrenza priva di regole, occupati contro disoccupati, migranti contro stanziali, precari contro stabili, in una lotta senza esclusione di colpi che faccia abbassare il più possibile il costo del lavoro e presenti tutti i salariati atomizzati di fronte al padrone-acquirente; e la stessa concorrenza mercificante dovrebbe valere per la scuola e la sanità, i trasporti e l’energia, e per i servizi sociali e collettivi in genere: ma per se stessi i singoli capitalisti continuano ad esigere il massimo di intervento statale e di tutele, protezioni e agevolazioni anti-concorrenza.
Certo, nel mondo non ci sono altri casi di un capo di governo che possegga in contemporanea tre TV e che ne possa controllare politicamente altre tre. Ma il possesso dei mezzi di informazione da parte dei colossi massmediatici non solo configura ovunque situazioni di effettivo monopolio, ma vede i principali tycoon del settore controllare le reti informative del mondo intero con un massacro dell’invocato “pluralismo dell’informazione” che, in un contesto mondiale, fa assai più vittime di quanto sia in potere di Berlusconi a partire dalla “piccola” Italia (il che non toglie nulla all’indispensabilità di mobilitarsi contro tale monopolio e contro una lottizzazione pubblica: senza scordare però che quest’ultima non è molto dissimile da quelle pregresse, democristiane, socialiste o dell’ultimo centrosinistra, il quale non ha fatto la guerra alle Tv commerciali anche perché esse erano abbondantemente “infiltrate”/lottizzate da giornalisti in quota PCI, prima, e poi PDS e DS).
7-8. Esposto questo indubbiamente vasto “campionario” di divergenze rispetto alle posizioni esposte da Flores D’Arcais, purtuttavia credo che l’anomalia berlusconiana sia effettivamente tale da consentire comunque una risposta positiva alla domanda di Paolo sulle possibilità di lotta comune tra movimenti “per la legalità e il pluralismo informativo”, movimenti dei lavoratori (sia nella variante maggioritaria dei sindacati concertativi sia nella variante conflittuale e antagonista dei Cobas e del sindacalismo di base) e movimenti “anti-globalizzazione liberista”: e non solo sul terreno, forse il più facile e quello a noi più vicino, della difesa della scuola pubblica dalla privatizzazione/ aziendalizzazione/ clericalizzazione.
Credo, però, che in prevalenza non avverrà tanto sul piano referendario tale incontro quanto, come sta già avvenendo, sul terreno della mobilitazione diretta. Il piano referendario non è certo da escludere e noi vi siamo disponibili, sia per la difesa/estensione dell’art.18 sia per la cancellazione della orrenda “legge di parità” scolastica sia sulle questioni di democrazia enunciate nel “canovaccio” di Flores. Ma non sono d’accordo con Paolo nel ritenere lo strumento referendario “l’unico modo per opporsi all’ondata di leggi reazionarie”: esso è intanto uno strumento scivoloso e sovente infido, facilmente neutralizzato da parte di un potere politico che, da destra o “da sinistra”, in questi anni ha ripetutamente annullato o rovesciato il risultato di decine di referendum per nulla ambigui. Ma, in ogni caso, solo una mobilitazione diretta può creare le basi per vincere e difendere poi le vittorie referendarie: e per aver una mobilitazione diretta comune, bisogna trovare una piattaforma minima di intesa, che non si limiti ad una pura giustapposizione di tematiche che non si incontrano o addirittura fanno a pugni.
Le tematiche agitate dai movimenti antiliberisti italiani, da Genova in poi, non sono poi così “eterogenee”, “differenziate” e “conflittuali” come è potuto sembrare a Flores D’Arcais. In realtà, ad esempio nell’ultima assemblea nazionale di Bologna, è stata elaborata ed approvata una Carta di lavoro, una piattaforma politico-sociale ricca ed omogenea che, partendo dall’ostilità al liberismo e alla guerra permanente e globale, articola efficacemente buona parte dei temi di conflitto sociale, economico e politico che ho fin qui citato. In tale piattaforma i temi che sono stati al centro delle mobilitazioni dei “girotondi” (dal conflitto di interessi alla giustizia, dal monopolio TV alle regole democratico-istituzionali) non hanno particolare udienza, però non sono estranei o alternativi a quelli citati e vi potrebbero essere inclusi: ma nel contempo è necessario che le tematiche dell’opposizione alla guerra economica, sociale e militare che il liberismo ha scatenato qui da noi e, più in generale nel pianeta, negli ultimi anni, entrino a far parte del bagaglio culturale e politico dei “girotondisti”.
Non si tratta di avere “alcuna ambizione di unificarsi in un partito”, come paventa giustamente Paolo: ma se ad esempio di fronte a prossime “guerre di intervento umanitario” (e nell’immediato, di fronte al massacro del popolo palestinese o al possibile estendersi della guerra dall’Afghanistan all’Iraq), “girotondisti”, lavoratori/trici autorganizzati e “no-global” si trovassero su posizioni opposte o se i primi “girotondassero” dappertutto escludendo o ignorando però i luoghi ove si annidano le responsabilità di tali guerre e di tali massacri, sarebbe poi ben difficile ritrovarci in piazza solo contro il conflitto di interessi berlusconiano o il monopolio TV.
9-10. Oltre ai temi di possibile mobilitazione comune, vanno analizzate anche le forme di essa: e non c’è dubbio che l’affermazione di Flores, e di buona parte dei “girotondisti”, secondo la quale “la politica democratica non potrà più essere solo, o maggioritariamente, politica di professione” è un interessante punto di partenza comune. Per i Cobas, anzi, questo è un postulato acquisito fin dalla nascita, e per molti militanti almeno dal’68. Come dicevo all’inizio, due sono i presupposti programmatici del “mondo Cobas”, l’impossibilità di separare il livello politico, da quello sindacale, sociale e culturale: e dunque, di conseguenza, il rifiuto di consegnare ai partiti la delega “alla sintesi”, di considerare cioè i movimenti, o organizzazioni come la nostra, realtà parziali nel senso di “economiciste”, settoriali, di breve durata e spontaneamente dissolventesi, e dunque bisognose di una sintesi politico-superiore, totalizzante da parte dei partiti (che noi, invece, interpretiamo con correttezza filologica come “parti” del tutto, esattamente come i Cobas o qualunque altro “attore” sociale, politico o sindacale).
In secondo luogo, e conseguentemente, i Cobas si caratterizzano per il ripudio del professionismo politico-sindacale come forma prevalente dell’attività di contestazione/modifica dell’esistente. Solo che tale ripudio ha una portata decisamente più vasta di quella preventivata da Flores. Noi non useremmo mai l’espressione “politica bricolage” (ossia, mi pare di capire, politica come hobby o comunque impegno saltuario, casuale, non duraturo, da smettere e riprendere ad umore) perché partiamo da un assunto diverso da quello che è dietro l’espressione partorita da Paolo e che mi pare valido, al più, solo per un certo tipo di impegno sociale e civile.
Quando Flores scrive che “nessuno vuole mettersi a fare il politico di professione, chi si è impegnato nei movimenti, li ha promossi e talvolta guidati, vuole continuare a fare il suo lavoro e dedicare all’impegno civile e politico solo una parte del suo tempo libero”, presuppone una scissione tra il lavoro (o l’attività quotidiana) di ognuno e il suo impegno politico (che appare dunque hobby/bricolage extralavorativo). La nostra idea di autorganizzazione, di non-delega parte invece dalla convinzione che il modo più profondo e duraturo di “approdo” alla politica sia quello che parte dalle contraddizioni e dai conflitti primari che ognuno vive sul posto di lavoro, a scuola come studente, nel quartiere come lavoratore-cittadino: contraddizioni e conflitti che sono permanenti e che dunque impediscono che, come teme Flores per i “girotondi”, “all’eccezionalità del sentirsi insieme subentri l’apatia e il ritorno alle solitudini, alla folla solitaria e teledipendente”.
Le nostre forme organizzative, pur non avendo nulla di professionistico, non corrono tali rischi, anche se ovviamente subiscono alti e bassi, perché sono di continuo alimentate dal conflitto quotidiano a partire dalla condizione giornaliera di docenti ostili alla scuola-azienda, di salariati che si difendono dal dominio padronale, di precari o disoccupati in costante ricerca di reddito, di cittadini che difendono i servizi sociali e le strutture pubbliche dall’aggressione liberista e mercificante e il loro territorio dalla devastazione ambientale in tutte le sue forme.
Poi, certo, ognuno dà il tempo e le forze che vuole o può: ma senza dare minimamente per assodato che l’impegno sarà comunque parziale, limitato nel tempo e nella portata e che, alla fin fine, saranno sempre i politici o i sindacalisti di professione a mantenere “il monopolio sulla direzione della politica” e a dare senso, continuità ed organicità all’articolazione del conflitto e della trasformazione sociale.
Piero Bernocchi
E’ portavoce dei Cobas scuola ed esponente della Confederazione Cobas. Autore di numerosi libri e saggi a carattere politico, sociale e sindacale, tra i quali “Dal sindacato ai Cobas”, “Dal ’77 in poi”, “Per una critica del ‘68”, pubblicati dalla “Massari editore”. Ha scritto sul movimento “no-global” saggi in “Un altro mondo in costruzione” (Baldini-Castoldi), “La zona gialla” (Frilli editore) e “Le voci di Genova” (Fandango)