di Autori vari

Negli ultimi giorni si è sviluppata una discussione interessante, serena e aperta, priva di asprezze o punte polemico-aggressive, sul conflitto israelo-palestinese (genesi, cause, stato attuale, possibili prospettive future), in connessione e con scambi di materiale tra alcune liste COBAS e il sito di Utopia Rossa. Iniziata con la pubblicazione sul sito di UR di un articolo di Claudio Albertani, che troverete di seguito e da me girato a varie liste COBAS, insieme ad un mio commento a carattere generale (che rimanda anche al mio scritto sull’argomento pubblicato qui nel mio sito I palestinesi sottomessi ad Israele ma anche ad Hamas e ANP. Come uscirne?) è proseguita da una parte con i contributi COBAS di Roberto Giuliani, Carlo Dami e Giovanni Bruno e dall’altra, sul sito di UR, con le risposte ad Albertani di Michele Nobile e Roberto Massari.
Dopo l’invio dell’articolo di Albertani, ho dovuto aggiungere alcune precisazioni in seguito alla prima risposta di Giuliani, oltre a far circolare le risposte di Nobile e Massari su Utopia Rossa, della cui Redazione internazionale Albertani (che vive in Messico) fa parte: testi teorici che a volte condivido, altre no, ma di cui apprezzo in genere la rigorosità delle documentazioni e lo sforzo costante di elaborazione, scevro di retorica o sloganistica e luoghi comuni, oltre all’assenza di censure e di “dannazioni” a priori, inserendo l’intero carteggio in questo mio sito, perchè vedo l’insieme e la diversità delle posizioni come un buon contributo all’approfondimento del tema.

Da parte mia, aggiungo di non aver letto Storia del sionismo, e che dunque l’invio dello scritto di Albertani non implicava alcun mio consenso sul libro in questione, che, peraltro, dice Massari che ne è l’editore, essere stato nel frattempo rivisto e ripensato dall’autore. Nel merito dell’articolo di Albertani, non condivido la possibile sua negazione del diritto di Israele ad esistere: solo che non ritengo sia necessario o possibile dimostrare che la collocazione in Palestina dello Stato di Israele è legittima perchè in Palestina ci stavano 20 secoli fa gli ebrei e un loro Stato. Nuovi Stati sono stati creati artificialmente decine di volte negli ultimi due secoli, intere popolazioni sono state dislocate e trasferite anche di forza e hanno ricostruito etnie , tradizioni, religioni e storia altrove dai loro siti originari. E la “legittimità” di Israele, in particolare, deriva in realtà dalla volontà generalizzata “occidentale” (ma condivisa ampiamente da un consesso come quello ONU che quasi mai si esprime con larghe maggioranze “trasversali” – ad approvarla ci fu anche l’Unione Sovietica- come per la creazione di tale Stato) di “risarcire” gli ebrei dallo sterminio nazista, in un posto storicamente caro alle loro tradizioni e ove si pensava potessero convivere con la popolazione stanziale. Insomma, non credo che sia quanto è successo 20 secoli a dare di per sè legittimità all’insediamento, ma che esso sia assai più motivato dalla Shoah e dalla decisione dell’ONU di accettare e avviare tale processo di insediamento “artificiale”.

Solo che la “convivenza” non ha funzionato, a mio avviso anche, se non soprattutto, per l’ostilità generalizzata dei paesi arabi che, oltre ad aggredire militarmente nel 1948 (Egitto, Siria, Iraq e Giordania) Israele cercando subito di cancellare il nuovo Stato, hanno usato sovente i palestinesi pur fottendosene delle loro tragedie, che non hanno mai contribuito ad alleviare e tantomeno a interrompere. In ogni caso, al di là delle responsabilità storiche, la questione non è che l’esistenza di Israele va annullata fisicamente a causa del suo essere stato confessionale perchè, ad esempio, l’Iran o l’Arabia Saudita lo sono ancor più e nessuno ne predica la distruzione. E’ che l’unico processo possibile, a mio modesto parere e lo scrivo oramai da parecchi anni per quel poco che conto (vedi in particolare in questo sito il mio saggio I palestinesi sottomessi ad Israele ma anche ad Hamas e ANP. Come uscirne?), è un processo simile a quello sudafricano, in cui preso atto che oramai nell’intero territorio vivono a) popolazioni di religione ebraica e provenienza occidentale; b) di fede ebraica ma provenienti (e scappati, per persecuzioni e ostilità) da paesi arabi; c) palestinesi d’origine, di fede, in netta prevalenza oggi, islamica; d) altre comunità islamiche di provenienza araba e che oramai hanno numeri superiori a quelli dei palestinesi stanziali, la riproposizione di due Stati e due popoli non ha più chance non solo per gli “opposti estremismi” (di cui certo uno, quello del governo israeliano, ben più potente e distruttivo dell’altro) dell’ultradestra israeliana e dell’orrendo Netanyahu, da una parte, e di Hamas, Jihad e soci dall’altra. Ma perchè i popoli sono ben più di due e dei presunti due Stati quello palestinese non ha, a mio avviso, alcuna chance economica e di rapporti di forza, militari e politici, per giocarsela alla pari con Israele e vivere decentemente.

Dal che l’idea, che al momento può apparire pressochè impossibile o comunque assai ardua, ma che a mio parere lo è meno dei presunti “due Stati e due popoli” e tanto più del “buttare a mare tutti gli ebrei”, di uno Stato multietnico, non confessionale ma rispettoso di tutte le fedi, democratico e inclusivo, pacificato. Processo che ovviamente deve passare innanzitutto per la sconfitta e la cacciata dell’attuale governo criminale israeliano e dell’ultradestra fascistoide che lo sostiene, e in parallelo, sull’altro versante, di Hamas, Jihad e tagliagole ultrareazionari consociati, che usano cinicamente il povero popolo palestinese per la loro “guerra santa contro gli infedeli”.

Piero Bernocchi

Tempo fa volendo acquistare il libro “Storia del sionismo”, sono andato sul sito di Utopia rossa e, sorpresa, sul libro di Nathan Weinstock, ho trovato la dicitura: “ristampato senza il consenso dell’autore”, intendendo che l’autore nel tempo aveva cambiato le sue posizioni, il che mi ha scoraggiato nel procedere all’acquisto.
Ora, atteso che il sottoscritto non è uno storico, è gioco facile contestare alcune mie affermazioni, però, pur senza nessuna velleità, essendo dotato di un cervello, che si sforza di capire criticamente il contesto in cui viviamo e quanto accade nel mondo, che seppur lontano da noi geograficamente, ci è terribilmente vicino, mi faccio alcune domande: Claudio Albertani nega che gli ebrei siano stati deportati a causa della rivolta, soffocata nel sangue nel 70 d.C., dunque, si sparsero nel mondo conosciuto per amore di avventura?
Mi chiedo anche quanti conoscano il significato di “sionismo” e perchè si chiami così. Invito chi utilizza disinvoltamente (in senso negativo) questo termine, facendo uno sforzo, a cercarsi la risposta. Da parte mia, posso solo dire che il “sionismo” ebbe tre declinazioni: liberaldemocratica, socialista e ultraortodossa. Di conseguenza, faccio sommessamente notare che, purtroppo, a seguito della risoluzione ONU del 1947, seguirono 4 (quattro) guerre di aggressione contro Israele: 1948, 1956,1967, 1973, numerose intifade, attentati sanguinosi, i conflitti a Gaza: 2008, 2014, 2023. L’atteggiamento aggressivo della lega araba ( a cui poi si è aggiunto lì’Iran), teso alla distruzione di Israele e non certo alla creazione di un’unica entità israelo-palestinese, ha favorito l’ascesa dell’estrema destra israeliana al governo, cavalcando la reale percezione dell’accerchiamento e del pericolo della distruzione, mettendo all’angolo le opzioni socialista (kibbutz) e liberal-democratiche.
Sorvolo sull’accusa di “deicidio”, che tanto ha pesato sulla sorte degli ebrei nel mondo e sorvolo anche nel ricordare la cospicua componente ebraica nella nomenclatura rivoluzionaria russa (V.Lenin, L.Trotsky, G.Zinoviev…….) e mondiale (R.Luxembourg), per non parlare di K.Marx e, a seguire, della “scuola di Francoforte”.
Ora, siccome la mia risposta rischia di divenire una “lenzuolata”, mi fermo qui, con una domanda: chi ha ucciso e perchè F. Bernadotte, A.Serat (1948), L.Moyne, A.Sadat (1981) e Rabin (1995)?. Chiudo con un mio auspicio, e cioè che si possa pervenire ad una pace definitiva in Palestina con la creazione di due Stati confederati.

Roberto Giuliani

Caro Piero, intendiamoci, lungi da parte mia affermare che gli ebrei abbiano diritto per questioni storiche a essere i proprietari della Palestina, quel che cerco di dire è che dopo la shoah, gli ebrei si resero conto che senza uno Stato sarebbero stati sempre ostaggio dei Paesi, che mal volentieri li ospitavano. La migrazione verso la Palestina iniziò verso gli anni ’30, acquistando vasti territori dai latifondisti arabi, ma esplose con la shoah. Dopo aver esaminato soluzioni alternative, tipo il Sudamerica, la scelta principale cadde sulla Palestina. D’altronde per costituire uno Stato si doveva individuare un territorio dove non preesisteva già uno Stato e dove trovarlo? Non esistono territori senza Stato, ovunque sarebbero stati degli invasori. La scelta cadde sulla Palestina, sia per motivi storici sia perchè lì non c’era un’entità statuale, visto che per secoli e fino alla fine della I guerra mondiale la Palestina fu sotto il dominio ottomano. Decisione giusta, decisione condannabile? Ognuno ha la sua legittima opinione.
Ma qui sorge il vero problema, ossia quello degli Stati-Nazione, noi siamo per un mondo fatto di comunità che si autogovernano e vivono in pace con le altre comunità e, quindi per l’estinzione dell’istituzione Stato, ma la realtà ci dice cose diverse, ossia che i popoli senza Stato hanno vita molto difficile. Ho esaminato la storia di quattro popoli e, purtroppo, ho dovuto convenire che nella fase attuale, l’estinzione degli Stati è un’utopia.
Tornando ad C. Albertani, mi ha colpito una sua affermazione: “Quanto alla storia del sionismo, lo storico ebreo statunitense Lenni Brenner (Zionism and Fascism: Zionism in the Age of Dictators, 1983) ha dimostrato che, negli anni Venti e Trenta, i massimi dirigenti dell’Agenzia ebraica negoziarono persino con Hitler e Mussolini per raggiungere i loro obiettivi”. Strano che dimentichi come anche la comunità arabo-palestinese strizzasse l’occhio al nazifascismo, in funzione antiebraica e anti britannica. Inoltre, fu la cd banda Stern a cercare convergenze con l’asse nazifascista e non l’Agenzia ebraica, per le stesse motivazioni degli arabo-palestinesi.
Chiudo ribadendo che ritengo realistica solo la costituzione di due Stati, ma confederati.
Roberto Giuliani

I sionisti sapevano bene che la Palestina era abitata da una stragrande maggioranza di arabi e da una piccola minoranza di ebrei. “La sposa è bella, ma è sposata a un altro uomo” fu il testo del telegramma scritto dai due inviati in Palestina dai rabbini di Vienna dopo il congresso di Basilea del 1897. Da questa constatazione nacque poi la necessità della pulizia etnica dei palestinesi, come ben descrive lo storico ebreo Ilan Pappé nel fondamentale testo “La pulizia etnica della Palestina”. Da qui origina la tragedia di un popolo espropriato della propria terra. Basti qui ricordare fra le decine di risoluzioni ONU mai rispettate da Israele, la n. 194 del 1948 che impone il diritto al ritorno dei profughi palestinesi. Ovviamente tutto questo non giustifica l’azione di Hamas e il fondamentalismo religioso che lo caratterizza , ma dall’altra parte c’è lo Stato di Israele che per legge è lo Stato Nazione degli ebrei. Uno Stato unico per ebrei e palestinesi passa inevitabilmente dal riconoscimento della Nakba e del diritto al ritorno dei profughi, da una parte e dal riconoscimento del diritto degli ebrei a vivere in terra di Palestina, dall’altra.

Carlo Dami

DISCUSSIONE SU ISRAELE (Parte 1ª di 3)
di C. Albertani, M. Nobile, R. Massari

Contro il sionismo, contro l’antisemitismo, per l’umanità*
di Claudio Albertani
BILINGUE: ITALIANO – ESPAÑOL
L’antisemitismo è il socialismo degli idioti
Auguste Bebel

Qualche giorno fa, durante una protesta davanti all’ambasciata israeliana di Città del Messico, qualcuno ha gridato degli slogan antisemiti. Era un provocatore ed è stato subito isolato. Tuttavia, la questione è delicata perché lo Stato sionista sta sfruttando l’innegabile recrudescenza dell’antisemitismo dopo l’invasione di Gaza per giustificare i propri crimini. Tale narrazione è legittimata da un fatto storico: gli ebrei sono stati vittime di uno dei più grandi massacri della storia, l’Olocausto (Shoah in ebraico), compiuto dai nazisti nel corso della Seconda guerra mondiale. Ciò giustificherebbe il fatto che i sopravvissuti si siano rifugiati in Palestina, una regione che in teoria apparterrebbe loro per ragioni storiche e teologiche.

È qui che inizia il groviglio, perché il problema di Israele è duplice: non solo il suo attuale governo è impresentabile, ma anche la sua legittimità storica è discutibile. Secondo Netanyahu, i palestinesi sarebbero un gruppetto di persone senza storia che perseguitano gli ebrei proprio come facevano i nazisti. In queste condizioni, Israele non avrebbe altra scelta che difendersi, se necessario, con una forza spropositata. E naturalmente tutti noi che ci opponiamo saremmo antisemiti o, per essere più precisi, antiebraici.
Eppure, a quanto pare, tra gli antisionisti ci sono anche molti ebrei. Nella stessa Israele, la nuova scuola di storici ha smontato i miti fondanti del sionismo. Uno di questi è la cosiddetta diaspora, il presunto esilio degli ebrei dopo la distruzione del Secondo Tempio di Gerusalemme (70 d.C.), quando sarebbero stati dispersi in tutto il Mediterraneo. In The Invention of the Jewish People (2008) e The Invention of the Land of Israel (2012), Shlomo Sand dell’Università di Tel Aviv dimostra che questa dispersione non è mai avvenuta e che i Romani non li hanno mai espulsi.
Sulla base dei documenti lo storico israeliano dimostra che le comunità ebraiche che esistevano ed esistono tuttora in molte parti del mondo sono il prodotto di diverse ondate di conversioni avvenute a partire dal IV secolo d.C. e non di flussi migratori provenienti dalla Palestina. È vero che c’erano e ci sono ebrei sparsi per il mondo; è vero che sono stati vittime dell’antisemitismo, che è una terribile macchia nella storia dell’umanità, ma sostenere che il popolo ebraico abbia dei diritti ancestrali sulla Palestina è così assurdo come sostenere che i buddisti abbiano dei diritti ancestrali sulla terra di Siddharta Gautama.
D’altra parte, due archeologi, Israel Finkelstein, anch’egli dell’Università di Tel Aviv, e Neil Asher Silberman, belga, mettendo in discussione l’affidabilità della Bibbia, hanno dimostrato che essa è un affascinante racconto letterario, ma non è affatto una fonte storica credibile. Dopo decenni di scavi in Israele, Libano, Siria ed Egitto, i due scienziati hanno scoperto che non esistono prove dell’esistenza dei patriarchi, della fuga degli ebrei dall’Egitto o della conquista di Canaan. Ancor meno si può dimostrare che Davide e Salomone abbiano regnato su un vasto impero (The Bible Unearthed, 2003).
Quanto alla storia del sionismo, lo storico ebreo statunitense Lenni Brenner (Zionism and Fascism: Zionism in the Age of Dictators, 1983) ha dimostrato che, negli anni Venti e Trenta, i massimi dirigenti dell’Agenzia ebraica negoziarono persino con Hitler e Mussolini per raggiungere i loro obiettivi. Ed è sempre utile ricordare che i primi praticanti del terrorismo in Palestina erano membri di gruppi paramilitari ebraici, i precursori delle odierne Israel Defence Forces. Tuttavia è giusto riconoscere che solo una minoranza degli ebrei sparsi per il mondo era sionista. Brenner evoca l’esperienza dell’Unione Generale dei Lavoratori Ebrei della Lituania, Polonia e Russia, nota come Bund, che all’inizio del secolo scorso si opponeva all’emigrazione in Palestina e invitava a lottare contro l’antisemitismo e per il socialismo nei paesi di origine. In tempi più recenti, il Matzpen, un piccolo partito comunista antisionista e antistalinista, costituito da lavoratori palestinesi ed ebrei, ha combattuto contro l’occupazione dei territori palestinesi da parte di Israele.
È mai esistito un sionismo di sinistra? È innegabile lo spirito umanista e utopico, ad esempio, di Martin Buber e di altri che aspiravano a creare un socialismo libertario in Palestina. Contro lo slogan sionista di “una terra senza popolo per un popolo senza terra”, Buber pensava a una terra per due popoli e criticava la politica coloniale della leadership sionista. Nel 1947, alla vigilia della spartizione, sottolineò che la soluzione non era quella di costruire due Stati, bensì un’entità socio-politica binazionale comune. E aveva ragione.
Tuttavia le posizioni di Buber sono sempre state minoritarie, anche nella cosiddetta sinistra sionista. Fu sotto la guida del Mapai, il partito laburista, che nel 1948 fu proclamato lo Stato ebraico. Allora decine di migliaia di palestinesi furono massacrati, mentre tra i 700.000 e gli 800.000 furono costretti a scappare abbandonando le loro case. Questo è ciò che nel mondo arabo viene chiamato nabka, o catastrofe, come spiega molto bene il palestinese Edward Said in La questione palestinese, ma anche l’ebreo Ilán Pappé in La pulizia etnica della Palestina. Una pulizia etnica, sottolinea Pappé, che continua a tutt’oggi. Pochi giorni fa, Ahvi Dichter, membro del gabinetto di sicurezza del governo israeliano, ha dichiarato senza mezzi termini che lo Stato ebraico – lo stesso che ha negato la nabka per 75 anni – ha già lanciato la nabka 2023. Detto fatto: l’80% della popolazione di Gaza (2,26 milioni di abitanti) è stata costretta a fuggire dalle proprie case nella peggiore catastrofe umanitaria dal 1948.
Eppure, come ha scritto il giornalista Gideon Levy, è impossibile tenere in prigione 2 milioni di persone senza pagarne un prezzo crudele. Quella prigione va smantellata subito e, per quanto possa sembrare inverosimile, nel lungo periodo solo la riconciliazione tra ebrei e palestinesi auspicata dall’utopista Buber potrà cambiare il destino dei due popoli. Nel 2009, la CIA statunitense aveva previsto che Israele sarebbe crollato in circa 20 anni e ora il Pentagono afferma che lo Stato ebraico potrebbe subire una sconfitta strategica nella sua guerra contro Gaza. Il conto alla rovescia è iniziato.

  • Relazione presentata all’incontro “Genocidio in Gaza”, nel campus Del Valle dell’Università Autonoma di Città del Messico (Uacm) il 6 dicembre scorso

DISCUSSIONE SU ISRAELE (Parte 2ª di 3)
di Claudio Albertani, Michele Nobile, Roberto Massari

Risposta ad Albertani
di Michele Nobile

link all’articolo di Albertani: http://utopiarossa.blogspot.com/2023/12/discussione-su-israele-parte-1-di-3.html

Caro Claudio
Siamo d’accordo sul punto più importante: che la soluzione dei due Stati – uno ebraico, l’altro arabo-palestinese – non è affatto una soluzione ma qualcosa che riproduce il conflitto fra le due nazionalità, senza rendere giustizia ai palestinesi. En passant, sono a conoscenza della maggior parte degli studiosi che citi (e di qualcun altro), della ICAHD e della One Democratic State Campaign
È proprio considerato da questo punto di vista che il tuo articolo è contraddittorio.


Tu contesti la validità delle pretese sioniste basate sulla storia antica. Non entro nel merito della storiografia antica perché, in realtà, è irrilevante. Quel che invece importa è la realtà del sionismo, un modernissimo movimento nazionalista prodotto dalla persecuzione degli ebrei, prima nel territorio dell’Impero russo e poi da parte del nazismo sterminatore in tutto il continente europeo. Il punto è che, in quanto movimento politico – laico e al suo interno perfino con correnti socialiste – il sionismo è profondamente contraddittorio: da una parte è movimento di un gruppo – etnico o religioso-culturale – atrocemente perseguitato; dall’altra un movimento che rientra nella categoria del colonialismo, precisamente nella categoria delle colonie di popolamento. Da ciò il rapporto ambiguo con l’imperialismo britannico. Non poteva fare a meno dell’appoggio britannico, ma poi si risolse a combatterlo. E l’imperialismo britannico appoggiò l’attacco degli Stati arabi al momento della proclamazione dello Stato di Israele, la ragione per cui Stalin sostenne Israele, facendo in modo fosse rifornito d’armi dalla Cecoslovacchia. Ma questo ti è noto, lo ricordo giusto per completezza.

Arrivando al dunque, se si ritiene che la sola possibile soluzione al conflitto arabo-israeliano sia la formazione di un unico Stato democratico, laico e multietnico (sulla cui precisa costituzione è qui inutile discutere), non è possibile usare formule che suscitino l’impressione che l’obiettivo sia la distruzione dello Stato di Israele. Pur sbagliata, la negazione della legittimità d’esistenza dello Stato di Israele aveva senso quando l’obiettivo dell’OLP era espellere gli ebrei insediatisi dopo il 1917 (posizione alla fondazione nel 1964); aveva ancora senso quando l’OLP passò alla posizione dello Stato democratico (posizione assunta nel 1971, se ricordo bene), cioè a uno Stato istituzionalmente arabo-palestinese ma in cui avrebbero potuto risiedere gli ebrei, purché non sionisti. Secondo queste posizioni l’«entità sionista» non aveva diritto d’esistere e quindi andava distrutta con la lotta armata; il che – dati i limiti operativi delle forze combattenti delle organizzazioni palestinesi – in pratica significava distrutta non solo e non principalmente con armi palestinesi ma con gli eserciti degli altri Stati arabi. Sappiamo come è andata a finire. Adesso a sostenere la lotta armata palestinese non rimane che l’Iran, il regime più reazionario che esista.
La strada verso l’unico Stato multietnico è molto lunga e aspra. Negare a priori la legittimità di Israele significa renderla impossibile. In conclusione del mio articolo ho scritto che la lotta per un unico Stato democratico

«richiede un movimento di lotta contro i rispettivi nazionalisti sciovinisti e fanatici, in cui confluiscano arabi palestinesi ed ebrei israeliani, la ridefinizione delle loro identità, in definitiva il rivoluzionamento sia della scena politica palestinese sia di quella israeliana». (http://utopiarossa.blogspot.com/2023/10/per-un-solo-stato-multietnico-laico-e.html)

«Rivoluzionare» la scena politica israeliana richiede che una grande maggioranza di israeliani rinneghi il sionismo. Ma a questo risultato non si può giungere dicendogli semplicemente: «il vostro Stato non ha alcuna legittimità storica». Gli ebrei israeliani dovranno fare i conti con la storia del sionismo ma, in termini politici, negare la legittimità di Israele è come dirgli che la loro nazionalità ebraico-israeliana non ha alcun diritto di esistere. Questo sarebbe un favore al sionismo. Inoltre, uno dei modi in cui si può mettere in crisi il sionismo è lo scioglimento dell’Autorità nazionale palestinese per rivendicare l’integrazione con pieni diritti dei palestinesi di Gaza e Cisgiordania nello Stato di Israele. È discutibile, ma può essere una via verso una comune realtà politica israelo-palestinese.

Un altro aspetto critico del tuo articolo è ciò che manca: la condanna durissima e senza mezzi termini di Hamas e soci come nemici del popolo palestinese, oltre che degli ebrei. Per farla breve: la strage di civili palestinesi in Gaza è eseguita dall’esercito israeliano ma il mandante della strage è Hamas. Di tutti gli orrori moderni che mi vengono in mente l’attacco di Hamas del sette ottobre 2023 è uno dei più assurdi e cinici. Non hanno solo fatto la più grande strage di civili ebrei in quanto ebrei dai tempi del nazismo. Sapevano perfettamente che la reazione di Israele questa volta non sarebbe stata una sanguinosa incursione, come è atrocemente normale nel ciclo bellico arabo-israeliano, ma un’invasione totale con l’obiettivo dell’annientamento di Hamas. Nell’articolo del 19 ottobre scrissi che

«Se i bombardamenti non cessano e se l’esercito israeliano invade Gaza le vittime palestinesi, in maggior parte civili, saranno tra dieci e venti volte più numerose delle vittime dell’incursione di Hamas. Su questo non ci si può fare nessuna illusione».

Non volli aggiungerlo, ma davo per scontato che le vittime fra i palestinesi sarebbero state intorno a 20 mila. Non è che abbia la sfera di cristallo o chissà quali strumenti. Lo si capisce estrapolando dai precedenti, considerando la densità della popolazione di Gaza e quel che significa il combattimento in ambiente urbano. I capi di Hamas sapevano bene che la loro miglior difesa sarebbe stata proprio la strage della popolazione civile e gli appelli al cessate al fuoco. Hanno deliberatamente sacrificato migliaia di persone per i loro interessi, in una logica fanatica del martirio ma anche con un calcolo astuto e cinico, per passare come gli eroi del mondo arabo e della causa palestinese.
Gli appelli al cessate il fuoco non sono credibili se non si dice a chiare lettere che Hamas e soci agiscono come nemici del loro stesso popolo. Bisogna sforzarsi di separare nettamente Hamas dai civili palestinesi. Trovo eticamente vergognoso e politicamente suicida che si inneggi alla «resistenza palestinese» identificandola con Hamas e soci, il che è obiettivamente un appoggio all’antisemitismo di queste carogne. Questi vanno politicamente distrutti e se sono i palestinesi ad ammazzarli, ben venga. È cosa che mi auguro con tutto il cuore.
A maggior ragione, non può tacere su questo chi sostiene l’idea di un unico Stato arabo-israeliano e della de-colonizzazione di Israele.

Spero che questa mia chiarisca le perplessità circa il taglio del tuo articolo. È un problema di coerenza relativamente all’obiettivo che condividiamo.

DISCUSSIONE SU ISRAELE

di C. Albertani, M. Nobile, R. Massari

Risposta ad Albertani

di Roberto Massari

Caro Claudio, come ben sai, in tempi recenti e prima del tuo articolo, Utopia rossa aveva già pubblicato alcuni testi che parlavano apertamente di un solo Stato, multietnico, democratico, laico e se necessario anche federale. E mi fa piacere che citi favorevolmente analoghe posizioni da parte di israeliani o ebrei antisionisti, di sinistra o semplicemente democratici (peraltro posizione non nuove ma sempre esistite), così coincidenti con le nostre. Tu ricordi che anche Martin Buber aveva una posizione analoga o simile – uno Stato democratico binazionale – ma non mi risulta che abbia mai negato la legittimità d’esistenza dello Stato d’Israele, per quanto critico possa essere stato sulla risoluzione 181 dell’Onu.

Veniamo al tuo articolo, partendo dalla questione della legittimità di esistenza dello Stato d’Israele. Questo Stato, sorto nel 1947-48, in senso giuridico ha un’esistenza più che legittima perché gliel’ha conferita il massimo organo sovranazionale esistente al mondo: le Nazioni Unite (belle o brutte che siano, e bella o brutta che sia stata quella decisione). Non fu un atto di occupazione militare o di conquista territoriale con la forza. E nemmeno un compromesso di potenze coloniali, come invece fu per Iraq, Siria e Giordania i cui confini vennero in gran parte decisi a tavolino (in primis la Gran Bretagna) tracciando delle linee sulla carta geografica. La nascita di Israele (risoluzione n. 181) fu votata il 24 novembre 1947 dalla maggioranza dei Paesi all’epoca membri dell’Onu: 33 a favore (compresa l’Urss, e questo è fondamentale che non lo si dimentichi, e non certo per mia simpatia verso un antisemita come Stalin), 13 contro (per lo più Stati arabi o mussulmani) e 10 si astennero. La risoluzione prevedeva anche la nascita di uno Stato palestinese e altre clausole che furono disattese (da Israele, ma non solo, Onu compresa).

La nascita di Israele non poteva essere formulata più chiaramente, vale a dire con un testo «giuridico-politico» di natura internazionale, approvato dalla grande maggioranza dei Paesi rappresentati all’Onu. Chi vuole contestare quella legittimità (se la parola legittimità ha un senso giuridico prima che politico) deve battersi quindi perché le Nazioni Unite rivedano quella decisione, e non tentare di annullarla col terrorismo, i missili sui civili e sulle città israliane, i pogrom antiebraici (come quello del 7 ottobre). Tutte azioni che servono solo a peggiorare le condizioni di vita del popolo palestinese e non hanno alcuna speranza o diritto di annullare la decisione dell’Onu: una decisione ormai storica, visto che ha superato i tre quarti di secolo (siamo quasi a 77 anni da allora). Non mi sembra che questa posizione (annullare la decisione dell’Onu: l’unica «legittima», per chi contesta quella leggittimità), sia la posizione di Hamas. Ad Hamas non solo non frega niente del popolo palestinese di Gaza (che ha consegnato inerme alla rappresaglia israeliana dopo aver dichiarato guerra a Israele nel modo barbaro che sappiamo), ma dichiara ufficialmente che il suo scopo principale è distruggere Israele e uccidere gli ebrei che vi abitano. Dopo anni di missili sui civili, attentati e scavamento di tunnel militari sotterranei (tutto pagato con il denaro, anche UE, che avrebbe dovuto utilizzare per costruire scuole, ospedali e abitazioni per i palestinesi di Gaza), Hamas ha cominciato a farlo alla grande il 7 ottobre e vorrebbe continuare a farlo. Per questo ha scatenato la guerra asimmetrica cui stiamo assistendo in questi giorni, applaudita da gran parte del mondo mussulmano ma aiutata a combattere (più simbolicamente che altro) solo dagli houthi, gli sciti filoiraniani dello Yemen.

In realtà, il vero obiettivo realistico che Hamas si riproponeva massacrando gli ebrei dei kibbutzim – e che potrebbe anche raggiungere se non viene distrutta – era scalzare l’Autorità Nazionale Palestinese nelle zone A e B della Cisgiordania (la vecchia OLP di al Fatah), presentandosi al mondo islamico come la sola e unica rappresentante della lotta per distruggere Israele. Insisto che l’effetto propagandistico c’è stato e che se non viene distrutta, Hamas potrebbe raggiungere il suo vero scopo. Anche per questo Michele Nobile, Antonella Marazzi, io e altri abbiamo scritto che Hamas è uno dei principali nemici del popolo palestinese (di Gaza e non solo) che va cancellato dalla faccia della terra in primo luogo nell’interesse degli stessi palestinesi di Gaza e della Cisgiordania e non solo per il suo feroce antisemitismo di matrice islamica.

Ma oltre alla legittimità giuridica c’è la legittimità morale. E qui si insinua l’antisemitismo: il non voler riconoscere che l’umanità ha contratto un debito gigantesco con gli ebrei di tutto il mondo sia per l’Olocausto sia per le repressioni antisemitiche che per secoli si sono svolte (comprese le Leggi razziali italiane o l’Urss negli ultimi anni di Stalin) e, come si è visto il 7 ottobre, continuano a svolgersi, per giunta nella forma medievalissima di pogrom. E questo in pieni anni Duemila. Israele non ha la colpa di aver accettato la decisione legittima delle Nazioni Unite, ma di averla stravolta, dando vita a uno Stato confessionale che non potrà mai fondersi con altre nazionalità, a loro volta altrettanto confessionali (anzi peggio, visto che sono islamiche e della peggior specie di islamismo). Questo è il peccato originale del sionismo arrivato al potere. Ebbene, dovere di un antisionista è battersi in primo luogo contro questo carattere confessionale di Israele, e poi contro tutte le violazioni della decisione dell’Onu (iniziale e successive), tra le quali le più gravi sono le occupazioni ultraillegittime (queste sì) da parte dei coloni in Cisgiordania. Che Israele abbia accettato a suo tempo di smantellare le occupazioni illeggittime dei coloni nella striscia di Gaza (decisione pagata con la vita da Yitzak Rabin nel 1995), mostra che qualche risultato su tale piano era ed è raggiungibile, nonostante l’esistenza dell’altrettanto medievalissimo fanatismo ebraico ortodosso: un fanatismo che ha sempre ricevuto alimento politico dalle aggressioni arabe e dagli attentati palestinesi contro Israele. È grazie a questa storia di aggressioni e attentati che un personaggio come Netanyahu riesce da anni a restare al governo. Per giunta al governo di un Paese che alle sue origini si ispirava a un sionismo di tipo laico e socialista (laburista) se non addirittura di utopismo collettivistico (vedi l’ideologia e le origini dei primi kibbutzim)

L’esistenza disastrosa di questo fanatismo ebraico ortodosso è una ragione in più per insistere sulla deconfessionalizzazione dello Stato e del regime attuali, perché senza di questa non si andrà da nessuna parte: stragi e conflitti prosseguiranno all’infinito.Ma deconfessionalizzare non significa distruggere lo Stato d’Israele. E qui chiaramente passa la linea di demarcazione tra antisionismo e antisemitismo. Chi vuole distruggere lo Stato d’Israele è un antisemita. Chi vuole deconfessionalizzarlo (e anche riportarlo entro i suoi legittimi limiti territoriali) è un antisionista. Un vero antisionista non nega la legittimità della sua esistenza, mentre proporre la distruzione o la fine di Israele, invece di combattere politicamente il suo governo, è una posizione antisemita, comunque la si presenti.

Tutto ciò non ha giuridicamente e politicamente niente a che vedere con la storia antica del popolo d’Israele, degli ebrei e della successiva occupazione romana della Palestina. Tu citi giustamente Israel Finkelstein (il cui principale libro, The Bible Unhearted del 2001 [Le Tracce di Mosè, Carocci 2002] è un capolavoro che ho letto ben due volte e ho raccomandato in giro di leggere) perché ha contribuito egregiamente a dare voce archeologica a ciò che molti altri studiosi – biblisti o no – dicono ormai da tempo: la vera storia del popolo ebraico originario è tutta da riscrivere e non coincide, se non per alcuni tratti, con quella ricavabile dall’Antico Testamento. Lo stesso Mosè non vi sono più dubbi che non sia mai esistito. Come non vi sono dubbi che gli ebrei furono politeistici a lungo prima di arrivare al più rigido monoteismo. Come non vi sono dubbi però che nel 66-70, Prima guerra giudaica, i romani sterminarono centinaia di migliaia di ebrei (secondo alcune stime forse quasi un milione), distrussero la loro capitale, il loro Tempio e diedero vita allo sparpagliamento degli ebrei come profughi, mentre prima erano sparpagliati come comunità commerciali, religiose ecc. Negare questa realtà di nascita della Diaspora (descritta così bene anche da Giuseppe Flavio) mi sembra una sciocchezza storicamente indifendibile e ci sono tonnellate di materiale storiografico che stanno lì a darmi ragione. Ma comunque questa storia è oggetto di discussione teorica, senza incidenze sulla questione attuale della legittimità. La legittimità dello Stato d’Israele non nasce dalla sua precedente storia plurisecolare di vita in quella tormentata parte del Medio Oriente. Quell’antica storia ne può essere casomai il contorno spirituale e culturale, ma non certo politico. Ma detto questo, posso ancor meno riconoscere una continuità storica al mondo islamico che non ha mai avuto un proprio Stato palestinese (a differenza del popolo ebraico che uno Stato lo ebbe nelle epoche del Primo e Secondo Tempio). Eppure l’islamismo mondiale ancor oggi rivendica Gerusalemme come uno dei tre suoi principali luoghi santi perché ivi Maometto fu trasportato nel 621 su un cavallo bianco per mano di Gabriele arcangelo, per ascendere al cielo e tornare poi nella sua sede alla Mecca (volando, perché l’Islam afferma che fece tutto in una sola notte). Quando in Italia esistevano i manicomi, ci si finiva dentro per molto meno.

Tu citi nomi di ebrei (israeliani o no) che a tuo dire contestano in vario modo la legittimità dell’esistenza di Israele. Su questo, se mi permetti (cioè sulla questione della legittimità e non tutto il resto) io dubito e vorrei vederli (leggerli) uno per uno questi autori ebrei, soprattutto per capire quali argomenti producano per negare tale legittimità. Ma ammettiamo che per alcuni sia vero: ciò non significa assolutamente niente, perché sono molti ma molti di più gli ebrei antisionisti che non negano la legittimità dello Stato d’Israele, pur opponendosi alle sue nefandezze. Né va dimenticato che nel passato ci sono stati ebrei che hanno addirittura collaborato coi nazisti. Ciò per dire che la questione dell’ebraicità degli autori è irrilevante: io non sono ebreo, eppure penso di avere su Israele le idee molto più chiare di tanti ebrei sionisti o antisionisti. L’appartenenza etnica o religiosa non deve mai significare nulla in questioni politico-teoriche. Anzi, spesso è proprio la non appartenenza che consente di avere le idee più chiare. Il Matzpen da te citato, invece, non esiste più (anche se può esserci qualche ex militante sparso e ancora attivo). Lo so bene perché uno dei due rami del Matzpen era affiliato alla Quarta internazionale negli anni in cui questa ci diseducava con la posizione di non riconoscere lo Stato d’Israele. (Posizione che, a quanto mi risulta, non ha più da quando si è liberata del Swp degli Usa e dei morenisti argentini, ma non sono abbastanza aggiornato e potrei sbagliarmi.)

Da non dimenticare, poi, che io ho ripubblicato il lavoro monumentale di Nathan Weinstock (Storia del sionismo) anche se l’autore mi ha poi scritto di non riconoscersi più in quel suo lavoro.Nei testi che abbiamo pubblicato prima di questa discussione a tre (per es. quello molto preciso di Michele Nobile) accennavamo soltanto all’importanza politica dell’esistenza di Israele. Forse non lo abbiamo fatto abbastanza e certamente dovremo tornarci sopra. Perché proporre la fine dello Stato d’Israele significa togliere dal Medio Oriente l’unico Stato democratico che vi esiste e resiste. Con tutti i limiti di tale democrazia, è pur sempre un Paese in cui si può manifestare contro il governo, si possono criticare e far cadere i governi, le donne sono anche soldatesse combattenti e in generale sono trattate come esseri umani (a differenza della mostruosa misoginia iraniana e islamica) e in cui parlamentari arabi-palestinesi possono addirittura sedere nella Knesset: è una democrazia o postdemocrazia imperfetta – ma quale paese «democratico» o postdemocratico al mondo non lo è? La democrazia imperfetta di Israele lo è soprattutto a causa della sua natura confessionale, che implica dei tratti da apartheid verso i non-ebrei, ma non è minimamente paragonabile alle feroci dittature islamiche circonvicine. E aggiungo che è veramente miracoloso che Israele si conceda il «lusso» d’essere una democrazia imperfetta mentre è circondato tutt’intorno militarmente da Stati islamici dittatoriali che sognano di distruggerlo, se solo ne avessero la forza. Stati che non consentono alcuna opposizione politica al proprio interno, alcuni dei quali impiccano o giustiziano chiunque sia sospettato di simpatie filoisraeliane o deroghi troppo radicalmente dalla presunta legge coranica.

Togliere Israele dal Medio Oriente significa lasciare campo totalmente libero al più reazionario dei regimi oggi esistente al mondo: all’Iran – autentica vergogna dell’umanità (e non solo per come tratta le donne). E lasciamo da parte altri notori campioni di democrazia e civiltà come la Turchia, l’Afghanistan, l’Iraq, gli Emirati, Hezbollah ecc. Israele sa bene che la sua sopravvivenza è legata a un filo: un filo ormai fondamentalmente militare. Cominciò a capirlo subito, nel 1948: il 14 maggio dichiarò la propria esistenza e il giorno dopo fu aggredito da un fronte costituito da 5 Stati della Lega araba e poco altro. Il mondo arabo antisraeliano prese la prima sonora batosta, ma i frutti di quell’aggressione li stiamo ancora pagando. La stanno pagando in primo luogo i palestinesi che a causa di quella guerra e col contributo espulsionista di Israele dovettero fuggire (nell’ordine di 7-800.000) dando vita così alla questione palestinese, a tutt’oggi irrisolta. Senza quella prima guerra, probabilmente non vi sarebbe mai stato l’esodo massiccio di un intero popolo o almeno Israele avrebbe avuto delle difficoltà a realizzarlo «a freddo» e di sola propria iniziativa. E sicuramente si sarebbe almeno tentato di mettere in pratica le altre clausole della 181, per quanto discutibili esse fossero, anche a mio personale avviso e non solo di Buber.

E se la Lega araba non avesse aggredito Israele sul nascere, come sarebbero andate le cose? il popolo palestinese e quello israeliano sarebbero forse vissuti meglio? sarebbero riusciti a trovare una qualche intesa? sarebbe stata possibile un’integrazione delle vari etnie? si sarebbe mai rafforzato il carattere confessionale di Israele? Tutte domande retoriche la cui risposta per me è evidente, con qualche dubbio sull’ultima. L’aggressione del 15 maggio 1948 non la si deve mai dimenticare sul piano dell’analisi (come invece viene fatto spesso e irresponsabilmente), perché se Israele si è dovuto trasformare in una cittadella militare (peraltro inespugnabile) ciò fu dovuto a quel primo attacco che, con grande sorpresa di tutti, esso riuscì invece a respingere, così come ha fatto in altri successivi attacchi e continuerà a fare se sarà ancora necessario: va detto però che ormai l’unico Stato che sembra puntare alla distruzione d’Israele (a parte Hamas ed Hezbollah) è l’Iran. Segno che una certa evoluzione esiste anche nel mondo arabo, anche se purtroppo non nell’insieme del mondo islamico.

Se la questione palestinese si è militarizzata la colpa originale risale a quel primo attacco proditorio e fallimentare da parte della Lega araba che produsse il primo grande esodo dei palestinesi, «incoraggiato» subito dallo stesso governo israeliano con la politica delle espulsioni. In séguito Israele e alcuni suoi governi hanno appesantito il carico, potendo contare su un’indiscussa superiorità militare e sul pieno sostegno politico e morale del proprio popolo. Resta il fatto, però, che alcuni degli stessi Stati arabi responsabili della prima aggressione hanno poi fatto vivere i palestinesi sfollati in campi profughi, invece di assimilarli nelle proprie strutture sociali e trattandoli sempre come cittadini di serie B o C. Oppure con massacri di massa come fece la monarchia giordana hashemita (cioè discendente di Maometto) nel settembre «nero» del 1970. E come avvenne a Sabra e Shatila nel 1882, dove, con la complicità d’Israele, le falangi libanesi sterminarono più di un migliaio (o due, forse tre migliaia) di civili palestinesi inermi, rinchiusi nei campi profughi. Discriminazioni dei palestinesi che i responsabili arabi accompagnarono sempre illudendoli col miraggio antisemita, reazionario e irrealizzabile di distruggere Israele e ammazzare il più possibile di ebrei invece di trovare una qualche forma di convivenza. Col tempo una graduale assimilazione c’è comunque stata (soprattutto in Giordania, come ho potuto verificare anche personalmente di recente), ma non fu così per decine di anni e continua a non esserlo in alcuni casi, come per i campi che ancora esistono in Libano affidati alla dittatura (filoiraniana) di Hezbollah.

Israele sa che al suo primo segno di debolezza l’aggressione degli Stati più o meno confinanti ricomincerebbe, fino a distruggerlo e sterminare il suo popolo (gli ebrei di molteplice provenienza, ma anchei non ebrei come s’è visto nel pogrom del 7 ottobre). Ma una delle ragioni per le quali Israele non potrà mai perdere militarmente e scomparire è qualcosa che gli antisemiti di varia matrice non riescono a capire e forse non capiranno mai: la maggior parte degli israeliani odierni sentono di doversi battere fino alla morte, se necessario, perché non si ripeta quanto accadde negli anni del nazismo, negli anni del Patto di Hitler con Stalin e con la successiva «soluzione finale», quando i loro progenitori furono massacrati a milioni senza opporre resistenza e senza che nessuno Stato intervenisse a loro difesa. Anzi, l’Urss addirittura si alleò con Hitler nella fase di avvio dello sterminio vero e proprio, le due principali Chiese cristiane tedesche (cattolica e protestante) diedero la loro benedizione e Pio XII non mosse un dito per impedirlo fino a quando non cominciò a capire che Hitler stava perdendo la guerra (si veda il magnifico libro di David Kertzer su Il Papa in guerra). E comunque nemmeno a guerra conclusa condannò mai l’Olocausto. Questa è la carica morale che rende impossibile sconfiggere Israele e questa carica è densa di storia, storia del Novecento e non dell’èra dei Patriarchi.

Questa storia di sofferenze del popolo ebraico io la sento come mia. Anche per un fattore personale: mio nonno comunista fu assassinato alle Fosse Ardeatine e così, fin da bambino, ho frequentato e mi sono sentito associato agli ebrei romani nel loro dolore per il massacro compiuto e nel quale essi pagarono un alto prezzo. L’ebraismo romano è stato parte della mia infanzia e ha continuato ad esserlo in età adulta quando mi sono costituito parte civile in tutti e tre i gradi del processo contro Priebke – unico famigliare non ebreo ad averlo fatto. Anche per questo c’è una parte di me che è visceralmente sensibile all’antisemitismo, comunque esso si presenti, che la persona implicata se ne renda conto o no.

Ed è un esempio di antisemitismo attuale il comportamento di ciò che resta della sinistra reazionaria italiana (ma lo stesso discorso si potrebbe fare per alcuni campus statunitensi, alcune correnti politiche latinoamericane ecc.), la quale sta facendo manifestazioni una dopo l’altra, ufficialmente per fermare il governo di Israele, ma sostanzialmente per difendere Hamas e il suo intento genocida. Ah già, dimenticavo di dire che la volontà dichiarata esplicitamente – da Hamas, da Hezbollah, dal governo iraniano, da settori della sinistra reazionaria mondiale e fino a un recente passato dall’islamismo al potere in alcuni Stati – di distruggere Israele e «buttare a mare» gli ebrei che vi vivono è un vero e proprio proposito genocida: antisemita e genocida. Ed è pazzesco che simili barbarie possano ancora circolare ed essere condivise da presunti «democratici» o reazionari di sinistra. Da questi orrori io mi separo nettamente e affianco invece la giusta lotta antisionista contro l’attuale regime confessionale israeliano alla giusta lotta per la difesa del popolo d’Israele e del suo legittimo Stato, ribadendo che l’unica soluzione positiva e realistica per i palestinesi sarebbe la trasformazione d’Israele in uno Stato plurietnico o plurinazionale, democratico e soprattutto laico. L’idea dei due Stati è folle e irrealizzabile. La sofferenza pluridecennale dei palestinesi sta lì a dimostrarlo e purtroppo continuerà a dimostrarlo ancora per molto, anche dopo che sarà terminata questa guerra asimmetrica voluta e scatenata da Hamas.

Su Israele e sulla Palestina

di Giovanni Bruno

La discussione sulla situazione in Palestina è estremamente importante. Ci sono alcune questioni fondamentali per comprendere (intanto) il quadro complessivo, e per poter poi formulare una posizione o aderire in linea di massima a una già esistente.

1) cos’è il “sionismo”: movimento sostanzialmente nazionalista, in cui convergono più ‘famiglie’ politico-culturali (dalla destra ipernazionalista, a base etnico-religiosa, alla borghesia liberal-modernista, alla “sinistra” socialisteggiante; come in altri movimenti autonomisti/indipendentisti, l’obiettivo prioritario è la conquista di uno spazio statale autonomo e riconosciuto internazionalmente: nel caso del sionismo, questo obiettivo primario è intriso con la prospettiva del ritorno alla “terra promessa”, condivisa da ogni orientamento politico.
Vi è tuttavia una “anomalia” nell’etno-nazionalismo sionista, oltre allo sfondo religioso: il popolo di Israele, nella stragrande maggioranza, non abita la terra su cui costruire lo Stato di Israele, dunque non si tratta di un nazionalismo che deve liberarsi dal giogo straniero o ricucire in unità membra disarticolate di una nazione (obiettivi anche questi non scolpiti nelle leggi eterne dell’umanità, ma “invenzioni” ottocentesche di intellettuali per costruire collettività omogenee, le ‘nazioni’, dominate da gruppi borghesi intenti a costruire la modernità capitalistica e sviluppare mercati più ampi e pervasivi per le eccedenze della produzione manifatturiera e finanziaria delle proprie industrie e banche).

2) il “socialismo” dei kibbutz e una forma di collettivismo sostanzialmente a base etnica che, per quanto laica, tendeva a costituire uno stile di vita collettivista e antindividualista (almeno alle origini) per comunità ebraiche; è un po’ come se considerassimo “socialiste” le comunità cristiane (prevalentemente eretiche, ma anche quelle degli ordini religiosi interni alla chiesa) medievali o neocatecumenali, in cui si vive la comunità su principi egualitari e pauperistici (pur non vivendo necessariamente in comune): è solo un’analogia, dunque non perfettamente sovrapponibile all’esperienza dei kibbutz, ma può servire a focalizzare la questione.
Sostanzialmente, però, considero l’esperienza dei kibbutz una versione etnica (su basi laiche) delle ‘comuni’, microcollettività che tentarono di sottrarsi alle dinamiche capitalistiche, ma che alla fine furono sottoposte ai condizionamenti del sistema capitalistico perché non fondate su basi universalistiche.
Non conosco la vita nei kibbutz (su questo Piero e altri/e possono raccontarci la loro esperienza), ma sicuramente non possiamo considerare una forma di socialismo collettività che si costituiscono sulla base di una concezione etnico-nazionalista (il sionismo): i kibbutz dovevano essere i nuclei ebraici fondativi dello Stato di Israele, non un modello universalistico per le classi popolari e proletarie di altri paesi. E cmq, come si può riconoscere facilmente, i kibbutz si sono trasformati in senso aziendalistico, assorbiti dalle dinamiche del mercato e piegati dalle pressioni dell’individualismo insorgente.

3) le politiche di Israele, dagli anni Novanta a oggi, si sono trasformate in una colonizzazione strisciante, nell’ambito delle occupazioni di territori palestinesi (Cisgiordania in primis): la fuga dai paesi dell’est Europa ha provocato una immigrazione ebraica di persone fortemente aggressive, che non hanno mai avuto a che fare con i palestinesi e dunque non hanno minimamente elaborato forme di comunicazione pacifica, ma si presentano con violenza contro uomini, donne, giovani e famiglie palestinesi espropriati delle proprie case e terre. La destra fascistoide di Netanyahu ha l’appoggio di questi settori, sui cui interessi si sono costruite le politiche sempre più aggressive di Israele.

4) Il sionismo ha come obiettivo, fin dalla sua nascita e dal 1948 con la fondazione dello Stato di Israele, l’individuazione e la colonizzazione di un’unica terra per gli ebrei: la Palestina. Penso che qualunque israeliano (esclusi gli arabo-israeliani) consideri il sionismo la base fondativa del proprio Stato: in chiave laica, iper ortodossa, socialisteggiante o democratico-progressista non può esistere Israele senza la sua base fondativa sionista, ideologia etnico-nazionalista su base fondamentalmente storico-religiosa. Questo ha conseguenze problematiche per qualunque soluzione si adotti:
a) due popoli, due Stati: il sionismo ha l’obiettivo ultimo di costituire un’unica entità statuale su base etnico-nazionalista (o addirittura religiosa), e perciò entra in contrasto con una idea di convivenza pacifica tra due Stati;
b) un unico Stato democratico: più ancora della prima ipotesi, in questo caso la costituzione di un unico Stato sarebbe una forma di annessione israeliana della Palestina: occorrerebbe non tanto un processo di riequilibrio demografico (che oggi si manifesta in forma conflittuale), ma la nascita e lo sviluppo di un movimento democratico-socialista, a base universalistica e progressista e non più etnico-nazionalista né tantomeno religiosa, che riunisse arabi ebrei cristiani atei ecc. in una nuova identità comune. Un processo che ha prospettive decennali, se non secolari, in questa fase storica;
c) uno Stato confederale: ipotesi già più praticabile, ma che in realtà è una forma alleggerita dei “due popoli, due Stati”: il Confederalismo avrebbe in questa fase una base etnico-nazionalista (non escluso il fondamentalismo religioso), che comunque comporterebbe un riconoscimento reciproco che non potrebbe non fondarsi sull’abbandono sia del sionismo da parte israeliano che del fondamentalismo arabo-islamico fomentato da Hamas e accolto sempre di più dalla popolazione palestinese.

Queste ultime ipotesi dovrebbero fondarsi su un’assunzione da parte della comunità internazionale (l’ONU) per sostituire la risoluzione del 1948 che determinò la nascita dello Stato di Israele (e di Palestina) e superare quelle relative alla condanna delle occupazioni militari dei territori palestinesi e garantire il diritto al rientro di tutti i profughi (prima ancora di nuovi arrivi da altri paesi europei e non).

5) palestinesi e arabi: nel campo palestinese, le contraddizioni sono altrettanto molteplici. L’epoca delle organizzazioni laiche e progressiste, con tendenze socialiste (in particolare al Fatah e il FPLP), è in grave crisi, e ha provocato la spaccatura del fronte palestinese tra la componente laico-presidenziale (rappresentata nell’ANP) e quella fondamentalista arabo-religiosa di Hamas, formazione reazionaria e oscurantista, come la stragrande delle organizzazioni religiose non solo islamiste). Da sempre il popolo palestinese e la sua lotta sono stati strumentalizzati per fini eteronomi dai paesi arabi: merce di scambio per gli equilibri economico-commerciali della regione, rispetto alla presenza di Israele considerato dal mondo arabo-islamico una nuova forma di neo-colonizzazione imperialistica occidentale.
L’emergere di movimenti islamisti (molti diversi tra loro, ma oggi convergenti) come Hamas, succursale dei sunniti Fratelli Musulmani egiziani a Gaza, e lo sciita Hezbollah in Libano assieme alle formazioni combattenti e terroristiche della jjhad (al Quaida, Daesh ecc.) hanno mutato profondamente lo scenario. La “guerra dei trent’anni” islamica tra sunniti (l’Arabia Saudita e le petromonarchie del Golfo) e sciiti (Iran) per l’egemonia nel mondo musulmano ha provocato conflitti disastrosi, in cui i paesi imperialisti euro-atlantici (USA, Francia, Inghilterra e altri) si sono inseriti per propri interessi (guerre in Libia, Siria, Yemen …).
La questione palestinese si è trasformata in una pedina del processo di affermazione del mondo islamico sugli scenari globalizzati del XXI secolo.
Servirebbe una nuova leadership palestinese che avvi un processo di ricomposizione della frattura palestinese, laica e democratica: Barghouti ha le caratteristiche per poter svolgere questo ruolo (come Ochalan per il popolo kurdo), perciò una delle battaglie che dovremmo sostenere per dare un contributo efficace alla causa palestinese è quella di aprire una campagna per la liberazione di Barghouti dalle carceri israeliane.