L’esordio di questo sito avviene in coincidenza con il 50° anniversario del movimento italiano e mondiale del 1968. Tale coincidenza potrebbe avallare un’immagine che in questi anni molti giornalisti, commentatori politici o di costume hanno diffuso a proposito della mia attività politica, sindacale, sociale e culturale: quella di un militante e intellettuale “folgorato” da tale movimento e conseguentemente rimasto confinato in quell’epoca, in quegli eventi e tendente a cercare di reiterare o riprodurre quell’esperienza.
“Bernocchi l’ho conosciuto nella primavera del ’68. Era stato uno dei protagonisti della battaglia di Valle Giulia, che diede il via al Sessantotto. Era un leader, contestava la scuola di classe, la borghesia e il capitalismo, il ministro dell’Istruzione Gui, che dopo pochi mesi cadde. Bernocchi no, restò alla testa del movimento e da allora, sempre con le stesse idee, contestò e vide cadere 28 ministri della Pubblica istruzione, tra i quali due futuri presidenti della Repubblica, Scalfaro e Mattarella. Oggi Bernocchi è sempre lì, non ha mai cambiato idea, ha sempre guidato una sinistra molto radicale, anche negli ‘anni di piombo’, senza mai farsi sfiorare dalla lotta armata. Ha guidato i movimenti pacifisti, i no global, i Forum mondiali, ma è sempre rimasto anche un sindacalista e nelle lotte della scuola ha creato il suo regno. Oggi la politica è essenzialmente trasformismo. Piero Bernocchi è l’esatto opposto, in quasi mezzo secolo non si è spostato nemmeno di un centimetro. E’ uguale ad allora persino di aspetto, sfiora i settant’anni ma sembra un ragazzetto…Bernocchi ha perso tutte le battaglie. Però molto spesso aveva ragione. Forse aveva ragione quasi sempre (Piero Sansonetti, Il Garantista, 19 maggio 2015).
“In lui la figura del contestatore assume i contorni della vocazione, di un rivoluzionario di professione presente da quasi mezzo secolo ad ogni appuntamento con la storia, alla testa di tutti i movimenti dal’68 in poi, con i capelli che restano neri come la pece (Enrico Mentana, Bersaglio Mobile, La 7, 14 novembre 2014)”.
“Piero Bernocchi è l’unico essere umano al mondo che sia rimasto completamente immutato in questi ultimi quarant’anni, e sono sicuro che i quarant’anni che gli restano da vivere Piero li trascorrerà tutti a guidare proteste di Cobas che più rauche sono e meglio è (Giampiero Mughini. Dagospia, 11 dicembre 2006)”.
“Non è un uomo, è una macina. Ha ‘triturato’ in tutta semplicità e candore, tutti i movimenti dagli anni Sessanta, Settanta, Ottanta, Novanta e: ‘Guarda, di nuovo Bernocchi’, dicono ancora negli anni Duemila. Lui c’è. C’è sempre. Numerosi i suoi saggi, variegata la gamma degli argomenti: il ’68, il ’77, il rapporto tra ’68 e ’77, per una critica del ’68, considerazioni sul ’68, dal ’68 all’Iraq, dal ’68 al movimento no global“ ( Andrea Marcenaro,Il Foglio, 29 ottobre 2008)”.
“Con il vecchio Piero feci la prima occupazione di facoltà e manifestazione di piazza quarantasette anni or sono, nella primavera del ‘68. Come tutti quelli fisicamente ben allenati che sembrano sempre baciati dall’eterna giovinezza, è uguale a quello di un tempo, il viso solo leggermente più segnato, il corpo da cultore delle arti marziali. Non ha mai avuto dubbi, è sempre stato dalla parte degli umiliati e degli offesi, quando si dice una traiettoria lineare… In politica refrattario è chi trasforma la coazione a ripetere in coerenza personale: così non si rigenera, non cambia, non vive, e in attesa della palingenesi finale si riduce a testimone di un passato che non ha presente (Lanfranco Pace, Il Foglio, 3 marzo 2015).
“E’ nuovo allarme democratico nella scuola, contro i test Invalsi. Si ribellano i ragazzi con lo slogan ‘Siamo studenti non numeri’. Li spalleggiano gli insegnanti dei Cobas, guidati dall’antagonista globale in servizio permanente Piero Bernocchi classe ’47 e stessa pettinatura dai tempi di Valle Giulia (Il Foglio, 4 maggio 2016).
“Sei il grande capo dei Cobas. Hai convocato lo sciopero per bloccare gli scrutini in tutte le scuole, sei nei titoli dei giornali ancora una volta. Con i tuoi 67 anni, gli ultimi 50 trascorsi a difendere i più deboli, potrebbe bastarti: e invece no, pensa Piero Bernocchi. Membro del Forum Sociale mondiale, ultimo incontrastato leader di piazza e di corteo, era a Valle Giulia quando le camionette della polizia sgommavano e poi non è più mancato (Fabrizio Roncone, Corriere della Sera, 18 maggio 2015).
E si potrebbe continuare a lungo, spigolando tra le centinaia di commenti sul mio ruolo politico, sindacale e sociale in mezzo secolo: l’epicentro dei giudizi riguarda l’”immutabilità fisica e politica“ di un militante politico giudicato anacronisticamente bloccato al ‘68, ad un avvenimento epocale ma oramai irrimediabilmente sorpassato dalla storia e dalla realtà. Solo che per affibbiarmi questa presunta “fissità”, i critici hanno dovuto evitare qualsiasi seria valutazione della mia produzione teorica e della mia attività di scrittore/saggista (una quindicina di libri, centinaia di saggi, migliaia di articoli). Infatti, i mezzi di informazione mi hanno disegnato, loro sì imprigionati nella fissità, come “un leader refrattario, con coazione a ripetere, che non si rigenera”, “bloccato” e “prigioniero di un passato che non ha un presente”, ruotante a vita intorno al rimpianto di un ’68 che non ha mantenuto le promesse iniziali ma che, ciò malgrado, meriterebbe di essere riesumato e riproposto permanentemente.
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Però, in primo luogo tale immagine è in stridente contraddizione con la capacità, che pure gli stessi commentatori e analisti hanno finito assai spesso per riconoscermi, di potermi/sapermi ritrovare protagonista, per decenni, di movimenti, lotte ed organizzazioni assai diverse tra loro, in situazioni decisamente mutevoli e varie e di certo non di natura “sessantottina”, che hanno sovente messo in difficoltà il quadro politico e i partiti e sindacati esistenti. E in secondo luogo, un minimo di approfondimento sulla mia produzione teorica, filosofica, politica e culturale – dai primi libri sui movimenti, sul socialismo, sul capitalismo e sul ruolo della politica, fino alla complessa e, a parere di molti/e, originale e innovativa (e assai apprezzata, come si potrà verificare in altra parte del sito, dagli specialisti che vi si sono cimentati) elaborazione sul benicomunismo e su una possibile società postcapitalistica, radicalmente diversa dal “socialismo reale” – avrebbe facilmente consentito di notare le profonde differenze teoriche, ideologiche e culturali (soprattutto nei riguardi del marxismo, della disastrosa parabola del socialismo novecentesco, del capitalismo contemporaneo, delle classi, del ruolo dello Stato, dei partiti, dei sindacati e dei movimenti) tra il Bernocchi protagonista del ’68 e degli anni Settanta del secolo scorso, e il portavoce dei COBAS e leader del movimento altermondialista/no-global nell’ultimo ventennio. Altro che “fissità”: si tratta di differenze che smentiscono seccamente l’immagine di un esponente politico, sindacale e culturale immutabile, tenacemente ancorato alle idee, alle esperienze e alle modalità politiche e ideologiche del ’68 e degli anni Settanta del Novecento: una “immutabilità” presunta che oltretutto renderebbe inspiegabile quella grande adattabilità, che pure mi viene riconosciuta, a tutti i principali conflitti degli anni di questo secolo, che mi ha consentito di avere un ruolo rilevante nei movimenti, organizzazioni e lotte del XXI secolo come nei decenni precedenti.
Peraltro, il paradosso è che io non sono affatto un nostalgico del ’68, né lo vorrei vedere ripetuto pari pari. E per uno svariato elenco di motivi che, qualora interessati/e all’argomento, i frequentatori/trici di questo sito potranno approfondire nei miei testi teorici qui riprodotti, a partire proprio da quel “Per una critica del ‘68” che, fin dal titolo, la dice lunga sul mio atteggiamento generale sul primo grande movimento di cui sono stato partecipe e protagonista, al di là dei tanti e notevoli insegnamenti politici, sociali, morali e filosofici che indubbiamente ne ho tratto. Pur nella enorme pluralità dei temi e delle motivazioni che hanno sostenuto e ingigantito quello che è stato indubbiamente il più grande e diffuso movimento mondiale del dopoguerra insieme al movimento altermondialista del primo decennio di questo secolo, se dovessi sintetizzare in poche righe il senso più profondo di quel rivolgimento italiano e internazionale direi che il ’68 è stato un epocale atto di volontà, di forte soggettivismo politico e di potente accusa morale e culturale da parte di milioni di persone, in larga parte giovani o giovanissimi, basato su una convinzione profonda: il mondo così come si presenta non funziona e non è accettabile, distrugge più ricchezza di quanta ne crea, tiene in un’ intollerabile miseria i tre quarti dell’umanità, mentre avrebbe i mezzi materiali per il benessere di tutti/e; è un mondo che produce in continuazione ingiustizia sociale, insopportabili differenze di reddito, violenza, guerre incessanti, corruzione, sopraffazione.
Ma ciò che ha reso tale movimento così dirompente, e non solo in Italia dove effettivamente è stato il più longevo – per un decennio, fino al 1977, con i suoi “prolungamenti” organizzati e la sua ideologia estesa – è che tale denuncia morale e ideologica nei confronti della struttura sociale ed economica dominante non venne fatta dipendere dalla stortura della natura umana o dal suo “peccato originale”, ossia da un dato immodificabile e a-temporale dell’esistenza: ma il movimento, in larghissima maggioranza, individuò nello specifico sistema di produzione capitalistico imperante, nella mercificazione globale a fini di profitto individuale, i responsabili universali della dissipazione della ricchezza materiale e sociale e della condanna ad un inferno terreno per la maggioranza degli/delle abitanti del pianeta. Dunque – concluse il movimento del ’68 – poiché tanta e tale ingiustizia è opera di una particolare organizzazione produttiva, economica e sociale, il mondo può e deve essere cambiato superando tale organizzazione!
Almeno per quel che riguardò l’Italia, un movimento che nella sua concezione della politica e nel suo agire quotidiano nei primi mesi sembrava subire influenze anarchiche, si ritrovò invece in breve tempo a proporre a centinaia di migliaia di giovani l’ossatura del marxismo e la lettura dei conflitti sociali come dipendenti dalla struttura classista della società, dal fatto cioè che alcuni settori sociali (classi, ceti ecc.) possono appropriarsi del lavoro altrui e ricavarne profitto grazie ai modi, appunto classisti, secondo i quali produzione e distribuzione sono organizzati, dando sostegno alla tesi fondante che il movimento comunista, egemonizzato dal marxismo e poi dal leninismo, aveva messo al centro del proprio operare: e cioè che l’antagonismo tra i gruppi sociali, ed in particolare tra borghesia e proletariato, scaturisca dalla divisione tra chi detiene la proprietà, o comunque il possesso effettivo, dei mezzi di produzione e coloro i quali, senza potere e senza proprietà, possono fornire per sopravvivere solo lavoro salariato, subordinato e per lo più indifeso.
Ciò che non mi induce a nessuna nostalgia “sessantottarda”, né a desideri di revival di quell’esperienza, e anzi me la fa considerare irrimediabilmente datata e, in tali forme e contenuti, irripetibile, è l’incompiutezza, anzi l’assenza, di un vero e significativo progetto di trasformazione sociale, economica e politica. Proprio mentre il “socialismo reale” ad Est, intorno alla Primavera di Praga, dava l’ennesima e oramai definitiva dimostrazione del proprio disastroso fallimento storico, noi non riuscimmo, e non solo in Italia, a delineare neanche un abbozzo di progetto post-capitalistico che non tentasse di abbellire, o radicalizzare, quel comunismo novecentesco oramai demolito nella coscienza di miliardi di persone dallo stalinismo terzinternazionalista. Cosicché, già dal ‘69 il movimento finì per frantumarsi in una miriade di partitini, gruppi e gruppetti, in gara per dimostrare di essere più a sinistra, più comunisti, più marxisti e più leninisti del PCI, e di rappresentare i migliori alleati e sostenitori della classe operaia, i migliori interpreti e paladini delle sofferenze delle classi sottomesse.
Questa scelta fu in primo luogo la conseguenza dell’incapacità di elaborare una nuova e originale strategia di trasformazione sociale e un modello di nuova società che fosse agli antipodi rispetto al “socialismo reale”, da cui non si prendevano le distanze totali e radicali, spostando invece le illusioni sulla sua fattibilità dall’Urss e dai paesi dell’Est verso la Cina, il Vietnam, Cuba ecc. Ma il movimento del ’68 – che agì in Italia senza veri “maestri” e senza neanche una partecipazione sincera di un’intellettualità esperta e conoscitrice profonda della struttura sociale, ambientale, economica, territoriale – sapeva davvero poco del capitalismo per come si stava evolvendo e del funzionamento profondo della società italiana, con la conseguenza di non essere in grado di passare dalla denuncia alla proposta organica e a 360 gradi.
Basterebbe confrontare la produzione analitica propositiva (come funziona la produzione e come la si può cambiare, quali fonti energetiche siano possibili in luogo di quelle inquinanti, come curare l’ambiente invece di distruggerlo, quali alternative alla finanza onnivora, come ridurre significativamente gli orari di lavoro senza far crollare la produzione, come distribuire equamente i prodotti, come ridurre vistosamente la miseria nei tre quarti del mondo, come trattare e gestire i Beni comuni, il territorio, l’acqua, l’agricoltura, la scuola, la sanità, i trasporti ecc.) del ’68, balbettante su gran parte di questi temi, e la messe straordinaria di materiali, idee, proposte partorite, soprattutto nel primo decennio del XXI°, dal movimento altermondialista (no-global) internazionale – dotato di un pensiero universale assai più forte, con ben altre capacità di analisi e progettazione – per capire l’insensatezza di nostalgie o riproposizioni di una strumentazione ideologica, politica e culturale irrimediabilmente datata, fuori luogo quanto pretendere che il vinile e i giradischi (pur tornati di moda tra sofisticate élites negli ultimi anni) riprendano il posto oramai irreversibilmente occupato da CD, DVD, streaming ecc.
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Ma, segnalata la mia distanza da speranze e velleità di impossibili ritorni al passato, o riedizioni di esso, ancor più forti sono però i miei netti dissensi e lontananze rispetto allo stravolgimento spietato che del ’68 – e in generale del “decennio rosso” ’68/’77 che ne seguì e lo prolungò come in nessun altro paese al mondo -, dei suoi contenuti migliori e del suo spirito collettivo più profondo, ne hanno fatto, soprattutto nell’ultimo ventennio, i principali poteri economici, politici e mass-mediatici italiani, geneticamente intimoriti da qualsiasi contestazione di massa dell’esistente, e tenacemente impegnati a colpevolizzare il ’68 e i suoi pochi protagonisti non “pentiti”, attribuendo loro la responsabilità di quasi tutti i mali della nostra attuale società. L’elenco in tal senso è sterminato: il ’68 avrebbe provocato la violenza diffusa e il terrorismo brigatista; l’individualismo sfrenato, vorace di diritti e incapace di accettare i doveri; la fine del principio di autorità e l’”anarchismo” diffuso nella società, priva oramai di regole condivise e rispettate; l’abbattimento dei principi religiosi e della famiglia tradizionale; lo sconvolgimento dei rapporti tra i sessi, l’aborto di massa e l’incombente eutanasia di deboli e indifesi; il caos nella scuola con le famiglie che trattano i docenti come servi della gleba; il rifiuto delle competenze e degli “esperti”; la fuoriuscita dall’illuminismo e dalla primazia della razionalità e della verifica scientifica ed empirica: ed ho elencato soltanto i principali capi di imputazione.
Seppur non è facile stabilire una graduatoria organica di insensatezza e strumentalità di tali “imputazioni”, almeno il primo posto lo possiamo assegnare – non fosse altro che per le pesantissime implicazioni che ha comportato, in termine di vittime umane e di disastri politici, il terrorismo brigatista – all’equiparazione tra il movimento del ’68, con i suoi prolungamenti conflittuali negli anni Settanta, e la cosiddetta “lotta armata” brigatista: insomma, il demenziale assioma “si comincia scontrandosi con i poliziotti a Valle Giulia e si finisce con gli ammazzamenti di Moro e la sua scorta”. Potrei limitarmi a riprendere un paio di brani che scrissi nel 1998 in Per una critica del ‘68 sul tema dell’uso della forza e della violenza nel movimento, che costituiscono un po’ una sintesi del mio pensiero a proposito di questo insano accostamento tra pratiche “forzute” dei movimenti nel decennio rosso e terrorismo brigatista:
“Uno dei giorni più belli della mia vita politica è stato forse il 1° marzo ’68. Quella mattina a Valle Giulia, davanti alla facoltà di Architettura,vedemmo per la prima volta la schiena dei poliziotti, i quali, dopo averci caricato a freddo, risalivano affannosamente la collinetta e le scalinate della facoltà. Non eravamo più noi a dover fuggire inseguiti dalla violenza della polizia o dei carabinieri: dopo anni di soprusi, le arroganze del potere, seppure per un istante, venivano piegate dalle ragioni di un movimento libertario. Sono ancor più certo, però, di quale sia stato invece il giorno più brutto: il 9 maggio 1978, data dell’uccisione di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse. Quel giorno, tutti coloro che in Italia, da sinistra, si erano battuti per anni contro il potere economico e politico, dovettero prendere atto, con dolore immenso, che il ‘decennio rosso’ veniva tragicamente sconfitto e si aprivano anni davvero bui per l’anticapitalismo italiano”.
“Tra i militanti del ‘partito armato’, alcuni si sono venduti in maniera ignobile, tirando in carcere i compagni. E non dopo torture ma dopo qualche settimana di ‘normale’ detenzione; altri sono usciti grazie a ‘dissociazioni’ più o meno umilianti e si sono messi a diveggiare, a cercare di diventare macchiette da talk-show, sceneggiatori o scrittori specializzati in terrorismo, pensando che in Italia anche la figura del ‘terrorista pensionato’ avrà un futuro; altri infine, davvero pochi/e però, hanno conservato una dignità dentro e fuori dal carcere. Ma nessuno/a, davvero neanche uno/a, ha fatto la cosa più utile e coraggiosa; e cioè dire: eravamo una sparuta minoranza rispetto alle centinaia di migliaia ‘in movimento’ (e ai milioni, se guardiamo a tutto il ‘decennio rosso’); sapevamo di agire in contrapposizione alla gran parte di essi e non ci faceva né caldo né freddo; eravamo coscienti che non c’era alcuna base di massa per la lotta armata, tant’è che l’abbiamo realizzata solo con attentati, uccisioni e rapimenti di singoli esponenti del potere, cioè con quella attività che, nella tradizione del movimento operaio, si è sempre chiamata terrorismo”.
Insomma, l’idea-dogma che i poteri economici e politici e gran parte dei mezzi di informazione, in oggettiva convergenza con i brigatisti, pentiti o meno, hanno cercato di inculcare nelle nuove generazioni – e cioè che tra Valle Giulia e l’uccisione di Moro, tra il movimento del ’68 e il brigatismo, ci fosse filiazione diretta, che “questo” fosse la naturale conseguenza di “quello” – è uno dei più grossi falsi storici della storia moderna italiana che, peraltro, continua ad avere pesanti ripercussioni sulla agibilità dei movimenti e dei conflitti. Il monito che ha accompagnato sotto traccia sia l’esplodere del movimento no-global all’inizio di questo secolo sia i successivi movimenti conflittuali è stato, più o meno: “guarda il ’68 e guarda il terrorismo e capirai dove ti può portare il desiderio di lottare per cambiare le cose, di ribellarti, di opporti senza compromessi al potere; ma se non lo capirai e non ti piegherai, potrai essere trattato come un terrorista anche se non hai mai visto una pistola”.
Per il movimento del ’68, l’uso della forza/violenza non fu mai un fine, esso nacque e si espanse senza intendere ricorrervi, a meno di considerare violenza l’occupazione delle Università: e in questo è stato mille miglia distante dal brigatismo armato. Fu lo Stato, il governo e in ultimo la polizia a rompere/impedire la pacifica espansione del movimento, a partire da Valle Giulia e con una sequela ininterrotta di interventi violenti: e da lì nacque per reazione il tentativo di usare la forza per difendere gli spazi conquistati, fisici e politici. Però, questo uso della forza conservò sempre caratteristiche radicalmente diverse non solo da quelle dei “partiti armati”, ma anche da una certa esibizione forzuta che, pur non confondendosi con il terrorismo, introdusse, fin dalla nascita dei principali partitini della Nuova Sinistra, una variante a volte distorta dell’uso della forza. Nel movimento del ’68 l’uso della forza fu prassi essenzialmente difensiva, finalizzata a garantirsi il diritto di espressione della propria volontà e la possibilità di manifestare liberamente, di collegarsi ad altri settori sociali. Per di più anche questo uso della forza per autodifesa dovette sempre passare al vaglio di un movimento di massa che ne limitava gli eccessi o usi impropri, valutando sempre se quel singolo atto avrebbe allargato o ristretto le potenzialità del movimento. Dunque, una impostazione lontana sideralmente dalla violenza programmatica e omicida, senza alcun controllo di massa, senza alcun rapporto né qualitativo né quantitativo tra i mezzi e i fini, tipica dell’azione dei gruppi armati clandestini degli anni successivi.
E malgrado alcune deviazioni “violentiste” di settori dei movimenti degli anni’70, malgrado alcune simpatie e tolleranze ricevute dalle formazioni armate nella seconda parte degli anni’70, non va mai dimenticato che quando il brigatismo esplicitò le sue forme terroristiche in modo eclatante con l’uccisione di Aldo Moro, preceduta dalla strage della sua scorta, le simpatie e le contiguità si esaurirono rapidamente, e il “mare” in cui i brigatisti/e si vantavano di nuotare si rivelò un piccolissimo stagno senza vie di fuga. Cosicché, gli apparati statali lasciarono agire ancora per un po’ i pochi armati (mai cancellare il fatto che su milioni di giovani coinvolti nei movimenti del decennio rosso non più di un migliaio mantenne la scelta brigatista dopo l’”operazione Moro”, cioè, più o meno, l’1 per mille di un’intera generazione politica) utilizzandoli cinicamente per distruggere ciò che restava dei movimenti, per poi spazzarli via in due o tre anni.
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Se dunque l’attribuzione di responsabilità dirette al movimento ‘68 (e al suo decennale seguito movimentista) nella filiazione della lotta armata terroristica è il più grave, il più eclatante e il più ignobile – per le conseguenze che ha comportato per decenni e che ancora pesano (e peseranno) sulle lotte sociali in Italia – dei falsi storici che gravano sul ’68, non ha però meno rilevanza ideologica, filosofica e culturale l’accusa, altrettanto insistente, al ’68 e ai movimenti sociali connessi di aver diffuso in tutti gli ambiti della società una sorta di individualismo senza freni, narcisista e anarcoide, basato sul culto di un Ego vorace di diritti ma del tutto incapace di accettare doveri: e di aver dunque determinato progressivamente nella società italiana (ma analoghe accuse si possono ritrovare nei mass-media di vari altri paesi occidentali in queste settimane), con il trionfo dell’Io sul Noi, la fine di ogni principio di autorità e l’anarchismo diffuso nella società, priva oramai di regole condivise e accettate.
Sostenere che il ’68 abbia dato la stura al dominio dell’individualismo, del narcisismo, dell’auto-centratura, alla vittoria dell’Io sul Noi, è falso storico altrettanto clamoroso di quello sulla connessione ’68-terrorismo. Casomai al ’68 e ai movimenti degli anni Sessanta e Settanta si potrebbe fare la critica opposta, quella di un eccesso di collettivismo, di una prevalenza secca, a volte quasi asfissiante, del Noi sull’Io, spesso e volentieri sacrificato alle esigenze collettive. Il volontariato e la militanza corale, gratuita, continua, nel corso di un intero decennio non hanno precedenti in tutta la storia italica: e si sono realizzati grazie ad una fusione di massa, solidale anche nei momenti di forti scontri, che obbligava costantemente l’Io a subordinarsi alle volontà e alle decisioni collettive. Anche la vita privata non poteva prescindere da quella pubblica/politica di gruppo, o quantomeno non poteva contraddirla palesemente: e lo stesso leaderismo, che certamente ci fu, dovette sempre passare al vaglio (tranne rare eccezioni, presto marginalizzate e ridicolizzate) del giudizio pubblico, collettivo.
Insomma, gli Ego dovettero piegarsi , o comunque adattarsi, all’incombenza del Noi, che solo poteva imporre di fatto, con la pressione morale e psicologica, la militanza volontaria e gratuita per un lasso di tempo che per molti/e di noi coprì l’intero decennio rosso, restituendoci in cambio una scuola di vita, politica, sociale, culturale e morale che cambiò quasi sempre la nostra lettura del mondo, della realtà circostante, dei rapporti umani, della stessa antropologia. E offrendo alla società tutta un vistoso allargamento della democrazia, consentendo al lavoro dipendente, operaio e non, un significativo miglioramento di diritti e condizione economica, aumentando il tasso di democrazia nelle strutture pubbliche, nella scuola, nella sanità, persino nella magistratura e nella psichiatria, liberalizzando i costumi, i rapporti tra i sessi, gli stili di vita. Certo, è innegabile che una parte delle leadership di quegli anni, una volta subita la sconfitta dell’intero percorso “sessantottino”, abbia progressivamente messo a frutto quanto acquisito grazie ai movimenti e l’abbia utilizzato in tutt’altra direzione. Ma questo fa parte dell’andamento fisiologico dei mutamenti storici e del diritto di ognuno/a di cambiare idee, teorie, impostazioni di vita senza dover essere colpevolizzato (anche se sarebbe sempre di buon gusto non fare come quei preti spretati che, abbandonata la vecchia fede, si dedicano con la massima acrimonia ad aggredirla e a demolirla ancor più degli “infedeli” storici): e non può essere certo essere addebitato al ’68.
Di sicuro tra quel collettivismo sessantottino e l’attuale narcisismo di massa, caratterizzato dallo sbalorditivo dilatarsi degli Ego grazie soprattutto ai social – campo di battaglia ove milioni di individui si creano piccoli partiti personali, edificabili o smontabili a propria discrezione, senza alcun reale confronto collettivo, ruotanti intorno ad una moltitudine di mini-leader solipsisti e accecati dal bagliore dei like e dei mi piace, al punto da finire con il pensare che quella sia davvero la realtà – c’è non solo un abisso sociale, culturale e morale, ma, oserei dire, una vera e propria contrapposizione antropologica, una lontananza siderale di mondi, che rende risibili i paralleli o le presunte derivazioni di questo “cosmo” da quello.
Certamente il collettivismo del ’68 e del decennio rosso ha contribuito non poco allo svecchiamento dei costumi e alla loro liberalizzazione, ha messo in forte discussione non solo l’autoritarismo politico e sociale ma anche l’autorità senza autorevolezza, in famiglia come nella scuola, nei posti di lavoro come nelle istituzioni; ha contestato il patriarcato, il dominio maschile nella società e la subordinazione femminile (ma questo solo a partire dai primi anni Settanta grazie al femminismo e non nel ’68, quando il movimento fu monopolizzato da leadership maschili), l’omologazione coatta dei comportamenti sessuali, l’interferenza religiosa e vaticana nelle attività statali e nei diritti civili. Ma tale influenza non va esagerata e soprattutto non va sottovalutato come la liberalizzazione della vita civile si è avvalsa delle grandi trasformazioni indotte, a partire dai primi anni Ottanta, dal capitalismo neoliberista, lo strumento più efficace nell’indurre nuovi costumi che esaltassero il ruolo dell’individuo-consumatore.
Basterebbe pensare al grande ruolo svolto nelle trasformazioni culturali e sociali dalle TV private, berlusconiane soprattutto, fin dai primi anni Ottanta, il modello di “Drive In”, della “Milano da bere”, del consumismo trionfante e gioioso, che in pochi anni mise all’angolo l’idealismo collettivista e solidale dei movimenti, già in crisi radicale a causa dello scontro armato tra lo Stato e il brigatismo residuale, che toglieva l’acqua e l’ossigeno ai “pesci” movimentisti. E d’altra parte basterebbe gettare uno sguardo alla Spagna, paese la cui gioventù non solo non ha conosciuto il ’68 ma ha vissuto più della metà degli anni’70 sotto la cappa plumbea del fascismo franchista: e che pure oggi sul piano dei diritti civili e dei costumi è decisamente più avanti di una Italietta tornata sfacciatamente in questi ultimi anni – e in maniera galoppante ora, sotto l’egida del governo Lega- Cinque Stelle, il più di destra e reazionario del dopoguerra – ultraconservatrice, ultramoderata e tenuta incollata, come quasi sempre nella sua storia, dal trasformismo, dal gattopardismo del “cambiare tutto per lasciare tutto uguale” e da un dilagante familismo amorale che rende ridicolo ogni lamento sulla “fine della famiglia e del matrimonio”, solo per il fatto che anche gay e lesbiche desiderano ed esigono, in buona parte, di potersi sposare e mettere su famiglia.
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Infine, è il caso di affrontare l’ultima – ma non in ordine di importanza – “imputazione” contro il ’68, quella di aver dato il contributo fondamentale allo svilimento della scuola e del ruolo degli insegnanti: accusa certo abbondantemente prevedibile, essendo il movimento nato proprio nella scuola e gestito e diretto per la quasi totalità da studenti. Prima di sottolineare la vacuità di questa accusa, è doveroso segnalare come in realtà il movimento del ’68 e ancor più i movimenti degli anni seguenti abbiano via via marginalizzato le tematiche conflittuali relative alla scuola e all’intero processo educativo pubblico, con il trasferimento in massa, armi e bagagli, dei militanti sul terreno dell’avanguardia rivoluzionaria complessiva, con il ruolo di presupposta guida delle lotte anticapitalistiche e antisistema, ritenute di qualità superiore ai possibili conflitti interni al mondo dell’educazione e della formazione. Guardando le cose dalla prospettiva odierna, appare chiaro come quel trasloco, che pure estese e allungò la conflittualità anti-sistema ben più che in qualsiasi altro paese europeo o occidentale, troncò di netto una corretta auto-identificazione del proprio ruolo sociale e delle proprie prospettive economiche e strutturali da parte di milioni di studenti. Il paradosso è che tale disidentificazione avveniva proprio mentre nell’educazione/formazione e nelle figure tradizionali del lavoro mentale si annunciavano trasformazioni epocali che avrebbero richiesto ben altra attenzione proprio da parte di coloro che ne erano più direttamente coinvolti. La vistosa estensione della scuola di massa, infatti, era inserita all’interno di un processo epocale di “proletarizzazione” e massificazione del lavoro intellettuale, così come era accaduto nell’Ottocento per il lavoro manuale di artigiani e contadini trascinati in fabbrica a fornire forza-lavoro “astratta”, cioè priva delle identificazioni e dell’autonomia del mestiere precedente.
Si andava preparando una vera e propria mutazione genetica del lavoro mentale, con la riduzione a intellettuali-massa dei protagonisti di centinaia di lavori mentali indipendenti, fino ad allora garantiti e ben retribuiti. Forse le avanguardie più coscienti e sensibili percepirono la trasformazione imminente e vi si ribellarono ma – a differenza ad esempio del movimento del ’77 che mise invece questa tematica al centro del proprio operare insistendo sul conflitto tra garantiti e non garantiti – invece di agire su questo terreno riconoscendosi come apprendisti di un futuro lavoro mentale flessibile, precarizzato e immiserito, preferirono tentare la mutazione in avanguardia politica complessiva. Recuperando e rilanciando così proprio quel politicismo che il ’68 aveva contestato, e cercando di issarsi sulle spalle di una classe operaia che si riteneva forza assai più decisiva della intellettualità “piccolo borghese”, proprio mentre essa in realtà, come le vecchie lampadine ad incandescenza, brillava di più perché la “resistenza” del filamento si stava logorando e la maggior luminosità segnalava solo che stava per bruciarsi come presupposta “classe rivoluzionaria”.
In tal senso, le influenze del ’68 e dei movimenti del decennio rosso sulla scuola e sul ciclo educativo sono state per lo più indirette, con le scuole quasi sempre usate come avamposti di una generale lotta anti-sistema: e pur tuttavia sono di certo state rilevanti perché, però, hanno incrociato una forte spinta di sistema all’espansione della scuola di massa, richiesta da un apparato economico che necessitava, a fini produttivi, di una diffusa crescita dell’istruzione, unificata sul territorio nazionale, di milioni di studenti, futuri, necessari lavoratori/trici flessibili e adattabili. Come conseguenza di questa duplice azione, sinergica seppur sovente inconsapevolmente da parte delle avanguardie studentesche – per lo più affascinate dalla trasformazione dei leader delle scuole e delle università in tanti piccoli Lenin, alla guida di partitini, gruppi e collettivi politici – negli anni Settanta ci fu, esattamente al contrario di quanto accaduto in questi ultimi venti anni, il massimo sforzo statale, pubblico e sociale per l’espansione della scuola di massa, con il record di investimenti pubblici nell’educazione rispetto a tutta la storia dell’Italia Nazione, sforzo mantenuto poi costante fino alla fine degli anni Ottanta.
Basterebbe segnalare come, sul piano quantitativo, con un trend crescente di investimenti a partire dalla prima metà degli anni Settanta, intorno al 1987 lo Stato italiano su 100 lire di spesa globale ne dedicava ben 13,2 all’istruzione pubblica, mentre nel 2017, dopo un ventennio di calo continuo dei finanziamenti, tale investimento si é ridotto a 8,6 euro su 100. Ma, oltre al dato quantitativo, è facilmente dimostrabile la netta superiorità della qualità delle innovazioni, della ricerca di percorsi didattici ed educativi nuovi e della vitalità della scuola pubblica negli anni Settanta e Ottanta, proprio sull’onda della spinta “movimentista” del ‘68, rispetto all’attuale immiserimento culturale e sociale della scuola pubblica. Miseria educativa prodotta dalla catastrofica filosofia della “scuola-azienda”, dell’istruzione come servizio on demand per una “clientela” sempre più invadente, arrogante e aggressiva nei confronti di insegnanti ridotti a “servi della gleba” dequalificati, umiliati nelle proprie funzioni e prerogative, costretti a cercare di cavarsela con i minori danni possibili sotto la sferza di presidi-padroni, a loro volta timorosi dei capricci di “clienti”, che dal web e dai nefasti gruppi social pensano di poter oramai stabilire cosa sia meglio per i propri pargoli e come i docenti dovrebbero insegnare.
Tra le leggende metropolitane più diffuse a proposito del ’68, una delle più pervicaci e infondate è quella che le leadership di allora avrebbero imposto un processo inarrestabile di banalizzazione dell’insegnamento, mentre intendevano combattere contro la scuola classista e “la selezione di classe”: e come emblema di questo supposto degrado qualitativo viene quasi sempre richiamato il mito del cosiddetto 6 politico o, nella versione universitaria,del 18 politico, ossia la richiesta programmatica, da parte del movimento del ’68, della facilitazione massima degli studi mediante la soppressione di fatto di esami, bocciature, votazioni differenziate e “gerarchiche”. In realtà basterebbe uno sguardo anche superficiale alla pubblicistica del movimento del ’68 per verificare come non esista traccia alcuna di richieste di presunti 6 o 18 politici, magari anche solo perché le leadership di allora avevano una solida cultura di base, una formazione intellettuale media impensabile per i ventenni d’oggi, una capacità di espressione nettamente superiore a quelle di gran parte del ceto politico odierno e in generale un curriculum scolastico che li aveva visti uscire dai licei (in prevalenza) con medie almeno tra i 7 e gli 8 decimi e approdare all’Università disdegnando i voti inferiori ai 30 trentesimi.
In realtà il ’68 non voleva affatto una scuola più “facile”, e men che meno cialtronesca come spesso è stata ed è quella degli ultimi venti anni, dopo il trionfo dell’insulso aziendalismo scolastico. Anzi, ne voleva un elevamento qualitativo, un arricchimento culturale che però si affrancasse dai limiti di un elitismo classista – con il liceo classico come modello educativo preponderante – che offriva le scuole migliori ai giovani già privilegiati per classe e ceto, e riservava una scuola-manovalanza, a tasso culturale ben più basso, per i figli dei ceti popolari. Ed è ancor più falso che sia stato il ’68 a iniziare la demolizione dell’autorevolezza dei docenti. In realtà nei loro confronti il conflitto riguardò soprattutto la qualità e i contenuti dell’insegnamento, dei sottintesi culturali, delle letture della storia e dell’attualità, dei temi delle materie: ma non ci fu affatto, se non in casi sporadici e isolati, una volontà di immiserimento o di umiliazione del ruolo. A cui invece stiamo assistendo con sempre maggiore preoccupazione e indignazione in questi ultimi tempi, tra docenti fisicamente aggrediti da studenti e genitori e mobbing sempre più asfissianti da parte di famiglie del tutto immedesimate nella parte della clientela arrogante che vorrebbe poter arrivare, in difesa cieca dei propri pargoli, alla diretta resa dei conti con gli insegnanti, in una logica da “alla prima che mi fai, ti licenzio e te ne vai”.
Non solo aggressioni fisiche e verbali del genere non si verificarono affatto durante il ’68, allorché le contestazioni vennero indirizzate soprattutto verso le strutture e l’istituzione, in quanto ritenuta classista, e non contro i singoli docenti, ma negli anni successivi proprio tra gli oppositori della “scuola di classe” si sono poi registrati i maggiori afflussi verso l’insegnamento, dalle Elementari all’Università. Ed è stata proprio questa generazione di “contestatori” (tra cui il sottoscritto) scesa in campo come movimento antagonista tra il ’68 e il ’77 e poi entrata nella scuola per insegnare, che più si è battuta nell’ultimo ventennio – con i COBAS in primissima fila – contro la distruttiva scuola-azienda imposta a partire dalla sedicente “autonomia scolastica” di Berlinguer e del primo governo Prodi, ed in generale contro l’immiserimento materiale e culturale di quel vero e proprio presidio di civiltà che è, o che dovrebbe essere, l’istruzione pubblica.
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I lettori e le lettrici di questo sito avranno modo – se dotati della pazienza necessaria per destreggiarsi tra la straripante mole di materiale (che coprirà, quando il sito sarà completato, mezzo secolo di mia attività politica, sindacale, sociale e culturale) – di aver chiaro perché trovo del tutto fuori luogo la definizione del sottoscritto come sessantottino non pentito. In verità, l’etichettatura per annata, simile a quella dei vini, è del tutto artificiosa perché il ’68 è stato per me solo l’anno di inizio di un percorso (peraltro il mio impegno politico era iniziato due anni prima) che non ha fatto distinzioni o cesure tra un anno e l’altro, tra un movimento e un successivo, tra l’attività politica e quella sindacale, tra il sociale e il culturale, tra l’agire quotidianamente per cambiare in meglio le cose aiutando i più disagiati e indifesi e il cercare di offrire una lettura del mondo, teorica, filosofica e culturale, quanto più possibile aderente alla realtà e ai progetti di trasformazione positiva dell’esistente. E il 2018 per me, qui ed ora, non va tanto segnalato e ricordato come il cinquantennale del ’68 ma come l’anno del trionfo del governo, egemonizzato dalla Lega di Salvini, più di destra, reazionario, razzista e xenofobo del dopoguerra italiano, al quale fin dal primo giorno ho dichiarato la più profonda ostilità politica, sindacale, sociale, intellettuale e morale. Dando seguito a quello spirito generale che mi ha guidato da 52 anni in un percorso conflittuale che ho cercato di sublimare in uno scritto che fa ricorso alla mitologia, e più precisamente ai miti di Sisifo, Icaro e Dedalo. Ed è appunto a tale scritto che troverete qui in homepage, rimando chi di voi sarà interessato/a a capire meglio tale spirito e il senso generale del mio percorso di più di mezzo secolo.