Da un sondaggio raggelante (NOTO Sondaggi, per il quotidiano Repubblica) risulterebbe che in Italia circa una donna su tre, di tutte le fasce di età, ha subito violenza negli ultimi anni, nel 42% dei casi a livello tale da far temere per la propria vita; e che l’80% delle intervistate non ha sporto denuncia e ne ha parlato solo con amiche. Questi dati aggravano una situazione che già appariva insostenibile in questi pochi giorni successivi all’oceanica manifestazione del 25 novembre a Roma al Circo Massimo, avendo dovuto assistere, con crescente indignazione, al ripartire, nonostante la valanga massmediatica in materia, di nuovi femminicidi (almeno 4 in tre giorni, e un altro paio sventati quasi per caso). Certamente, l’assassinio ad opera di un ventiduenne “bravo ragazzo” come Turetta ha colpito la popolazione italiana più che in precedenza, soprattutto proprio grazie ad una campagna mediatica martellante, ed è altrettanto vero che forse stavolta potrebbe ripartire un nuovo femminismo di massa, con una discreta partecipazione maschile. Ma…
Tale “ripartenza” non può funzionare solo a colpi di manifestazioni, convegni, campagne mediatiche ed “educazioni sentimentali”, tutti passaggi necessari ma non sufficienti. Perchè, malgrado la marea in piazza del 25, il martellamento mediatico e le indignazioni di massa, apparentemente trasversali politicamente e socialmente, la netta maggioranza dei maschi suprematisti non sentiranno ragioni per rinunciare al loro potere “familiare”. E’ gente che può essere fermata solo da una forza uguale e contraria, facendo intervenire tempestivamente e sul serio polizia e magistratura, assicurando una difesa economica e un’alternativa alle donne che non hanno mezzi per andarsene di casa, ma garantendo anche un’autodifesa permanente collettiva (interventi di gruppo contro il mascalzone di turno) e individuale.
Il tutto, però, richiede innanzitutto un’opera di “educazione”, oltre che dei giovani e giovanissimi in generale, non già dei carnefici, impermeabili alla “rieducazione” fin quando non ingabbiati in galera, ma in particolare delle vittime, delle tante donne sottomesse per necessità o per inconsapevolezza. E al proposito, mi viene in mente un esempio clamoroso di tre giorni fa, un femminicidio mancato di un pelo: quello di una povera donna che il marito stava massacrando di botte nel parcheggio di un supermercato. Sono intervenuti alcuni ragazzi che hanno bloccato il disgraziato e gli hanno pure menato. Poi lui si è rialzato e ha intimato alla poveretta di salire in macchina. La malcapitata, tutta insanguinata, ha obbedito mentre i ragazzi cercavano inutilmente di fermarla e portarla in ospedale. Ma non si sono persi d’animo, hanno preso la targa e chamato i carabinieri, che hanno rintracciato l’abitazione del massacratore, e vi sono arrivati in tempo, bloccandolo prima che finisse l’opera. Chi puoi sperare di “educare” in migliaia di casi del genere, i delinquenti o le sue vittime? E come, se non sei in grado non solo di aiutarle a liberarsi mentalmente dalla sottomissione ma anche di garantire loro una difesa effettiva e permanente, economica e fisica?
Infine, come già nel precedente articolo sull’argomento, pubblicato nel mio sito www.pierobernocchi.it due giorni fa, evito di usare il termine patriarcato, utile magari come riferimento storico ma oramai desueto e scavalcato in un panorama di progressiva disgregazione della famiglia “tradizionale”, che già da tempo, più o meno dall’affermarsi definitivo della famiglia “borghese” della middle class, non era comunque più definibile come patriarcale, almeno in senso classico e letterale. Men che meno paiono patriarchi i padri coinvolti nei femmicidi operati dai Turetta e da consimili criminali giovani o giovanissimi. In realtà buona parte di questi padri, già ben lontani dai modelli dei pater familias ottocenteschi, appaiono poveracci neanche in grado non dico di controllare o gestire, ma neppure di conoscere quello che succede tra i figli e le figlie, o non aventi comunque idea del che fare, e quasi sempre privi di qualsiasi ascendente o autorevolezza nei confronti di figli e figlie.
In verità, esattamente come esiste il suprematismo bianco nei confronti dei neri, il suprematismo ariano contro gli ebrei, il suprematismo dei paesi forti contro i deboli, degli stanziali contro i migranti, dei padroni contro i subordinati, della orrenda teocrazia iraniana contro il proprio popolo ecc., esiste il suprematismo maschile/macho nei confronti delle donne che non vogliono sottomettersi più, in famiglia e nella società. E alle espressioni del potere violento non basta rispondere con “l’educazione”, sentimentale o meno, ma deve entrare in campo un contropotere, con una forza almeno uguale e contraria. Altrimenti si soccombe, individualmente o collettivamente, come in tutte le dittature a cui non si riesce a contrapporre un movimento e una conflittualità altrettanto potenti.
p.s. Non mi pare il caso di impelagarsi in una diatriba lessical-storica sul termine “patriarcato”, che a mio parere ha un significato “classico” ben preciso. La dominanza maschile, politica ed economica, nella società italiana (a differenza di buona parte dell’Occidente ove sta avvenendo un progressivo riequilibrio di potere) mi è chiarissima. Solo che non credo utile continuare ad usare un termine che non corrisponde più, mi pare, alle caratteristiche dell’attuale dominanza, che io preferisco definire appunto suprematismo maschile. Pur tuttavia, storicizzare il linguaggio resta però importante. Ad esempio la teppaglia meloniana e salviniana non è il fascismo “storico”, e per essa non uso il termine “fascista” ma “fascistoide” (cioè avente modalità e temi simili al fascismo storico) e non mi piace neanche tanto, ne preferirei uno adatto al qui ed ora. E, altro esempio, trovo sbagliatissimo chiamare “nazisti” gli israeliani, malgrado l’orrore dei bombardamenti su Gaza, o addirittura paragonare quello che avviene a Gaza con la Shoah. Abusare di questi termini toglie loro ogni valore: se ogni violenza di Stato, per quanto atroce, è nazismo e ogni massacro è Shoah, allora i due termini perdono ogni valore nella lettura della storia.