Classe operaia, plusvalore e profitto
Ben altra solidità, saldezza teorica, argomentazione scientifica, valide basi di appoggio, concretezza e documentazione minuziosa ha invece quello che si conferma, anche a più di un secolo e mezzo di distanza, l’impareggiabile contributo storico, teorico e politico dell’analisi marxiana: lo studio dell’intera struttura capitalistica, il rapporto tra Capitale e Lavoro operaio e salariato, e la geniale dimostrazione di come le forze-lavoro siano le dirette produttrici di quel valore aggiunto, di quel plusvalore che consente la costituzione e la riproduzione allargata del Capitale stesso e di cui si appropria il capitalista che impiega il salariato/a. Laddove l’analisi economica dell’epoca – ma anche quella prevalente oggi – considerava la relazione intercorrente tra il padrone capitalista e il lavoratore/trice un normale e naturale scambio tra una certa erogazione temporale di lavoro e un salario proporzionato alle ore impiegate – e dunque senza alcuna particolare differenza rispetto ad ogni altro scambio tra merci – Marx indagò, rendendolo cruciale oggetto di ricerca e di scoperta, la assoluta particolarità del rapporto tra Capitale e Lavoro operaio/salariato, individuando in tale unicità la fonte stessa della accumulazione/riproduzione del Capitale.
Marx – ed egli lo riconobbe apertamente attribuendo all’economia “classica” (in contrapposizione a quella “volgare”) di David Ricardo e Adam Smith(47) il merito di tale rivelazione – non scoprì che ogni merce ha un valore pari al lavoro necessario per produrla. Ma egli disvelò la base del sistema capitalistico, il suo arcano, lo specifico rapporto ineguale che nella produzione (e non solo nello scambio, come ipotizzava l’economia “volgare”) si instaura tra i capitalisti e i proletari, tra chi possiede i mezzi di produzione e chi solo la propria forza-lavoro che deve vendere per vivere. Marx cioè rivelò il “mistero” del plusvalore, quel valore aggiunto che la forza-lavoro mette a disposizione del capitalista e che permette ad esso di formare/accrescere il proprio capitale, e risolse il problema che l’economia classica di Ricardo e di Smith non aveva saputo decifrare, e cioè l’origine di quel sovrappiù di valore che essi avevano ben visto senza però comprenderne la provenienza.
“L’economia classica trovò che il valore di una merce è determinato dal lavoro che è contenuto in essa, dal lavoro cioè che si richiede per la sua produzione. Di questa spiegazione essa si accontentò…(ma) questa spiegazione è diventata oggi assolutamente insufficiente. Non appena gli economisti applicarono alla merce ‘lavoro’ questo modo di determinare il valore per mezzo del lavoro caddero da una contraddizione all’altra. L’economia classica si era cacciata in un vicolo cieco. Chi trovò la via per uscirne fu Karl Marx. Ciò che gli economisti avevano considerato come costo di produzione del ‘lavoro’, erano i costi di produzione non del lavoro ma dello stesso operaio vivente. E ciò che questo operaio vendeva al capitalista non era il suo lavoro. ‘Appena il suo lavoro comincia realmente – dice Marx – esso ha già cessato di appartenergli e quindi non può più essere venduto da lui’ (48)…Egli non vende lavoro (che si dovrebbe ancora fare) ma pone a disposizione del capitalista per un certo tempo (salario giornaliero) o per una determinata prestazione di lavoro (salario a cottimo) la sua forza-lavoro contro una determinata paga; cioè, egli vende la sua forza-lavoro. La difficoltà che era insuperabile per i migliori economisti fin tanto che partivano dal valore del lavoro scompare non appena, invece, si parte dal valore della forza-lavoro. Nella nostra attuale società capitalistica, la forza-lavoro è una merce tutto affatto speciale. Essa ha cioè la proprietà specifica di essere forza produttrice di valore, di essere fonte di un valore maggiore di quello che possiede. Nello stato attuale della produzione la forza-lavoro dell’uomo non solo produce in un giorno un valore superiore a quello che essa possiede e a quello che costa; ma ad ogni nuova scoperta scientifica, ad ogni nuovo perfezionamento tecnico questa eccedenza del suo prodotto giornaliero sul suo costo giornaliero aumenta, cioè si riduce quella parte della giornata di lavoro in cui l’operaio produce l’equivalente del suo salario e si allunga perciò d’altro lato quella parte della giornata di lavoro in cui egli deve regalare al capitalista il suo lavoro senza essere pagato” (49).
Dunque, la forza-lavoro è una merce del tutto particolare e irripetibile: essa ha la caratteristica unica di poter generare nuovo valore se usata in modo capitalistico nella produzione delle altre merci. Perché avviene questo? Perché, come dimostrò Marx, essendo i costi della forza-lavoro determinati dalla somma dei mezzi di sostentamento del lavoratore/trice più quelli necessari per la sua formazione(50), ed essendo la forza-lavoro ingaggiata per un tempo determinato, è sufficiente che tale tempo superi quello necessario a pareggiare il costo del mantenimento e della formazione del lavoratore, per avere un surplus, un plusvalore di cui si appropria il capitalista. In termini numerici, esemplificava Marx, se un operaio lavora dodici ore(51) e la metà di esse sono sufficienti per ripagare i suoi costi di produzione (sostentamento e spese per la sua formazione), tutto ciò che egli produce nelle restanti sei ore diventa un valore aggiunto, un plusvalore, di cui si appropria il possessore del capitale e della fabbrica, che diventa dunque, una volta dato il salario corrispondente al valore della forza-lavoro, anche il possessore dei prodotti che il lavoratore effettua oltre l’orario coperto dal valore del salario ricevuto. Si tratta dunque di uno scambio ineguale, perché l’operaio nell’esempio citato ottiene per sé un valore pari a quello di sei ore di lavoro, mentre il padrone si impossessa di un valore pari a dodici ore giornaliere lavorate, e dunque di un plusvalore che è nello stesso tempo la base dello sfruttamento del lavoratore e la fonte di accrescimento del capitale.