Se dunque, quarantaquattro anni dopo la scrittura del Manifesto, Engels lo riteneva addirittura l’unità di misura dello sviluppo del movimento operaio, non si può dubitare sulla assoluta centralità di questo testo per il pensiero marxista e per l’azione del movimento comunista in Europa e nel mondo. Ne consegue l’utilità di partire soprattutto da qui per l’analisi dei suddetti miti e più in generale per rilevare la clamorosa divaricazione tra, da una parte, il rigore scientifico dell’analisi marxiana sulle radici economiche delle società, sulla struttura del capitalismo e dei suoi rapporti di produzione, sulle ragioni basilari della lotta di classe tra operai e capitalisti, sull’origine – il cuore geniale del marxismo – del plusvalore, del profitto e dell’accumulazione del capitale; e, dall’altra, l’idealismo utopico (proprio quello che Marx fustigò a ripetizione nelle critiche, spesso feroci, ai socialisti “utopistici”) e il soggettivismo(13) con cui Marx si mosse in campo politico, a proposito delle caratteristiche rivoluzionarie del proletariato, dell’idea cruciale di una classe operaia sempre più omogenea – nonché libera da vincoli morali, familiari, religiosi e dotata di capacità palingenetiche -, della sparizione/irrilevanza delle classi intermedie, della fine inevitabile della borghesia, nonché della lotta di classe dopo l’abolizione della proprietà privata.
Il perché di questa scissione tra diagnosi materialistica e prognosi e terapia idealiste, con forti connotati del più puro determinismo(14) sulle sorti del capitalismo, resta per me un’incognita: e per la verità in ciò che ho scritto negli anni passati ho per lo più enfatizzato la forza della “diagnosi” e minimizzato la debolezza e gli errori della “prognosi” e delle “terapie”, malgrado non potessi ignorare quanto abbiano influito sui successivi passaggi politici dei comunisti, e in primis sull’esperienza-chiave, la Rivoluzione russa, e sulla parabola storica del “socialismo realizzato”.
Rimane cioè da capire, almeno per interesse storico – perché comunque restano le conseguenze degli errori che analizzeremo – se si sia trattato di previsioni sbagliate sullo sviluppo capitalistico e sulle caratteristiche e sul ruolo futuro della classe operaia e delle classi intermedie (e all’epoca ragioni per giustificare abbagli su tali temi ce ne erano); oppure se la scissione sia stato il frutto di un estremo volontarismo politico, contrastante con il rigore dell’analisi strutturale economica e sociale e finalizzato ad offrire ad una lotta, che si prospettava titanica nelle sue colossali difficoltà, una prospettiva esaltante e palingenetica, che motivasse al massimo la tanto auspicata e sognata internazionale proletaria. Comunque sia, possiamo entrare nel merito della scissione marxiana tra materialismo storico e idealismo/soggettivismo partendo dalla lettera a J.Weydemeyer del marzo 1852, in cui Marx precisò quali fossero i suoi meriti storici nell’analisi del capitalismo e delle società divise in classi (ciò che abbiamo chiamato diagnosi) e per le prospettive e le soluzioni del conflitto tra Capitale e Lavoro e più in generale dei conflitti di classe (prognosi e terapia):
“A me non appartiene il merito di aver scoperto né l’esistenza delle classi nella società moderna, né la lotta tra di esse. Già molto prima di me degli storici borghesi avevano scoperto l’anatomia economica delle classi. Quello che io ho fatto di nuovo è stato di dimostrare: 1) che l’esistenza delle classi è soltanto legata a determinate fasi di sviluppo storico della produzione; 2) che la lotta di classe necessariamente conduce alla dittatura del proletariato;3) che questa dittatura costituisce soltanto il passaggio alla soppressione di tutte le classi e a una società senza classi”(15).