ANCORA SULL’ANALISI DELLE CLASSI
IL DISPREZZO DELLA “PICCOLA BORGHESIA” NEI MARXISTI E NEI COMUNISTI. Due illuminanti casi italiani: la catastrofica politica di Gramsci e Bordiga verso il fascismo nascente e la dis-identificazione sociale dei movimenti studenteschi e giovanili (1968-1976).
ESPANSIONE E IMPOVERIMENTO DEI CETI “MEDI”. Il ruolo del lavoro autonomo e della piccola proprietà, di contro alla statalizzazione integrale.
LA FRANTUMAZIONE DEL LAVORO DIPENDENTE SALARIATO. Le ragioni della precarizzazione globale del lavoro. I migranti e il conflitto tra ultimi e penultimi.
I NUOVI PRODUTTORI DI NUOVI PROFITTI
PROVVISORIE CONCLUSIONI SU CLASSI, CETI E CONFLITTI DI CLASSE
(maggio 2014)
IL DISPREZZO DELLA “PICCOLA BORGHESIA” NEI MARXISTI E NEI COMUNISTI. Due illuminanti casi italiani: la catastrofica politica di Gramsci e Bordiga verso il fascismo nascente e la dis-identificazione sociale dei movimenti studenteschi e giovanili (1968-1976).
La previsione marxiana – sulla cui analisi dettagliata rimando al mio Classi, ceti e conflitti di classe (2012) – della dicotomia storica capitalisti-operai (o borghesia-proletariato), destinata ad emarginare, inglobare o dissolvere ogni altra classe fino allo scontro finale tra le due classi forti e decisive, pur essendosi rivelata erronea, ha influenzato in maniera rilevante economisti, sociologi, politici di ogni tendenza ideologica e culturale che, dopo Marx, sulle classi abbiano riflettuto e teorizzato. L’espressione middle class della cultura anglosassone così come l’equivalente ceto medio o classe media della nostra lingua non sono altro che un inconsapevole omaggio alle teorie marxiane, perché in definitiva ne accettano la polarità “borghesia, classe alta, ricca e sfruttatrice vs proletariato, classe bassa, povera e sfruttata”. Infatti – pur essendosi verificata nei fatti non solo la permanenza ma anzi la grande estensione, anche nei paesi arrivati in ritardo al capitalismo, di una maggioranza di classi e ceti né capitalisti né operai – tali espressioni, onnipresenti nel linguaggio internazionale, dimostrano che, con ben poca profondità analitica, le teorie economiche, sociologiche e politiche dominanti hanno ficcato tutto il resto della società in un gigantesco calderone da classe media, una classe né up né down, né davvero ricca né davvero povera, né veramente proprietaria e/o potente né del tutto senza proprietà e senza potere, collocata in una medietà sociale definita per negazione, non per caratteristiche proprie ma per l’assenza di quelle altrui, non per ciò che materialmente è ma per ciò che non è o non ha.
Per la verità la terminologia usata dalla grande maggioranza dei marxisti – a partire dagli stessi Marx ed Engels che con grande successo lanciarono il brand, il marchio di fabbrica – e della sinistra comunista e socialista dell’Ottocento e del Novecento è stata un po’ diversa, non collocando tra le due classi “forti” un ceto genericamente medio, ma la cosiddetta piccola borghesia. Da un punto di vista lessicale, la definizione è singolare tenendo conto dell’uso che della parola borghesia fecero Marx ed Engels. Essi ricavarono il termine dal latino medioevale burgensis e da quello equivalente francese bourgeois, le cui origini, come per l’italiano borghese, derivano da borgo, ossia dalla parte centrale delle città medioevali – segnatamente quelle italiane del XII e XIII secolo – ove non risiedevano i nobili, che possedevano castelli o ville all’esterno delle città, bensì i primi fondatori del capitalismo commerciale: mercanti; possessori di navi e gestori della distribuzione dei prodotti dei traffici locali, territoriali, marittimi; negozianti e artigiani; professionisti dei “liberi” mestieri, arti, medicina, farmacopea ecc.
Però Marx impiegò i termini borghese e borghesia per definire non già questo popolo variopinto e differenziato, ma come sinonimo di capitalisti, per indicare cioè i possessori dei mezzi di produzione più rilevanti e di un capitale significativo. A rigore, dunque, il termine piccola borghesia avrebbe dovuto indicare i piccoli proprietari di mezzi di produzione con dimensioni ridotte e con capitali ben limitati. In realtà, invece, l’espressione fu usata da Marx e dalla grande maggioranza del marxismo e comunismo ottocentesco e novecentesco per indicare pressoché tutti i settori sociali che non fossero capitalisti, proprietari fondiari, classe operaia, proletariato e sottoproletariato. Credo che sottomettere con tale termine, linguisticamente, alla borghesia (come una sorta di sottoprodotto) un enorme campionario di settori sociali, considerati per lo più moderati o conservatori se non reazionari, sminuendone nel contempo con l’aggettivo “piccola” sia il peso sia la dignità sociale, sia stato per il marxismo un modo per accentuare ulteriormente la natura socialmente rilevante di due sole classi – gli operai, rivoluzionari e indirizzati verso il predestinato futuro socialista; e i borghesi, eversivi nei confronti del passato feudale e dei settori sociali ad esso sopravvissuti – nonché il carattere parassitario, oscillante e tendenzialmente propenso ad accodarsi alla borghesia, dei cittadini della classe media.
Tale mia interpretazione è suffragata, ancor più che dalla letteratura marx-engelsiana – ove, come abbiamo visto, ad una sostanziale disistima si accompagnavano di tanto in tanto alcuni apprezzamenti di funzioni comunque progressiste – dalla valanga di disprezzo, contumelie e ostilità che i marxisti e comunisti nell’ultima parte dell’Ottocento e in buona parte del Novecento hanno di solito riservato a questo insieme di strati e ceti sociali, dai quali paradossalmente essi stessi, nella grande maggioranza, provenivano. Basterebbero per tutti alcuni scritti in proposito di Antonio Gramsci, in genere non considerato tra i più settari e dogmatici – anzi! – tra i leader ed intellettuali comunisti italiani ed europei del Novecento. Potrei partire ad esempio dall’articolo pubblicato sull’Ordine Nuovo, intitolato e dedicato appunto alla “piccola borghesia”, dopo i violenti scontri di piazza del 2-3 dicembre 1919 in tutta Italia:
«La lotta non è stata tra proletari e capitalisti, ma tra proletari e piccoli e medi borghesi…La piccola e media borghesia è la peggiore delle classi, la più vile, la più inutile, la più parassitaria: la borghesia “intellettuale” (detta “intellettuale” perché entrata in possesso, attraverso la facile e scorrevole carriera della scuola media, di piccoli e medi titoli di studio generali), la borghesia dei funzionari pubblici, dei bottegai, dei piccoli proprietari industriali ed agricoli, commercianti in città, usurai nelle campagne. Questa lotta si è svolta tumultuosamente, con una razzia condotta per le strade e le piazze al fine di liberarle da una invasione di locuste putride e voraci. Ma era connessa alla superiore lotta di classe tra proletari e capitalisti: la piccola e media borghesia è infatti la barriera di umanità corrotta, dissoluta, putrescente con cui il capitalismo difende il suo potere economico e politico; umanità servile, abietta, umanità di sicari e di lacché, divenuta oggi la “serva padrona” che vuole prelevare sulla produzione taglie superiori non solo alla massa di salario percepita dalla classe lavoratrice, ma alle stesse taglie prelevate dai capitalisti. Espellerla dal campo sociale, come si espelle una folata di locuste da un campo semidistrutto, col ferro e col fuoco, significa alleggerire l’apparato nazionale di produzione e di scambio da una plumbea bardatura che lo soffoca e gli impedisce di funzionare, significa purificare l’ambiente sociale»1.
Di contro al feroce odio sociale e disprezzo riversato con queste parole, in maniera indiscriminata, superficiale e sciaguratamente ultrasettaria, su milioni di persone – tra cui maestri elementari e insegnanti, artigiani e piccoli imprenditori, dipendenti pubblici e negozianti, tutti dipinti come «dissoluti e putrescenti» parassiti, «lacché abietti e corrotti», per i quali Gramsci, che pure da tali ceti proveniva come quasi tutta la leadership socialista e comunista, non trovava di meglio che proporre «l’espulsione dal campo sociale come si espelle una folata di locuste, col ferro e col fuoco» – si può ritrovare nello stesso articolo un’esaltazione altrettanto indiscriminata e sproporzionata degli operai “di città”, considerati senza eccezioni «rivoluzionari per educazione», e della fabbrica «come luogo dove deve iniziare la liberazione».
«Gli operai di città sono rivoluzionari per educazione, li ha resi tali lo svolgimento della coscienza e la formazione della persona nella fabbrica, cellula dello sfruttamento del lavoro. Gli operai di città guardano oggi alla fabbrica come al luogo in cui si deve iniziare la liberazione, al centro di irradiazione del movimento di riscossa: perciò il loro movimento è sano, è forte e sarà vittorioso. Gli operai sono destinati ad essere nella insurrezione cittadina, l’elemento estremo ed ordinatore ad un tempo,quello che non lascerà che la macchina messa in moto si arresti e la terrà sulla giusta via; essi rappresentano sin d’ora l’intervento nella rivoluzione delle grandi masse, e personificano in modo vivente l’interesse e la volontà delle masse stesse»2.
Che il gruppo dirigente del futuro Partito comunista d’Italia3 – così come la quasi totalità di quel Partito socialista di cui esso costituiva al momento l’ala sinistra e che pochi mesi prima alle elezioni politiche aveva pur raggiunto il 34% dei voti – avesse capito poco o nulla del sommovimento che la disastrosa partecipazione alla guerra e la sua altrettanto catastrofica conclusione avevano provocato nell’intero corpo della società italiana, ma in particolare in vasti settori di proletariato non operaio nonché di “piccola borghesia” impoverita e sbandata, é verità storica abbondantemente acclarata. Così come evidente fu l’incomprensione della fluidità degli spostamenti e sbandamenti sociali che si stavano manifestando in tutti gli strati “intermedi” della società e sui quali il fascismo nascente – che all’esordio apparve agli occhi di milioni di persone, non dimentichiamolo mai, come una sorta di costola estremista del socialismo – dimostrava già ben altra capacità di indagine e di azione. Ma di solito l’accusa storica che viene mossa ai comunisti che si staccarono nel 1921 dal Partito socialista, costituendo il nuovo partito in aperto scontro con i socialisti, è quella di grave settarismo politico, non avendo essi voluto far fronte unito non solo con il Partito socialista ma neanche con i sindacati, gli anarchici, gli Arditi del Popolo e le altre forze del movimento popolare.
A mio avviso, prima che una indubbia e suicida deriva di estremo settarismo politico, alla fonte ci fu un ancor più disastroso settarismo sociale, un obnubilamento analitico e culturale, accentuato assai probabilmente dall’entusiasmo per la Rivoluzione russa, che portò Gramsci, non meno di Bordiga e di tutto il gruppo dirigente del nascente PCdI, ad ingigantire oltre misura il ruolo della classe operaia “di città” e la possibilità che essa – insieme ai contadini poveri e al bracciantato di quelle campagne italiane che storicamente non avevano mai dato grandi prove di spirito rivoluzionario – potesse avviare addirittura un’insurrezione e un processo rivoluzionario vittorioso senza, e anzi frontalmente contro, l’intera popolazione “piccolo-borghese”, in realtà multiforme e variegata, ma fatta per tanta parte di settori sociali impoveriti, piccolo commercio, ex-combattenti sbandati, espropriati di ogni avere e in genere ben più disperati e immiseriti degli operai che erano indispensabili per la ricostruzione post-bellica.
Quanto questa strategia – con radici storiche nel totale spregio, sottovalutazione e misconoscenza di tanta parte della popolazione non-borghese e non-operaia che le principali correnti marxiste avevano ampiamente dimostrato nei decenni precedenti a livello internazionale – fosse disastrosa, velleitaria e illusoria, avrebbe dovuto apparire chiaro allo stesso Gramsci già pochi mesi dopo, quando in seguito alla cocente sconfitta degli operai piemontesi e dei loro Consigli di fabbrica dopo dieci giorni di sciopero e occupazione delle fabbriche di Torino e provincia, dovette prendere mestamente atto che la sua descrizione agiografica del potenziale rivoluzionario operaio, svolta nei mesi precedenti negli articoli dell’Ordine Nuovo, era completamente errata:
«La classe operaia torinese è stata sconfitta. Tra le condizioni che hanno determinato la sconfitta la cortezza di mente dei responsabili del movimento operaio italiano…la mancanza di coesione rivoluzionaria dell’intero proletariato italiano che non riesce ad esprimere dal suo seno, organicamente e disciplinatamente, una gerarchia sindacale che sia un riflesso dei suoi interessi e del suo spirito rivoluzionario..lo stato generale della società italiana e le condizioni di esistenza di ogni regione e di ogni provincia che costituiscono una cellula sindacale della Confederazione Generale del Lavoro4. E’ certo, insomma, che la classe operaia torinese è stata sconfitta perché in Italia non esistono, non sono ancora maturate le condizioni necessarie e sufficienti per un organico e disciplinato movimento di insieme della classe operaia e contadina. Di questa immaturità, di questa insufficienza del popolo lavoratore italiano è indubbio documento la cortezza di mente dei capi responsabili del movimento organizzato del popolo lavoratore italiano»5.
Quel movimento di operai che solo cinque mesi prima Gramsci giudicava «rivoluzionari per educazione», che costituiva «l’elemento ordinatore che non lascerà che la macchina messa in moto si arresti e la terrà sulla giusta via», considerato «sano, forte, e che sarà vittorioso», rappresentando «l’intervento nella rivoluzione delle grandi masse», diventava per lui e per i futuri dirigenti del PCdI improvvisamente «immaturo e insufficiente» a causa della «cortezza di mente dei responsabili del movimento operaio» e perché «in Italia non esistono, non sono ancora maturate le condizioni necessarie e sufficienti per un organico movimento di insieme della classe operaia e contadina». Malgrado queste valutazioni, drastiche quanto tardive e comunque assai più realistiche di quelle di pochi mesi prima, i leader comunisti non arrivarono però alla più logica delle conclusioni. E cioè che fosse tragicamente campata in aria una strategia insurrezionalista esclusivamente fondata sulla classe operaia, per giunta diretta da leader di “mente corta” ed ostili ad ogni prospettiva rivoluzionaria, e soprattutto socialmente sola contro tutti (a parte l’astratto auspicio di un’alleanza con i contadini poveri), in conflitto frontale con tutta la “piccola borghesia”, con quei settori sociali “intermedi” usciti a pezzi dalla guerra, immiseriti e sbandati, e contro i dipendenti pubblici e i lavoratori della scuola, trattati da parassiti «corrotti, dissoluti, servili ed abietti»; e incapace di dialogare persino con una vasta parte della gioventù studentesca desiderosa di rivolta, pur se imbevuta di un nazionalismo che era però anche voglia di rivalsa contro chi aveva trascinato in guerra l’Italia. Anzi! Lo stesso giorno dell’articolo gramsciano, l’Ordine Nuovo pubblicava anche la relazione dei rappresentanti della Federazione provinciale torinese (allineata sulle posizioni di Gramsci) al Consiglio nazionale di Milano del Partito socialista. Eccone alcuni brani illuminanti:
«La fase attuale della lotta di classe in Italia è la fase che precede o la conquista del potere politico da parte del proletariato rivoluzionario per il passaggio a nuovi modi di produzione e di distribuzione; o una tremenda reazione da parte della classe proprietaria e della casta governativa. Nessuna violenza sarà trascurata per soggiogare il proletariato industriale ed agricolo ad un lavoro servile…Il Partito socialista, da partito parlamentare piccolo-borghese deve diventare il partito del proletariato rivoluzionario che lotta per l’avvenire della società comunista attraverso lo Stato operaio, un partito omogeneo, coeso, con una disciplina rigida e implacabile. I non comunisti rivoluzionari devono essere eliminati dal Partito…La direzione deve immediatamente diffondere un programma di governo rivoluzionario del Partito socialista nel quale siano prospettate le soluzioni reali che il proletariato, divenuto classe dominante, darà a tutti i problemi essenziali che assillano i diversi strati della popolazione lavoratrice. Il Partito fonda la sua potenza e la sua azione solo sulla classe degli operai industriali ed agricoli che non hanno nessuna proprietà privata e considera gli altri strati del popolo lavoratore come ausiliari della classe schiettamente proletaria, e deve lanciare un manifesto nel quale la conquista rivoluzionaria del potere politico sia posta in modo esplicito, nel quale il proletariato industriale ed agricolo sia invitato a prepararsi e ad armarsi»6.
Insomma, malgrado la netta sconfitta del movimento dei Consigli e dell’occupazione delle fabbriche, nonostante il giudizio impietosamente negativo sulla direzione del movimento operaio, benché si avesse ben chiaro il rischio imminente di un violento e vittorioso attacco reazionario, e sebbene si giudicasse “piccolo borghese” il Partito socialista in toto, pur tuttavia: a) la preoccupazione principale era «l’eliminazione dei non comunisti rivoluzionari» e la rottura drastica con tutti coloro che non lavorassero per l’insurrezione, per la «conquista rivoluzionaria del potere politico» e per l’instaurazione dello Stato operaio; b) si ribadiva che la rivoluzione era fatto esclusivo degli «operai industriali e agricoli», nonostante oltretutto i secondi non avessero dato affatto, tranne alcune rivolte in Puglia, segnali di anelito rivoluzionario; c) si continuava ad ignorare o disprezzare o voler combattere tutta quella parte della società in condizioni economiche e sociali assai simili a quelle operaie (anzi, in molti casi anche peggiori), la marea di disoccupati “non industriali”, gli espropriati di ogni piccolo avere, i ceti impiegatizi e professionali sbandati e immiseriti, abbandonati alla crescente propaganda degli ex-socialisti in via di fascistizzazione.
E lo stesso Gramsci avrebbe rinnovato pochi mesi dopo, nel gennaio 1921 e con il fascismo oramai pienamente operante, tale violento disprezzo e incomprensione verso tutta la “piccola borghesia”, definita brutalmente “popolo delle scimmie”, identificata con il fascismo montante e di fatto consegnata sciaguratamente alla propaganda e alla ben altrimenti scaltra attenzione di quest’ultimo:
«La piccola borghesia, che ha definitivamente perduto ogni speranza di riacquistare una funzione produttiva (solo oggi questa speranza si riaffaccia con i tentativi dei Partito Popolare7 per ridare importanza alla piccola proprietà agricola) cerca in ogni modo di conservare una posizione di iniziativa storica: essa scimmieggia la classe operaia, scende in piazza. Questa nuova tattica si attua nelle forme consentite ad una classe di chiacchieroni, di scettici, di corrotti…è come la novella della jungla di Kipling, del Bandar-Log, del popolo delle scimmie, il quale si crede superiore a tutti gli altri popoli della jungla, di possedere tutta l’intelligenza, tutta l’intuizione storica, tutto lo spirito rivoluzionario, tutta la sapienza di governo…La piccola borghesia, anche in questa ultima incarnazione politica del “fascismo”, si è definitivamente mostrata nella sua vera natura di serva del capitalismo e della proprietà terriera, di agente della controrivoluzione. Ma ha anche dimostrato di essere incapace a svolgere qualsiasi compito storico: il popolo delle scimmie riempie la cronaca, non crea storia, lascia tracce nel giornale, non offre materiale per scrivere libri. La piccola borghesia, dopo aver rovinato il Parlamento, sta rovinando lo Stato borghese: essa sostituisce, in sempre più larga scala, la violenza privata all’”autorità” della legge, esercita questa violenza caoticamente, brutalmente, e fa sollevare contro lo Stato, contro il capitalismo, sempre più larghi strati della popolazione»8.
Colpiscono e sorprendono, in questo testo, molte cose: a) il vistoso autogol nella descrizione del “popolo delle scimmie”, dato che le caratteristiche attribuite alla “piccola borghesia” si attagliavano alla lettera ai dirigenti comunisti, loro sì davvero convinti «di essere superiori a tutti gli altri popoli della jungla, di possedere tutta l’intelligenza, tutta l’intuizione storica, tutto lo spirito rivoluzionario, tutta la sapienza di governo»; b) la preoccupazione per il fatto che «la piccola borghesia, dopo aver rovinato il Parlamento, sta rovinando lo Stato borghese, sostituendo la violenza privata all’autorità della legge» (???); c) la pretesa di avere come comunisti, autonominatisi guida della classe operaia, il monopolio della mobilitazione di massa e di piazza, espressa con la derisione della vasta area sociale “intermedia” che, nell’incredulità di Gramsci e compagni, «scimmieggia la classe operaia e scende in piazza». Ma soprattutto sbalordisce la reiterata sottovalutazione della reale sofferenza di vasti strati sociali non-operai, immiseriti e disperati, inseriti tutti insieme in «una classe di chiacchieroni, di scettici, di corrotti» considerata, con una previsione che sarebbe stata, prestissimo e violentemente, smentita dai fatti, «incapace a svolgere qualsiasi compito storico.. di creare storia..di offrire materiale per scrivere libri». Il tutto senza neanche uno straccio di tentativo di portare dalla propria parte settori consistenti di quegli strati sociali in difficoltà, offrendo alleanze e cercando di condurre a buon fine la rabbia e la voglia di mobilitazione contro il Parlamento e lo Stato borghese, e la conseguente disponibilità ad usare anche la violenza contro le leggi borghesi.
Peraltro, soltanto pochi mesi dopo, nell’estate 1921 gli Arditi d’Italia (la più consistente delle organizzazioni degli ex-combattenti che raggruppava tanti reduci di guerra, e anche la più odiata dai comunisti per la sua funzione di sostegno al movimento fascista) si scindevano in due parti più o meno equivalenti e, a sinistra, nascevano gli Arditi del Popolo, con l’intento dichiarato, e subito messo in atto, di creare gruppi armati a livello nazionale in grado di opporsi alle sempre più aggressive squadre d’azione fasciste, e con un simbolo inequivocabile: una scure che rompeva un fascio littorio. Molti studi sostengono che nel luglio 1921 gli Arditi avessero dai 20 mila ai 50 mila membri (a seconda che si calcolassero solo gli iscritti, o anche i simpatizzanti e i partecipanti alle azioni), con almeno 150 sezioni in tutta Italia. Politicamente l’iniziativa era partita dal gruppo romano guidato dall’anarchico Argo Secondari, ex-tenente dei reparti d’assalto; ma vi militavano a pari titolo comunisti e anarchici, socialisti e repubblicani, cattolici e ex-dannunziani, senza partito e anche gente che fino a poco prima aveva militato nel movimento fascista, convinta di trovarsi tra “estremisti” socialisti. Ma ancor più interessante ne era la composizione sociale che registrava, fianco a fianco, operai e impiegati comunali, contadini e artigiani, studenti e insegnanti, dipendenti pubblici e disoccupati, reduci di guerra e gente che il militare non lo aveva neanche mai fatto. Insomma, si trattava in embrione di una combattiva, coraggiosa e agguerrita rappresentanza di quella coalizione sociale che avrebbe potuto non solo stoppare il fascismo ma, con un’alleanza a largo respiro, mettere davvero alle corde il potere economico e politico borghese dell’epoca.
Eppure, malgrado gli Arditi finissero per costituire su scala nazionale l’unica vera resistenza armata al fascismo, ben più concreta dei retorici e inconsistenti proclami verbali comunisti sulla necessità dell’armamento operaio, e nonostante le loro prime azioni di difesa cittadina (tra tutte quelle vittoriose di Sarzana e Viterbo) creassero incrinature tra le componenti fasciste più “moderate” e quelle più oltranziste, né i comunisti né i socialisti (questi ultimi totalmente ostili agli Arditi, con il loro governo Bonomi in prima fila) approfittarono di quella insperata, considerevole e di fatto ultima occasione per sconfiggere il sempre più violento e montante fascismo. L’esasperato settarismo politico di Bordiga – che aveva la maggioranza nel nascente PCdI -, malgrado la presa di posizione dei bolscevichi, della Terza Internazionale e dello stesso Lenin favorevoli ad un’alleanza con gli Arditi, finì per combinarsi con l’ultra-operaismo di Gramsci, il quale, pur non contrario di per sé a tale alleanza politica, ne entrava in contraddizione sul piano sociale a causa della sua drastica ostilità a quel «sovversivismo piccolo-borghese» che aveva giudicato, fino a pochi mesi prima, irreparabilmente reazionario, mentre ora una significativa parte di esso confluiva nella resistenza degli Arditi.
L’esaltazione per la vittoria bolscevica in Russia e per la fondazione del PCdI fece il resto ed accentuò il rifiuto sia delle alleanze politiche con socialisti, anarchici e popolari, sia di quelle sociali con gli strati “piccolo borghesi” disponibili, mentre il fatto che non fosse il Partito comunista a guidare la resistenza degli Arditi del Popolo al fascismo comportò un’ulteriore ostilità e l’isolamento progressivo di questa gloriosa esperienza e la sconfitta sanguinosa di un tentativo così coraggioso – che ebbe un punto culminante nella difesa di Parma9 contro diecimila squadristi fascisti che dovettero abbandonare la città con grande scorno politico e militare – e nello stesso tempo capace di superare, almeno in potenza, barriere ideologiche e sociali ingigantite dalla rigida ortodossia comunista, tragicamente incapace di capire la realtà di quegli anni. E fu la catastrofe: il fascismo trionfò e in breve tempo in Italia non restò traccia di operai “rivoluzionari” o resistenze, armate o meno, di comunisti e terzinternazionalisti, lasciando in tanti storici (ad esempio il Tom Behan di The resistibile rise of Benito Mussolini) la convinzione che un’alleanza di socialisti, comunisti e popolari con le forze degli Arditi e con gli anarchici avrebbe potuto fermare la «resistibile ascesa di Mussolini».
Mi sono soffermato su questa estrema dimostrazione degli effetti catastrofici di una visione iperbolica della centralità (o, come sarebbe più preciso dire, della totalità) operaia – con la conseguente sottovalutazione o ostilità verso larga parte della “piccola borghesia” e dei ceti “intermedi” che, seppure in forme più sfumate, ritroviamo in buona parte della storia comunista e marxista – perché, malgrado la tragicità della conclusione che forse cambiò la storia del Novecento, essa non portò per decenni a nessun mutamento sostanziale della teoria della dittatura proletaria, dell’egemonia operaia e del carattere tendenzialmente reazionario dei ceti “intermedi”, fino ad incidere significativamente persino sui movimenti anticapitalistici occidentali della seconda parte del Novecento, inclusi quelli del 1968 e del “decennio rosso” italiano.
Persino noi protagonisti dei movimenti del ’68 e degli anni successivi fino al ’77 – malgrado fossimo, dal punto di vista sociale, un evidente prodotto della scolarità di massa e, più in generale, dell’enorme estensione e differenziazione interna di un “ceto medio” sempre più rilevante nei meccanismi produttivi e distributivi capitalistici – effettuammo una sorprendente dis-identificazione dai nostri prevalenti ceti d’origine e ancor più nei confronti della nostra tendenziale destinazione sociale nell’enorme calderone dell’intellettualità di massa, dei lavori mentali precari, flessibili e non garantiti (e per un’analisi approfondita sulla vistosa estensione dei ruoli del lavoro mentale “proletarizzato” e della riluttanza dei protagonisti del ’68 a riconoscersi in tale destino, rimando sia alla trattazione generale dell’intellettualità di massa in Benicomunismo e sia, per maggiori dettagli sui comportamenti in materia da parte dei movimenti studenteschi dell’epoca, a Per una critica del ’68 e Dal ’77 in poi10). E, proseguendo nell’opera di disprezzo e sottovalutazione della cosiddetta “piccola borghesia” e del “ceto medio” nella sua globalità e indistintamente, cercammo nuovamente la salvezza in una classe operaia mitizzata e ingigantita come leva per sollevare il mondo, e proprio mentre anche in Italia la sua forza politica e sindacale aveva, per così dire, gli anni contati. Con il passare del tempo ripenso con rinnovato stupore a tale singolare dis-identificazione sociale e (in)determinazione di classe, o più esattamente di ceto, che si impossessò di gran parte di noi protagonisti e militanti più impegnati nei movimenti italiani dal ‘68 al ’76.
«Nel sorprendente processo che, nel pieno dello sviluppo del primo grande movimento politico di massa in Italia, portò al recupero, a volte in forma parodistica, di forme partitiche e di alcune invarianti del patrimonio storico del movimento operaio, un ruolo cruciale lo ebbe la in-determinazione di classe – o più precisamente di ceto sociale – di quella vasta area di studenti destinati per lo più ad un futuro di lavoro mentale, fino a quel momento foriero di privilegi e vantaggi materiali ma su cui incombeva il formidabile processo storico di declassamento legato alla rivoluzione informatica e alla drastica trasformazione della figura dell’intellettuale in lavoratore mentale salariato, subordinato e precarizzato, spossessato delle sue funzioni classiche e tramutato progressivamente in intellettuale-massa, con un processo analogo a quello che nell’Ottocento aveva mutato gli artigiani, possessori di un mestiere e di mezzi di produzione, in operai sottomessi alla fabbrica della rivoluzione industriale»11.
A differenza di quanto sarebbe poi accaduto nel movimento del 1977 (per un’analisi dettagliata del quale rimando al mio libro già citato) e ancor più nel movimento universitario della Pantera nel 1990 – ove l’interpretazione della grande maggioranza degli studenti come apprendisti dei lavori mentali massificati, impoveriti e precarizzati, dimostrò ben altra consapevolezza del proprio status immediato e futuro – tale coscienza venne per lo più rimossa dal movimento del ’68 italiano. Non che non ci fosse la percezione dell’immiserimento incombente per il futuro degli studenti della scuola di massa e, più in generale, per una vasta fascia dei ceti della cosiddetta “piccola borghesia” intellettuale, nonché per il mondo delle professioni “nobili” (medici, insegnanti, ingegneri, avvocati, architetti, tecnici ecc..) della middle class.
Però il comportamento che tenemmo come leadership del movimento, più o meno coscientemente, non fu quello di fornirci di una consapevole determinazione di ceto sociale, relativamente omogeneo nella condizione immediata e nel probabile destino post-studentesco, lavorando di conseguenza per costruire, per esempio, alleanze con le nascenti nuove figure del lavoro mentale e cognitivo dipendente e subordinato. Tentammo invece di assumere idealmente le vesti di una sorta di avanguardia globale della trasformazione della società: e nel concreto della pratica conflittuale operammo per lo più come una seppur originale forma di ceto politico di movimento, alla ricerca delle modalità per usare (come ceto politico, non come studenti apprendisti del lavoro mentale precarizzato) la forza, reale o presunta, di settori sociali ritenuti decisivi come la classe operaia. Alla quale però, al di là delle dichiarazioni verbali nei primi mesi del movimento, la successiva realtà politicista non propose una vera alleanza sociale per la difesa comune dal potere economico e politico, quanto piuttosto una funzione subordinata (come ebbero gli operai in tutti i gruppi della sinistra extraparlamentare, inclusi quelli operaisti) di massa di manovra, in modo non troppo dissimile dal modus operandi dei “socialismi di Stato” e dei partiti e sindacati di sinistra.
«Il meccanismo che aveva permesso a settori intellettuali e “piccolo-borghesi”, o a (pochi) ex-operai assai riluttanti a tornare in fabbrica, di controllare/possedere l’apparato politico e produttivo dei paesi dell’Est e del Terzo Mondo ove i capitalisti privati erano stati espropriati; o di dirigere, con il potere e i privilegi che ne conseguivano, i partiti comunisti e socialisti e i sindacati “di classe” in tutto l’Occidente capitalistico, non poteva mancare di esercitare un fascino discreto anche su tanti militanti del ’68, che si sentivano naturalmente vocati per un’attività così degna e nobile quale l’organizzazione della lotta, della rivolta permanente, della rivoluzione contro la società esistente. Nei mille piccoli Lenin che decisero di divenire gestori “professionisti” di lotte e ribellioni, c’era una spinta genuina alla trasformazione delle cose. Ma essa entrava in contrasto con il desiderio di rappresentare politicamente uno o più strati sociali e classi, dei quali pure si richiedeva a gran voce la responsabilizzazione diretta nella società: rappresentazione che poteva offrire vantaggi immediati, o prevedibili per il futuro, in termini di successo, ruolo, potere, collocazione economica»12.
Cosicché, paradossalmente, quel grande movimento – malgrado fosse una dimostrazione vivente delle trasformazioni in atto all’interno di settori sociali considerati fino a poco prima indisponibili ad una lotta anticapitalistica – non riuscì a cambiare i modelli teorici del comunismo novecentesco, ed anzi produsse una variopinta moltitudine “gruppettara” che finì per riaffermarli, in una singolare tenzone con il Pci in nome dell’ortodossia marxista, con la classe operaia Sole del rivolgimento sociale e gli altri settori “piccolo borghesi” a far da pianetini ininfluenti.
ESPANSIONE E IMPOVERIMENTO DEI CETI “MEDI”. Il ruolo del lavoro autonomo e della piccola proprietà, di contro alla statalizzazione integrale.
E tutto ciò, mentre grandi trasformazioni sociali attraversavano proprio i ceti “medi”, rendendo sempre più inconsistente la tesi marxista delle due grandi classi e dell’ininfluenza di quelle intermedie.
«Aumenta il numero dei commercianti, che segue l’aumento della popolazione e la sua vertiginosa urbanizzazione. Nella composizione del “ceto medio” aumenta la parte spettante agli impiegati, a scapito dei produttori indipendenti, fermi restando commercianti e anche liberi professionisti, che però tendono a perdere sempre più l’originaria indipendenza. Il lavoro intellettuale viene sempre più organizzandosi nelle forme del lavoro dipendente e di gruppo. Divengono prevalenti, in seno al “ceto medio”, proprio quei gruppi il cui sviluppo è collegato al progredire della centralizzazione del capitale: proletarizzazione mascherata di produttori indipendenti e liberi professionisti in impiegati amministrativi e tecnici (la cui richiesta aumenta con l’ipertrofico accrescimento della macchina statale e con la burocratizzazione dell’industria), dovuta sia al dilatarsi delle dimensioni e alla complessità dei grandi trust sia all’introduzione di tecniche produttivistiche scientifiche; formazione di un esercito salariato di riserva sui generis, che serve al contempo da termine di paragone nelle fasi di espansione e da cuscinetto in quelle di crisi…Il “ceto medio” assolve una funzione essenziale per smorzare le oscillazioni del ciclo economico, assicurando un certo livello di consumo ed una eventuale fornitura e/o riassorbimento di manodopera generica e qualificata».13
D’altra parte, fin dall’immediato dopoguerra – sulla scorta delle notevoli trasformazioni strutturali indotte dalla mobilitazione bellica, negli apparati statali ma anche in quelli del capitalismo privato, con vistose conseguenze sulla middle class – Wright Mills14, analizzando la società statunitense, era andato anche oltre, a proposito della proletarizzazione di consistenti parti di strati burocratico-impiegatizi da lui definiti white collars (colletti bianchi):
«In termini di proprietà i colletti bianchi non sono “tra capitale e lavoro”. Essi sono esattamente nella stessa condizione di classe dei lavoratori salariati rispetto alla proprietà…In termini di proprietà la nuova classe media è uguale ai lavoratori salariati e differente dalla vecchia classe media …e i suoi componenti, nati come dipendenti senza proprietà, non hanno nessuna seria speranza di indipendenza proprietaria»15.
Peraltro queste due analisi delle trasformazioni in atto nelle classi “medie” e nella “piccola borghesia” – o, per dirlo con un linguaggio più attuale e meno generico, nei vastissimi settori del lavoro autonomo, della piccola imprenditoria e commercio, della burocrazia delle imprese pubbliche e private, del lavoro mentale dipendente e delle professioni intellettuali declassate – vennero prodotte tra il 1951 e il 1967, cioè prima che il processo di espansione, scomposizione e riaggregazione di enormi strati sociali di ceti “intermedi” giungesse a vera maturazione. Pur tuttavia, fin da allora iniziavano ad apparire un insieme di elementi che oggi sono ancor più evidenti e che esigono profonde modifiche nella lettura marxista delle classi e dei conflitti tra classi e ceti: elementi che provo a riassumere basicamente in cinque punti.
1) L’aumento del cosiddetto ceto medio (termine che continuo ad usare per comodità di sintesi) non è una colossale e maligna operazione del Capitale per creare un grande cuscinetto intermedio tra capitalisti e operai (o proletari) che faccia da supporto e da “cane da guardia” della borghesia, ma una tendenza ineludibile e indispensabile per il capitalismo misto e per quello di Stato.
2) Nella composizione di tale “ceto medio” cresce la parte spettante all’intellettualità di massa e agli impiegati («amministrativi e tecnici, la cui richiesta aumenta con l’ipertrofico accrescimento della macchina statale e con la burocratizzazione dell’industria»), mentre i produttori indipendenti – siano contadini o commercianti o piccoli e medi imprenditori o anche liberi professionisti – vedono progressivamente diminuire l’originaria indipendenza.
3) Il lavoro intellettuale, o cognitivo, è costretto sempre più a presentarsi nelle forme del lavoro dipendente e subordinato, ed è sempre meno possessore di un potere professionale autonomo, che ne garantisca la stabilità di reddito e di vita, venendo esposto ad una crescente (e dilagante in Europa a partire dagli anni ’80 del secolo scorso) precarizzazione.
4) Le forme del declassamento e dell’impoverimento non si limitano a mutamenti di lavoro verso forme dequalificate e non gratificanti, o ai soli abbassamenti di redditi complessivi, ma trascinano parti significative di “ceto medio” dentro la formazione di «un esercito salariato di riserva sui generis, che serve al contempo da termine di paragone nelle fasi di espansione e da cuscinetto in quelle di crisi».
5) In termini di proprietà, questi settori “intermedi” – o meglio, buona parte di essi – «non hanno serie speranze di indipendenza proprietaria».
Dunque, se è vero che nell’ultimo trentennio, a partire dall’esplosione della rivoluzione informatica, questo processo ha così tanto galoppato, esso ci obbliga ad abbandonare le vecchie classificazioni del marxismo e del comunismo “storico” sulla collocazione della middle class, della “piccola borghesia”, dei ceti intermedi – o comunque si sia voluta definire questa vasta e differenziata maggioranza sociale nel capitalismo sviluppato – se vogliamo davvero entrare nel merito degli effetti di tale processo ai fini di una prospettiva di alleanze sociali tra le varie forme di lavoro disponibili ad una funzione anticapitalistica. Magari notando che ciò che nel secolo scorso si ricercava in una mitizzata classe operaia potrebbe oggi essere rintracciabile nel ben più vasto mondo dei senza proprietà e senza potere, subordinati e mercificati anche al di là delle forme giuridiche dei rapporti di lavoro. A patto, però, di non rifare l’errore di omologazione e unificazione forzata e idealistica – già compiuto dalla teoria marxiana e comunista rispetto ai concreti operai, trasfigurati in un idealizzato Proletariato Unico – nei confronti dei nuovi strati sociali sofferenti, investiti certo da oppressioni e dipendenze somiglianti, ma pur sempre in forme differenziate, variegate, contraddittorie, conflittuali e per lo più non spontaneamente convergenti.
Dal ché la necessità di una strategia permanente di alleanze sociali, in forme paritarie, senza gerarchie e primazie, mai scontate o definite una volta per tutte, in cui i vari settori possano cercare di garantirsi le proprie difese immediate di vita, di reddito e di condizioni sociali, conciliandole con gli interessi di prospettiva, di generale liberazione dal dominio del Capitale, dalla mercificazione e dallo sfruttamento: ma senza pretendere di poter unificare dall’alto un blocco sociale compatto, ove ognuno debba sacrificare la specificità della difesa immediata in nome di un possibile Sol dell’Avvenire, garantito da un soggetto partitico unificante dei senza proprietà e senza potere. Entrando nel merito dell’impoverimento e declassamento di questi settori “medi”, potremmo partire dalla piccola imprenditoria industriale. In Benicomunismo facevo un esempio che credo sia significativo per l’Italia ma valevole anche per la parte dell’Europa più investita dalla crisi.
« Nel Veneto grandi aziende hanno de-localizzato la produzione, con l’intento di evitare controlli e vincoli legislativi, oltre che per sgretolare quei fronti comuni tra le forze-lavoro che si creavano nelle grandi strutture produttive degli anni ’60 e ’70. Una moltitudine di ex-operai è stata spinta a mettersi in proprio e a creare mini-aziende, estranee ai vincoli dello Statuto dei Lavoratori, la cui vita produttiva, però, è restata quasi sempre legata all’imperio delle grandi aziende che ne sono i committenti. Questi nuovi padroncini, che si vivono come autonomi, diventano nei fatti gestori e vittime (sovente svolgono orari di lavoro ottocenteschi, spesso con rese economiche di poco superiori ai salari dei loro operai) di forme di auto-sfruttamento. I neo-padroncini si ritrovano incastrati nei tempi parossistici di lavoro che vengono imposti dall’azienda-madre che ha il potere di modificare gli accordi di sub-appalto, le ordinazioni periodiche, i tempi di consegna, i termini di pagamento. Spesso non esistono veri contratti e chi protesta rischia di essere messo fuori dalle commissioni. Cosicché, la divisione tra lavoro dipendente e lavoro autonomo spesso svanisce nella pratica quotidiana, e una parte dei padroni delle piccole aziende subisce ritmi, condizioni e retribuzioni non migliori di quelli che spettano ai dipendenti, creando un legame forte che sfugge ai conflitti di classe tradizionali ma che ne apre uno tra piccolo e grande padronato, l’unico davvero protetto dal sistema politico-istituzionale. Peraltro, la condizione degli “autonomi” è aggravata dal essere privi di difese giuridiche di fronte alle grandi aziende committenti…Sono settori sociali schiacciati tra il grande padronato, il capitale di Stato e quello finanziario, spesso spinti sul terreno dell’illegalità aziendale da condizioni-capestro. Una politica lungimirante sarebbe quella di mettere da parte diffidenza e ostilità verso questi settori “autonomi” e cercare di consentire alla piccola imprenditoria di trovare un’intesa con il lavoro dipendente per una difesa comune dai soprusi della grande committenza, della politica istituzionale attenta solo alla difesa del grande padronato e dei potenti gruppi finanziari».16
Questa piccola imprenditoria, sovente fatta di ex-operai licenziati con una qualche liquidazione economica e indotti a mettersi in proprio, è stata falcidiata in Italia, ma anche in parecchi altri paesi europei, dal 2008 in poi. Soltanto nel 2013 sono fallite 368 mila piccole imprese industriali, agricole, commerciali, artigianali, fabbriche con pochissimi dipendenti e a conduzione familiare, bar, ristoranti, botteghe artigiane, piccoli alberghi e pensioni, negozi, attività artistiche o culturali, producendo una disoccupazione percentualmente superiore a quella del lavoro dipendente e la tragedia di un numero di suicidi, alcune centinaia, altrettanto maggiore. Queste attività hanno disceso la stessa rovinosa china: il calo degli affari per la riduzione del monte-salari dei lavoratori/trici dipendenti, l’indebitamento con le banche e il peso delle tasse (mai dimenticare che la tassazione del reddito è solo una parte del cumulo di fiscalità “creativa” che schiaccia gran parte delle attività del genere), la soffocante burocrazia, sovente corrotta, che aggiunge ulteriori e micidiali oneri – quando non intervengono direttamente le varie mafie organizzate – hanno via via ridotto i margini di guadagno e persino la possibilità per questa piccola imprenditoria di ricavare per sé e per la propria famiglia almeno un salario analogo a quello dei dipendenti non-familiari.
Molti di questi imprenditori – che sarebbe più preciso definire lavoratori/trici indipendenti, per distinguerli dalla grande, e tradizionalmente assistita dallo Stato, imprenditoria nazionale – sono stati letteralmente espropriati di ogni loro avere e piccola proprietà dalle banche, dalle finanziarie, dalle compagnie assicurative o da Equitalia. Dopodiché, molto spesso le vittime di tale espropriazione non sono “retrocesse” al rango di salariati ma semplicemente espulse dal mondo del lavoro, senza possibilità di rientro e gravati in genere da un mare di debiti. Oltretutto, durante la loro attività queste persone hanno avuto un duplice ruolo: da una parte erano detentori di un piccolo capitale, spesso in buona parte prestato dalle banche a interessi usurai; dall’altra, erano sovente lavoratori auto-sfruttati, nel senso che potevano sottrarre dagli incassi al più salari sufficienti al mantenimento proprio e della famiglia, ma inferiori al valore prodotto in un orario di lavoro che spesso superava quello dei lavoratori/trici dipendenti. In altri termini, anch’essi sovente erano, o sono, produttori di astratto plusvalore: solo che il plusvalore per essere realizzato esige che il prodotto sia venduto e che i guadagni non vengano carpiti dalle banche e dalle finanziarie che erogano i prestiti usurai.
«Sotto la pressione incalzante della grande distribuzione, ristorazione e accoglienza alberghiera, i proprietari (e le loro famiglie) di piccoli alberghi, negozi, bar, ristoranti, botteghe artigiane, sottoposti a numerose forme di tassazione e di giusti vincoli sul lavoro dipendente, si trovano sovente in condizioni di vera e propria sopravvivenza per la rispettiva attività ma anche per le loro condizioni di vita, arrivando a volte ad introiti mensili non superiori a quelli dei propri dipendenti, malgrado a volte svolgano orari superiori, oltre a doversi accollare un cumulo di oneri e responsabilità. Anche qui la divisione tra padroni e dipendenti spesso sfuma assai e per questo maggiore attenzione – in un quadro comunque di massimo rispetto dei diritti dei dipendenti – andrebbe dedicata alle condizioni di lavoro e di vita anche di questi piccoli imprenditori, che del vero e proprio padronato hanno davvero ben poche caratteristiche, se non sovente l’illusione di una reale autonomia produttiva»17.
In tale via crucis si può davvero sostenere che i proprietari di queste piccole attività, che sovente hanno lavorato più ore dei propri pochi dipendenti e spesso traendone a fine mese introiti per sé non superiori, siano stati sfruttatori dei propri salariati/e? Quando oltretutto il valore aggiunto dal lavoro alle merci non è neanche stato realizzato perché gran parte del prodotto è risultato invenduto? Vista da questa angolazione, la conflittualità tra lavoratori indipendenti e dipendenti in tanti casi perde grandemente di intensità e di motivazioni e spiega l’insuccesso storico delle argomentazioni classiste di matrice marxiana che hanno storicamente demonizzato la piccola proprietà produttiva indipendente (o che cerca di essere tale), contribuendo non poco all’ostilità bilaterale tra lavoro salariato e lavoro più o meno autonomo. Anche alla luce di queste attualissime constatazioni, tra gli interrogativi cruciali da porsi oggi c’è anche la domanda sul perché in Italia e in Europa non solo il capitalismo privato e di Stato, non solo la politica politicante ma anche tanta parte di noi anticapitalisti abbiano contribuito a creare questi solchi profondi tra il piccolo lavoro autonomo e il lavoro dipendente. Se per quel che riguarda i grandi potentati economici e politici il motivo è piuttosto evidente – nient’altro che l’eterna politica del divide et impera – per ciò che riguarda l’anticapitalismo di matrice marxiana e comunista credo che gran parte di noi sia stata negativamente influenzata dal generalizzato spregio verso la “piccola borghesia” e le classi “intermedie” fin qui descritto, ma anche da una nefasta visione di statalismo e collettivismo integrale per ciò che riguardava l’ipotetica società post-capitalista.
In un processo di omologazione al modello di socialismo imposto dal partito-Stato in Urss, si è interiorizzata l’idea, persino in movimenti sostanzialmente libertari come quello del 1968, di una sorta di società-fabbrica post-capitalistica, ove tutto dovrebbe essere statalizzato: come se si avesse un vero e proprio terrore nei confronti della piccola produzione privata e dell’attività autonoma – industriale, artigianale, agricola, commerciale – temendo che essa finisca per riprodurre, in una società post-capitalista, il dominio del profitto, del mercato e della merce sull’intera società.
Ragionando, come ho cercato di fare in Benicomunismo, in una prospettiva di superamento del capitalismo, ho descritto quanto l’ostilità al dominio del mercato, della merce e del profitto si sia sviluppata negli ultimi decenni, piuttosto che sulle tematiche del lavoro sfruttato, soprattutto sul terreno dell’opposizione alla mercificazione totale dell’esistenza e contro le sue conseguenze sempre più pesanti sull’intera vita del pianeta. La crisi energetica, il riscaldamento globale, le catastrofi ambientali, la diffusione delle guerre per depredare le ricchezze naturali di paesi deboli e, in particolare dal 2008, le conseguenze dell’uso senza scrupoli della finanziarizzazione dell’economia per derubare centinaia di milioni di abitanti del globo, hanno posto masse crescenti di cittadini di ogni paese di fronte alla constatazione di quanta distruttività vi sia in un sistema economico-sociale che ha come bussola la ricerca del profitto individuale a qualsiasi costo e malgrado qualsiasi disastrosa conseguenza futura per l’umanità.
Tale avversione crescente alla mercificazione criminale e distruttiva della Natura, dell’ambiente, del clima, della vita delle popolazioni e della loro salute, del loro status sociale ed economico, mi pare oggi un elemento potenzialmente unificante, universale e incisivo almeno quanto è stato considerato dal marxismo, negli ultimi due secoli, lo sfruttamento del lavoro salariato su scala planetaria. Con la conseguenza di una mutazione di prospettiva per chi vuole eliminare il dominio della merce e del profitto privato e avviare su nuove basi la struttura produttiva e la vita sociale nei singoli paesi e nell’intero globo: perché a molti milioni di abitanti del pianeta appare oramai ragionevole, utile e necessario che spetti alla collettività organizzata la gestione delle principali risorse economiche e produttive, dei Beni comuni e della ricchezza pubblica nazionali. Ma questo non può e non deve significare mettere qualsiasi cosa nelle mani di uno Stato onnivoro, di cui – non solo per le disastrose esperienze dei paesi del “socialismo realizzato” ma anche per le altrettanto negative gestioni delle borghesie di Stato che ad Ovest si sono impadronite del capitale e delle ricchezze comuni tramite le strutture statuali – è giusto diffidare, condividendo la estesa ostilità verso le forme concrete fin qui verificate di statalizzazione generalizzata, basate su una democrazia di facciata che affida ai politici di professione la gestione e il possesso effettivo dei Beni comuni e della ricchezza “pubblica” nazionale costruita sulla tassazione collettiva.
Dal ché, deve conseguire il rifiuto della trasformazione dell’intera società in una sorta di grande fabbrica unificata nelle mani di uno Stato onnipotente e onnipresente e la convinzione che il passaggio della proprietà dei principali mezzi produttivi e finanziari di una nazione dai privati alla struttura statuale è davvero un passo fondamentale e liberatorio solo se poi tale proprietà viene davvero socializzata, diventa veramente pubblica e collettiva e non è semplicemente trasferita dal capitalismo privato ad un capitalismo di Stato dominato da una neo-classe di politici e funzionari.
Ad esempio – ho domandato nelle pagine di Benicomunismo – per quale ragione dovremmo abolire ogni forma di proprietà individuale, di gruppo o cooperativa di qualsiasi mezzo di produzione o di distribuzione, anche il più minuto e limitato, nonché statalizzare ogni attività produttiva e commerciale indipendente, di qualsiasi dimensione? E perché dovrebbe passare nelle mani dello Stato ogni forma di produzione, finanche di oggetti voluttuari o di consumo specifico o di nicchia o di importanza marginale? Dolciumi o abbigliamento di moda, ristoranti o bar, alberghetti o piccola produzione artigianale, produzione agricola individuale o familiare, piccoli allevamenti, attrezzature turistiche, attività artistiche? E perché si dovrebbe creare una specie di immenso alveare in cui tutti/e diventino agenti irrilevanti di una gigantesca macchina statale che faccia da Ape regina, togliendo ogni spazio all’iniziativa individuale o di gruppo, all’inventiva personale, sacrificata in meccanismi iper-centralistici che, come si è già ampiamente verificato nel “socialismo reale”, avrebbero in netta prevalenza effetti passivizzanti, gregari e di deresponsabilizzazione e menefreghismo di massa nell’intero apparato economico e produttivo? Come si può pensare di avere solo trasporti statali, prodotti statali, industrie statali, ristoranti statali, bar statali, stabilimenti balneari statali, alberghi statali, agricoltura statale? E soprattutto: perché lo si dovrebbe fare?
Se ci si libera dai dogmi dello statalismo monocratico, il rapporto tra lavoro dipendente e lavoro autonomo andrebbe rivisto alla radice, cercando di promuovere forme di alleanze stabili tra coloro che vivono del proprio lavoro sia in forma subordinata sia con modalità indipendenti che, come già detto, sono spesso tali solo in apparenza, perché nella maggioranza dei casi le piccole attività produttive autonome sono sottomesse al predominio e alle pressioni monopoliste del grande capitale privato o di Stato, delle multinazionali, dei gruppi finanziari. Basti pensare alla marea di partite Iva che per lo più, dietro una presunta indipendenza, celano rapporti di lavoro ancora più subordinati, e dominati dai committenti, rispetto ad esempio al lavoro salariato nel Pubblico Impiego: milioni di persone che, oltre a portare a casa un reddito medio annuale inferiore spesso a quello di buona parte dei lavoratori dipendenti “stabili”, pagano tasse a prescindere, indipendentemente da introiti effettivi, non hanno protezione sociale, cassa integrazione, sussidi di disoccupazione e manco una pensione minima garantita. Condizioni simili a quelle dei lavoratori/trici delle Cooperative e del Terzo settore, ove la “cooperazione” cela spesso un rapporto di doppia o tripla dipendenza dai vari snodi delle filiere messe in piedi dai grandi committenti, che usano la forma cooperativa per evitare il rapporto di lavoro stabile e abbassare il costo del lavoro.
Naturalmente nel vastissimo campo del lavoro autonomo, c’è un gran numero di differenze, contraddizioni, contrasti; nonché i lasciti ideologici di un sordo conflitto – ingigantito da quei poteri che amano dividere per comandare indisturbati – nei confronti del lavoro dipendente pubblico, ritenuto garantito, privilegiato da sindacati e partiti, e in definitiva piuttosto parassitario. Di converso, i lavoratori dipendenti, per lo più sotto l’impulso delle loro organizzazioni maggioritarie, hanno sovente replicato con una speculare visione spregiativa, ammucchiando il piccolo lavoro autonomo in un unico ammasso di padroncini, favoriti dall’evasione fiscale, la quale, pur esistente, riguarda spesso solo il reddito a valle ed è per tanti l’unico modo di garantirsi un introito sufficiente di fronte ad una micidiale pressione fiscale, fatta di mille gabelle sulle più disparate, artificiose e bizantine “voci” di prelievo.
LA FRANTUMAZIONE DEL LAVORO DIPENDENTE SALARIATO. Le ragioni della precarizzazione globale del lavoro. I migranti e il conflitto tra ultimi e penultimi.
D’altra parte, analoga frammentazione e differenziazione ha operato ed opera in modo incessante anche nel campo della classe operaia e del lavoro salariato e dipendente pubblico e privato. Se per gli operai le previsioni di Marx ed Engels di una omogeneizzazione inarrestabile, indotta irreversibilmente dallo sviluppo capitalistico (“Gli interessi, le condizioni di esistenza all’interno del proletariato si livellano sempre più, perché la macchina cancella le differenze del lavoro e quasi dappertutto riduce il salario ad un eguale basso livello”18), si erano già dimostrate irrealistiche agli occhi degli stessi teorici del “comunismo scientifico” dopo un paio di decenni dalla stesura del Manifesto, è indubbio che la dispersione degli elementi comuni strutturali nel campo operaio e salariato abbia galoppato in Italia e in Europa, dalla fine degli anni Settanta del secolo scorso in poi, a tal punto che oggi appare più che mai errato parlare di un classe proletaria o salariata come se essa fosse dotata di un’omogeneità oggettiva. Nonostante, nel contempo, a livello mondiale il numero degli operai e dei salariati sia decisamente aumentato, per essi sono però cresciuti assai, in Europa e in Italia, la frammentazione e l’impoverimento, paralleli a quello di tanta parte del lavoro autonomo e dei ceti “medi”. Ho cercato, in Benicomunismo, di descriverne ampiamente le cause e le modalità. Qui ne riassumerò solo i punti più rilevanti.
La relativa compattezza garantita alla classe operaia dalla fabbrica fordista – i grandi stabilimenti in cui si concentravano migliaia o decine di migliaia di lavoratori/trici – è stata disgregata fin dagli anni Ottanta del secolo scorso grazie al massiccio impiego della rivoluzione informatica e telematica, alle delocalizzazioni nei paesi dagli infimi salari e dalle nulle protezioni sociali, nonché alle esternalizzazioni delle attività lavorative in filiere di committenti e sub-committenti sempre più estese. Alle quali ragioni oggettive, si sono aggiunti i motivi soggettivi, politici e sindacali, intervenuti per il cambio di campo da parte delle principali organizzazioni di sinistra dei lavoratori in Occidente, senza il quale la frantumazione della forza e della relativa unità degli operai e dei salariati nei decenni precedenti non sarebbe quantomeno avvenuta con l’intensità e la rapidità che invece il processo ha avuto. Ma l’indebolimento è stato soprattutto strutturale: le delocalizzazioni, le esternalizzazioni, la catena infinita di sub-appalti hanno fatto sì che i lavoratori/trici non riuscissero più neanche a scovare le loro controparti e men che meno a sviluppare una qualche strategia unitaria, sulla base di ciò che tradizionalmente si è definito coscienza di classe.
In parallelo, l’altra micidiale arma di dispersione e differenziazione tra i salariati è stata la drastica riduzione del lavoro stabile e relativamente garantito e la massima diffusione del lavoro permanentemente precario che ha dilagato nell’ultimo ventennio anche nei territori del capitalismo avanzato, con particolare impatto in Italia, laddove le garanzie del lavoro salariato e dipendente erano decisamente tra le più avanzate al mondo fino agli anni ’70 del secolo scorso. Certo, il lavoro salariato a tempo pieno, garantito durante tutto l’arco di vita, è stato sempre minoritario su scala mondiale in tutta la storia del capitalismo, il quale ha sempre utilizzato una grande varietà di forme di sfruttamento; e, guardata da un’angolatura universale, non è una situazione inedita quella che viviamo, che cioé dietro gli “alberi” del lavoro salariato stabile ci sia una “foresta” di lavori non regolarmente salariati, illegali, semilegali, familiar-domestici, para-schiavistici. Ma per l’Europa e ancor più per l’Italia la novità dell’ultimo ventennio è stata l’imposizione politica che ha formalizzato il lavoro informale e lo ha reso maggioritario, dando piena legittimità alla precarietà totale, alla perdita di diritti e di garanzia minime anche in quei paesi ove, come di certo in Italia, pur esisteva una lunga tradizione di lotte e di forza degli operai e dei salariati.
Cosicché diffondere ovunque, ad esempio in Italia – utilizzando strumenti legislativi come il pacchetto Treu o la legge Biagi19 che hanno imposto decine di modi differenti di essere precari a milioni di persone – il lavoro in affitto, i contratti di formazione-lavoro e di apprendistato, i part-time più flessibili, i contratti di collaborazione coordinata e continuativa, i lavori finto-autonomi a partita Iva, le fasulle cooperative che nascondano lavoro dipendente sottopagato, ha consentito al capitalismo di scompaginare totalmente quella che, fino agli anni ’70 del Novecento, era stata la relativa compattezza del lavoro operaio e salariato. Le nuove leggi hanno frantumato ogni ostacolo nel processo di riduzione delle forze-lavoro alla precarietà più intensa e ad una flessibilità indifesa, e hanno contribuito decisamente ad impedire a vaste masse di lavoratori/trici di riconoscere comunanza di interessi e di praticare unità d’azione, disperdendoli in mille e variegate contrattualità e rapporti lavorativi giuridicamente differenziati.
Malgrado – in assoluto contrasto con le sciocche e strumentali ideologie sulla “fine del lavoro” – ragionando su scala mondiale, il lavoro salariato invada la vita di tanta parte dell’umanità più che mai, l’attuale invasività sconvolgente dell’uso delle forze-lavoro non ha espresso forme di conflitto analoghe a quelle di alcuni decenni fa, proprio a causa della parcellizzazione dei modi di essere forze-lavoro. La precarietà lavorativa, che impedisce alla grande maggioranza delle sue vittime di poter contare su una qualsiasi sicurezza esistenziale, è stata ed è un’arma potentissima per frantumare le forze-lavoro, per le quali è più corretto oramai usare il plurale piuttosto che il singolare. E la profondità di tale pluralizzazione è tanto più vasta e preoccupante perché non si tratta solo di una momentanea strategia politico-sindacale che possa essere ribaltata con una nuova era di patti sociali o rinnovato keynesismo. Le ragioni della dilagante precarizzazione del lavoro sono innanzitutto strutturali e riguardano un’intera epoca. Esse sono in primo luogo legate alla precarietà e aleatorietà delle stesse strutture industriali e aziendali in larga parte del Primo mondo, a causa sia della massiccia finanziarizzazione del Capitale negli ultimi due decenni, sia della crescita vistosa della concorrenzialità tra capitali nazionali e tra “vecchie” potenze economiche e nuovi paesi rampanti, sia della scelta di orientare una parte significativa delle produzioni verso consumi altamente volubili, capricciosi e imprevedibili nel loro evolversi continuo.
Tornerò altrove sul ruolo straripante della globalizzazione finanziaria degli ultimi anni e sulle cause che hanno ingigantito il peso di quel capitale che intende far denaro con il denaro, senza perdere tempo a produrre qualcosa di concreto. Ma è bene sottolineare subito una delle conseguenze principali dell’invasività della finanza sulla produzione di merci e sull’imposizione della precarietà come caratteristica-base di gran parte dei nuovi lavori, usando le parole di Giorgio Cremaschi.
«Quale è la condizione di tutte le imprese che producono beni materiali di fronte alla globalizzazione finanziaria? Nel mondo vige oggi la piena libertà di circolazione dei capitali che si intreccia con un potere finanziario mondiale che ha il suo centro negli Stati Uniti. I capitali circolano liberamente alla ricerca del miglior guadagno nel tempo più breve possibile. Questa enorme speculazione finanziaria produce le sue rendite diffuse nei Paesi più ricchi ma soprattutto alimenta una volatilità e una incertezza dei mercati che colpisce in primo luogo tutte le imprese che si occupano d’altro oltreché di pure transazioni di denaro…Questa dimensione speculativa del capitalismo incide su tutte le strategie di impresa, rendendo ogni attività tendenzialmente più precaria. La tentazione di fuggire dalla necessità di dover fare qualcosa di utile, per inseguire la speculazione fine a se stessa, tocca continuamente gli imprenditori, dai più grandi ai più piccoli, e naturalmente incide su programmi produttivi e scelte che riguardano l’occupazione»20.
Gli altri elementi di precarietà strutturale dell’impresa capitalistica, e dunque della precarizzazione del lavoro dipendente e salariato, sono legati all’accentuarsi parossistico della concorrenza tra paesi dominanti e paesi emergenti, all’interno però di un quadro di consumo e assorbimento dei prodotti sostanzialmente stagnante. Non riuscendo – malgrado la sparizione della quasi totalità dei regimi dell’ex-blocco sovietico che erano accusati di impedire la diffusione del modello e della ricchezza capitalistici – a generalizzare il benessere e la possibilità di adeguati consumi, né ad allargare il mercato mondiale inglobandovi quei due terzi (o tre quarti) del pianeta storicamente tagliati fuori da esso, la crescente produzione di merci si è indirizzata in prevalenza verso il Primo mondo e verso le aree di benessere che si sono create in vari paesi emergenti, pur se esse, persino in paesi oramai potenti come la Cina e l’India, non coinvolgono più di un quarto della popolazione. Davanti ai crescenti rischi dell’esplodere di una immane crisi da sovrapproduzione, accentuata dalla rigidità del consumo persino nei mercati “da Primo mondo” dove la richiesta di beni primari è già garantita per le fasce più agiate della popolazione, un obiettivo della produzione è divenuto il consumo più voluttuario e artificiale da parte dei cittadini/e a medio-alto reddito.
Ciò ha prodotto il tentativo di spostarsi dalla quantità alla qualità dei beni: una qualità creata in laboratorio dalla pubblicità che però espone le nuove merci ad un grado di capricciosità e individualizzazione degli oggetti che non ha confronti con la precedente fase di dominio della produzione fordista, giocando sull’estrema labilità dell’individuo-mercato, cioè di un consumatore che viene inseguito come se fosse un mercato a sé. Le nuove produzioni volubili sono impostate sulla camaleonticità del consumatore benestante, accentuando la precarietà e mobilità dell’intera struttura produttiva, e in primo luogo imponendo la sparizione di ogni “rigidità” e tutela per le forze-lavoro. Il risultato complessivo è l’attuale massimo frazionamento delle forze-lavoro e lo squilibrio totale dei rapporti di forza tra capitalisti e salariati, a netto favore dei primi.
«Le trasformazioni nelle modalità di erogazione del lavoro in Italia nell’ultimo ventennio si possono così sintetizzare: si è legalizzato il lavoro nero, illegale, atipico, indifeso, “da terzo mondo”, per far diventare tipico l’atipico, renderlo la norma, la forma di lavoro dominante. Il capitalismo flessibile ha imposto: a) una vorticosa rotazione mondiale dei capitali; b) un’altrettanto rapida innovazione tecnologica, velocemente esportabile e generalizzabile, con la tempestività delle comunicazioni decisionali che viaggiano per via telematica; c) magazzini ridotti all’osso con l’eliminazione dei grandi stock immobilizzati e con la capacità di rinnovare il prodotto “just in time”. Ma soprattutto ha spezzato ogni “rigidità” della forza-lavoro, spostando massicciamente la produzione ove il lavoro è a costi infimi e senza difese normative, usando cinicamente l’immigrazione per frantumare il fronte dei salariati; smantellando l’unità produttiva della grande fabbrica, esternalizzando la produzione, praticando tecniche produttive pre-fordiste, dal subappalto al cottimismo, dal lavoro familiar-paternalistico a forme paraschiavistiche affidate a clan patriarcali o mafiosi. Con queste scelte, si è ridotto sensibilmente il numero di lavoratori stabili, per avere a disposizione una gran massa di forze-lavoro da mettere velocemente in opera e altrettanto rapidamente buttate fuori, in modo da poter istantaneamente variare modalità e qualità della produzione senza intralci»21.
Quindi l’enfatizzazione della “inedita” fase di lavoro post-fordista, che avrebbe dovuto ammorbidire i conflitti tra forze-lavoro e padronato, con la partecipazione dei salariati alle sorti dell’impresa, in realtà ha prodotto l’introduzione brutale di massicce forme di pre-fordismo, con il recupero di modalità di lavoro addirittura ottocentesche. Come detto, esse non sono una novità globale perché nel Sud del globo il profitto capitalistico è stato secolarmente fondato, e in buona parte lo è anche oggi, sul lavoro semi-schiavistico di centinaia di milioni di donne, ragazzi/e, migranti, e basato prevalentemente su rapporti di lavoro non regolarmente salariati, familiari, mafiosi, clientelari, religiosi. Da questo punto di vista, l’osmosi, tra Nord e Sud del mondo, tra vecchie e nuove modalità di impiego delle forze-lavoro – che il capitalismo non ha mai completamente dismesso né mai inventato davvero ex-novo ma per lo più riciclato – produce un apparente paradosso. Mentre ha disgregato la forza della “vecchia” massa operaia e disperso l’unità produttiva e politica tra le forze-lavoro in Occidente, l’organizzazione capitalistica sta tendenzialmente avvicinando le modalità universali di lavoro salariato.
Si potrebbe sintetizzare così questo periodo di sconvolgimento produttivo: a livello mondiale il capitale pubblico e privato sta omogeneizzando la disomogeneità delle forze-lavoro e salariate, rendendo su scala internazionale, almeno potenzialmente, più realizzabili quelle comprensioni reciproche e alleanze, divenute invece più complicate sul piano nazionale. Altrettanto ambivalente è l’uso che negli ultimi anni in Europa è stato fatto dal padronato dei migranti. Il lavoro da Terzo Mondo – il lavoro storicamente più sfruttato/indifeso – negli ultimi venti anni ha fatto in particolare vistosa irruzione in Italia e qui, come in ogni altro paese, è stato usato per indebolire il potere sociale e sindacale dei lavoratori/trici stanziali, con l’ausilio soprattutto di una legislazione formalmente repressiva il cui compito vero però – dalla Turco-Napolitano alla Bossi-Fini22 – non è stato quello di provocare l’espulsione dei migranti.
«L’obiettivo è stato quello di consegnarli mani e piedi legati a datori di lavoro che traggono profitto dalla loro vulnerabilità giuridica ed hanno quindi interesse al perpetuarsi della legislazione stessa. Il debito finanziario e morale contratto dagli immigrati con i “protettori”, l’illegalità in cui si pone il padrone che dà lavoro in nero, pongono il lavoratore migrante in una posizione di dipendenza e coercizione propria dello sfruttamento più sfrenato. La precarizzazione dei migranti non è prodotto di importazione da un Terzo Mondo arcaico, ma parte delle moderne strategie occidentali che vedono settori sempre più vasti della popolazione attiva esclusi dal lavoro dipendente contrattuale e stabile, l’illegalità dei posti di lavoro affermarsi come nuova regola e gli imprenditori rivolgersi verso le categorie più vulnerabili, migranti, donne, bambini»23.
Come nota Morice, anche qui siamo di fronte al recupero di vecchie forme di lavoro che assumono però una veste e una funzione moderna nelle nuove modalità di sfruttamento. Il razzismo ha poco a che fare con il trattamento spietato e umiliante così spesso riservato ai migranti. Esso è piuttosto il paravento ideologico e sub-culturale da dare in pasto ai lavoratori stanziali e a settori popolari che vedono peggiorare le proprie condizioni di vita e di lavoro, affinché non rivolgano la loro ostilità verso il padronato o il potere politico. Ma in realtà non è che i capitalisti preferiscano gli stanziali ai migranti o i bianchi ai neri o i cattolici agli islamici: indifferenti (come lo è il denaro) a colori di pelle, etnie o religioni, essi piuttosto prediligono i lavoratori/trici senza diritti. Se dunque l’uso dei migranti ha il doppio obiettivo di garantirsi forze-lavoro a buon mercato e indifese e nel contempo di indebolire la forza contrattuale degli stanziali riducendone ulteriormente i pochi diritti rimasti, il conflitto tra stanziali e migranti non è solo distruttivo per questi ultimi ma anche auto-distruttivo per i primi: le condizioni di illegalità e di privazione dei diritti per i migranti, abbassandone all’estremo la capacità di difendere le modalità di impiego della propria forza-lavoro, agevolano quella sorta di involontario dumping sociale che consente poi al padronato di ricattare anche gli stanziali che non accettano le riduzioni di salario e di diritti che la “concorrenza” migrante rende possibile.
Nello stesso tempo, però, il capitalismo occidentale ha importato delle “fresche” forze-lavoro che non sono facilmente inquadrabili in meccanismi neo-corporativi e che sono portatrici, almeno potenzialmente, di cariche di ribellione e non subordinazione che negli ultimi tempi in Italia si sono tradotte in lotte di massa – come nel caso dei facchini della Logistica e degli occupanti di case – assai decise, non di breve durata e indirizzate ad ottenere risultati concreti in termini di miglioramento qui ed ora delle proprie condizioni. Spetterebbe però ai salariati/e stanziali, e con relative maggiori garanzie occupazionali, abitative e salariali, ricercare non solo una qualche ricomposizione al proprio interno mediante alleanze stabili, ma anche praticare tentativi analoghi verso il lavoro migrante, rovesciando l’uso divisorio strumentale che il padronato ne intende fare. La difesa della piena parità di diritti tra il lavoro migrante e il lavoro stanziale più stabile non è un “dono” solidaristico che le forze-lavoro più garantite fanno a quelle più indifese e saltuarie. Essa è l’unica vera forma di effettiva difesa dall’uso brutale che il capitalismo fa di queste ultime per frantumare ogni resistenza e unità all’interno di tutto il lavoro salariato. La lotta tra penultimi e ultimi nella scala sociale è, al contempo, omicida e suicida: e un’unità di intenti e di azione tra di essi non danneggerebbe affatto i primi ma sarebbe l’unico modo per non dover rincorrere verso il basso i più deboli e indifesi. Pur tuttavia, è lampante come tale unità sia ben lontana, tranne che per limitati settori di cosciente militanza politica e sindacale; e come, anzi, l’ostilità verso i migranti, la xenofobia o comunque l’assenza di solidarietà nei confronti dei diseredati (gli ultimi) che vengono a cercare un po’ di pace e di prosperità in Europa, e in particolare in Italia, siano molto diffuse tra i settori popolari (i penultimi) che temono di essere spinti ancora più in basso nella scala sociale e non ritengono possibile lottare contro i primi per migliorare le proprie condizioni di vita e di lavoro.
Cosicché, negli ultimi anni, dalla Francia all’Italia, dall’Olanda all’Austria, le forze razziste, fascistoidi e xenofobe sono andate reclutando significativamente, o ricevendo crescente sostegno elettorale, proprio tra i settori operai e popolari.
I NUOVI PRODUTTORI DI NUOVI PROFITTI
In prospettiva, però, come per il nuovo quadro di immiserimento in una parte considerevole delle classi e ceti “intermedi” e della “piccola borghesia”, anche per il popolo migrante si aprono nuovi scenari di relazione con l’universo salariato stanziale che vede le proprie condizioni generalizzarsi a livello globale, mentre si estende il novero di coloro che possono definirsi, con criteri marxiani, individui produttivi. In Benicomunismo ho trattato ampiamente il processo epocale che, sotto la spinta della rivoluzione informatica e telematica, ha inserito nel campo dei lavoratori produttivi (nel senso di produttori di valore aggiunto alla merce) centinaia di milioni di salariati del lavoro mentale o cognitivo in tutto il pianeta, affidando loro un ruolo e un peso sempre crescente nella produzione globale di profitto. Segnalavo tra l’altro, per un illuminante paragone quantitativo, come alla fine del 2010 uno studio che raffrontava i profitti accumulati nell’ultimo quinquennio da Google e dalla Toyota, simboli eclatanti rispettivamente della produzione immateriale e di quella materiale classica novecentesca, rapportati al numero di dipendenti delle due multinazionali, giungeva alla sorprendente conclusione che i salariati “mentali” di Google avevano prodotto pro-capite 30 volte più profitto di quelli “manuali” della Toyota24: e notavo come un divario così netto doveva farci modificare l’interpretazione ottocentesca, ereditata poi da gran parte del comunismo novecentesco, dei produttori di valore legati esclusivamente alla fabbrica e al lavoro agricolo bracciantile.
<< Anche la fabbrica ottocentesca immetteva nella catena meccanica i passaggi cognitivi della produzione artigianale, del sapere operaio degli ex-artigiani spossessati della loro autonomia e delle loro conoscenze. Ma nel passaggio dall’alienazione dei saperi per via meccanica a quella per via informatica, ci ritroviamo nelle condizioni da manuale di un eccesso di quantità che si trasforma in qualità. Non ci sono infatti paragoni possibili, sul piano quantitativo, tra i furti di saperi che la fabbrica della rivoluzione industriale esercitava sugli operai quando essi mettevano in atto i più ingegnosi artifizi per risparmiare energie, e il saccheggio di conoscenza che negli ultimi decenni l’apparato informatico ha fatto, alienandola a milioni di lavoratori intellettuali, inglobando ad esempio in un unico megaprogramma una massa enorme di esami sintomatologici e indizi patologici, frutto dell’attività di moltitudini di medici, infermieri e specialisti sanitari; oppure, derubando migliaia di progettisti per raggruppare in un programma informatico i vari schemi grafici delle auto del dopoguerra per nuove carrozzerie di automobili…Una produzione immateriale a fini di profitto esisteva anche nell’Ottocento e nella prima parte del Novecento. Ma c’è, pure qui, un tale accumulo di quantità che trasforma qualitativamente il panorama quando si passa per esempio dalla produzione di libri o film o dischi della prima metà del ‘900 alla odierna produzione immateriale che sovrasta, in rese di profitto, le classiche e solide produzioni fordiste, immettendo nel mercato mondiale idee e immagini a 360 gradi, la scuola e l’informazione, il suono e la luce, la danza e il canto, la fotografia e il disegno, i giochi, i sogni e i desideri»25.
Più in generale, ho sottolineato in Benicomunismo – come pure in alcuni precedenti testi – come e quanto il Capitale, mettendo in produzione e mercificando sempre nuovi territori, abbia attirato molti inediti strati sociali nel ruolo di produttori di plusvalore e profitto, rendendo assai mobili e non facilmente individuabili i confini tra chi contribuisce direttamente ad arricchire di valore le merci e chi, pur avendo un ruolo nell’organizzazione sociale, può essere considerato improduttivo.
«Si è ampliata di molto la folla di coloro che partecipano alla produzione di profitto, dunque in qualità di sfruttati nel senso marxiano, con un vasto spettro di figure e soggetti non prevedibili dal comunismo ottocentesco e per lo più trascurati da quello novecentesco, ad esempio i lavoratori/trici di quei settori pubblici, servizi sociali e Beni comuni che fino a ieri erano fuori dal campo della produzione capitalistica. Se indaghiamo sui mutamenti prodotti nella scuola o nella sanità, nei trasporti, nella produzione di energia e nelle telecomunicazioni, nell’informazione pubblica, nell’usufrutto dell’acqua o nello smaltimento dei rifiuti, vediamo che settori fuori dalla produzione di profitto in precedenza si stanno trasformando nei grandi business del XXI secolo mediante una mercificazione senza precedenti… I lavoratori/trici della scuola e della sanità – oltre ad essere immessi direttamente nel meccanismo produttivo dell’istruzione-merce e della salute-merce – entrano con i costi delle proprie forze-lavoro anche in quelli della formazione, della conservazione e della riproduzione delle forze-lavoro del più vasto mondo dei salariati…Inoltre, con il diffondersi delle multinazionali oligarchiche, l’opera di riequilibrio prodotta dalla concorrenza (il fatto richiamato nel “Capitale” che i super-profitti in un settore vengano rapidamente annullati dall’ingresso nel settore di altri capitalisti) è oggi sovente ridotta ai minimi termini. Cosicché, laddove settori dell’apparato economico sono monopolizzati da oligarchie, i profitti straordinari non sono affatto di breve durata ma coprono a volte interi decenni, costituendo un elemento decisivo dell’attuale accumulazione di capitale, e ingigantendo il ruolo (in quanto produttori di super-profitti) di quella vasta area di tecnici, scienziati, informatici, progettisti che permettono i salti di qualità nell’estrazione di plusvalore»26.
Nel tentativo di definire le trasformazioni nel processo di addizione di valore alle merci – e dunque, di produzione di plusvalore – segnalavo anche il sempre più rilevante ruolo di alcuni di coloro che ho definito nuovi produttori di nuovi profitti.
«Nella produzione di valore aggiunto alle merci quale è il ruolo dei pubblicitari, degli inventori di idee incollate al prodotto, di coloro che confezionano l’involucro immateriale che lo avvolge in maniera decisiva al fine della vendita, dei creatori di “brand”, di marchi sovente venduti al posto del (o in aggiunta al) prodotto stesso? Quanto valore è immesso, ad esempio in un capo di abbigliamento, dalla quantità materiale di forza-lavoro occorrente per la sua tessitura, coloritura, confezionamento, e quanto invece dalla qualità (non misurabile in ore lavorative) della forza-lavoro immateriale contenuta nell’ideazione che lega il vestito ad un’emozione, un valore di status sociale, un elemento dell’apparire piuttosto che dell’essere materiale? Prendiamo ad esempio una scarpa da corsa prodotta in Cina, e immaginiamo (come sovente accade) che la ditta produttrice cinese ne venda una parte nel mercato interno e dando l’altra per l’esportazione ad una multinazionale come la Nike. La quantità di forza-lavoro materiale, immessa in entrambe le scarpe, è identica, ma nella scarpa che verrà venduta in Occidente con il “logo” della Nike c’è un surplus di valore fornito dal marchio. Il compratore occidentale, cioè, non acquista solo la materialità della scarpa, ma anche il carico immateriale immessovi da un logo che vale come segno di distinzione e di identificazione. Chi ha immesso tale valore? Certo, in primo luogo i pubblicitari all’interno dell’impresa che hanno lanciato il simbolo e l’idea connessa. Ma in diversi casi, il vero inventore del “logo”, che ha accumulato nel prodotto più valore di quanto ve ne fosse in base della sola materialità, è estraneo all’azienda e viene derubato del valore che ha aggiunto, perché la sua idea è stata scippata da qualcuno dell’azienda che non ha compensato in alcun modo l’ideatore, che si ritrova, magari senza neanche saperlo, ad essere cosi massimamente sfruttato. Quante idee, quanti “logo”, quanti segni sono stati carpiti dai “creativi” delle multinazionali dal web, dai blog, dai social network, dall’abbigliamento di strada, dalle opere dei writers sui muri, dai giovani del rap e dell’hip hop delle piazze, dal look di una banda di quartiere o del popolo di una discoteca?»27.
E oggi ulteriori riflessioni sui mutamenti rapidi e notevoli nelle modalità di fare profitto, al seguito delle sempre più incalzanti trasformazioni indotte dalla telematica, mi portano a sottolineare complessità aggiuntive nella formazione del plusvalore, nello sfruttamento e nei suoi protagonisti. Fatti di grande rilievo stanno accadendo in particolare nel campo dei social network e delle piattaforme di comunicazione, e li espliciterò partendo da un recente e clamoroso episodio: l’acquisto da parte di Facebook di WhatsApp per la sbalorditiva somma di 19 miliardi di dollari. Come è noto tra gli utilizzatori di smartphone, WhatsApp – il nome di questa applicazione gioca sull’assonanza con what’s up?, che succede? che c’è di nuovo? – è una nuova piccola impresa (start-up – mettere in moto, avviare – è il nome che viene attribuito a queste entità), sorta come altre analoghe pressoché dal nulla, grazie al lavoro di un ingegnere statunitense di origine ucraina, Jan Koum, che cinque anni fa ebbe l’idea di produrre un’applicazione per cellulari che ha raggiunto in un quinquennio 450 milioni di utenti in tutto il mondo (con il raddoppio dell’utenza nel solo 2013), permettendo l’invio di sms e l’apertura di una conversazione permanente, allegando foto, video e altro ed avendo compatibilità con tutti i tipi di smartphone. Con in più un vantaggio non da poco:
«Koum è vissuto in Ucraina fino al 1992..Cresciuto in uno Stato poliziesco, Koum ha una cultura libertaria. Perciò nel progettare WhatsApp ha dedicato una grande attenzione alla tutela della privacy degli utenti. Nell’era del Datagate, questo gli dà una marcia in più rispetto ad aziende molto più grandi della sua. Per esempio, WhatsApp, dopo aver trasmesso il messaggio al destinatario, lo cancella dalla memoria dei suoi server. E’ molto più difficile per la National Security Agency (NSA), o per un hacker malintenzionato, rintracciare queste comunicazioni. La privacy può essere, più banalmente, una protezione contro l’eccessiva curiosità dei genitori. E non a caso WhatsApp ha avuto come primo mercato quello degli adolescenti, un po’ come Instagram, che Facebook acquistò per oltre un miliardo di dollari nel 2012 e che prevede l’autodistruzione delle foto appena trasmesse…A chi lo accusa di aver strapagato la sua ultima acquisizione, Mark Zuckerberg, fondatore e chief executive di Facebook, risponde tranquillo: “WhatsApp aggiunge un milione di nuovi utenti ogni 24 ore, e di questo passo il traguardo di un miliardo di utenti è alla sua portata. Un servizio che raggiunge simili dimensioni ha un valore incredibile”»28.
Ma da dove proviene tutto questo “valore incredibile”? Chi ha aggiunto plusvalore? Chi sarebbero in questo caso gli sfruttati? Come è possibile che Instagram sia stata acquistata per un miliardo di dollari nel 2012 e solo due anni dopo lo stesso acquirente, Mark Zuckerberg, abbia speso 19 volte tanto per WhatsApp? Gli abbonati di WA si sono scambiati nel 2013 7000 miliardi di messaggi, spendendo ognuno/a la risibile cifra di 99 cent di dollaro per l’abbonamento annuale (dal secondo anno: il primo è addirittura gratuito) e usano una struttura che, all’inizio del 2014, aveva solo 55 impiegati, di cui 32 ingegneri. Se sommiamo ai numeri di WhatsApp quelli degli altri grandi nomi dell’attuale messaggistica (anno 2014) – strutture come WeChat (casa madre in Cina), Kakao Talk (Corea del Sud), Line (Giappone e Corea) Viber (Cipro) e Snapchat (Stati Uniti) – si arriva a circa un miliardo di utenti facenti riferimento ad apparati che, tutti insieme, hanno poche centinaia di impiegati e ingegneri informatici. Dunque: da dove provengono i guadagni e i profitti se il servizio ha un costo irrilevante e i circa 450 milioni di dollari annui incassati da WhatsApp con i soli abbonamenti sono comunque abissalmente lontani dai 19 miliardi sborsati da Facebook per acquistare la folgorante start-up? Non mi pare sostenibile la tesi che il valore aggiunto alla merce-comunicazione – che al momento garantisce al capitalismo i profitti di gran lunga più rilevanti (forse droga esclusa: ma i rischi del business telematico sono infinitamente minori) – ce la mettano, nel caso di WA, i suoi 55 impiegati-ingegneri.
Per giungere ad una risposta, seppure con cautela, va ricordato che il mondo della messaggistica e della comunicazione telematica tramite smartphone, tablet e simili sta non solo sconvolgendo i colossi internazionali della telefonia e gli apparati di Stato delle Telecomunicazioni, ma che persino i computer rischiano una rapida obsolescenza in questo campo – almeno per ciò che riguarda la comunicazione semplificata – nei confronti dei cellulari di nuova generazione: anche gli utenti di quelli che erano gli inarrivabili giganti del settore solo fino a pochissimi anni fa, Google, Yahoo, Apple, si stanno spostando sugli smartphone, pronti a cavalcare tutto ciò che di comunicazione tascabile seguirà ad essi nei prossimi anni. Il che sta formando un gigantesco mercato di miliardi di persone il cui valore non è prodotto certo dal dollaro annuale versato per l’abbonamento a WA o analoghe piattaforme della messaggistica e telefonia cellulare, quanto invece dall’enorme business derivato dalle inserzioni pubblicitarie e dal marketing legato alla vendita di informazioni sugli utenti abbonati.
Per quanto paradossale la cosa possa sembrare nella teoria paleo-industriale marxista sulla formazione del plusvalore e del profitto, non sono in questo caso i tecnici e gli ingegneri (peraltro retribuiti con stipendi considerevoli, che vanno ben oltre la “reintegrazione della forza-lavoro”) coloro che producono la gran parte del valore aggiuntivo e che generano nuovi e colossali profitti, ma gli stessi utenti/clienti, bersagli sia delle campagne pubblicitarie dei vari marchi industriali sia del marketing di tutte le strutture della vendita telematica. Il profitto giunge a WhatsApp – come a Google, Yahoo, Facebook, Twitter, strutture nate propalando l’idea di inverosimili business senza profitto, gratuite nell’accesso e spergiure sul fatto che mai avrebbero fatto pubblicità, e invece infarcite di spot e con fatturati annui già intorno alla decina di miliardi di dollari – dalle imprese che accalappiano i clienti dei social network e delle start-up telematiche, e che li spremono come limoni. Tenendo conto che WA ha più utenti di tutte le compagnie telefoniche dell’Europa occidentale messe assieme, e che alla fin fine Facebook ha pagato a WA una somma che equivale a 45 dollari per utente, ben sapendo che in pubblicità e marketing ne ricaverà assai di più, la somma sborsata da Zuckerberg smette di apparire una follia. Volendo introdurre altre complessità in materia di produzione di valore e sfruttamento, un altro esempio può riguardare alcune serie televisive di straordinario (anche se spesso non duraturo) successo. Uno dei must al momento (inizio 2014), Peppa Pig, è un cartoon che con la sua incredibile diffusione mondiale ha oscurato anche il precedente Hello Kitty negli ascolti universali ma soprattutto nella diffusione senza confini della oggettistica e dei gadget derivati.
«La maialina con il muso da phon più famosa del mondo in un paio di anni ha scalzato persino Hello Kitty: oramai quaderni, zaini e astucci sono tutti di Peppa e pomeriggio e sera in televisione le sue vicende dominano incontrastate. La serie dei suoi cartoni animati è diffusa in 180 nazioni, non c’è angolo al mondo che non accolga con entusiasmo le minime avventure della famiglia dei maiali, tutti i bambini sono incantati da queste storielle fatte quasi di niente ma che hanno il pregio evidente di comunicare buonumore e serenità…Peppa non combatte contro nessuno, vive con la sua affettuosa famiglia e gli amici cari, tutti sono contenti, si abbracciano, ridono, saltano nel fango senza problemi…E’ un mondo a parte, un mondo infantile che non vuole sapere niente di rischi e pericoli, delle pene del mondo, difendendo il diritto alla beata ignoranza, a una felicità senza ombre né preoccupazioni. La famiglia tradizionale torna ad essere il centro dell’universo, una famiglia in cui tutti giocano insieme come in un sogno primaverile. Forse ogni bambino vorrebbe almeno per un giorno far parte di una famiglia così, senza strilli e senza tensioni»29.
Non mi soffermo sulla lettura culturale e sociale del fenomeno: è probabile che l’analisi che qui riporto sia valida. Né mi addentro in confronti con illustri precedenti dei decenni scorsi, ad esempio con i cartoon della Disney o della Warner Brothers che hanno accompagnato l’infanzia della mia generazione e di varie altre: confronti che ci porterebbero sul terreno – interessante, ma non per ciò che sto qui trattando – dello scadimento culturale nell’ultimo trentennio anche nel campo dell’intrattenimento filmico e televisivo dei più giovani. Ciò che qui ci interessa è quel «ormai quaderni, zaini e astucci sono tutti di Peppa» segnalato da Lodoli. Seppure oggetti legati ad eroi del cinema, TV e fumetti siano in circolazione da decenni, negli ultimi anni il salto di quantità è stato così enorme da farci interessare ad esso in questa riflessione impegnativa sull’attualizzazione dei concetti di sfruttamento e di sfruttati/e. Come per il cartoon di Peppa Pig, egemone fino al prossimo boom mediatico, esistono migliaia di altri mondi virtuali e fantastici – di fonte letteraria, televisiva, cinematografica, fumettistica o centrata sul web e sui videogiochi – che il capitalismo ha messo a frutto non tanto con la vendita del prodotto diretto ma soprattutto con la sua materializzazione nella oggettistica, con miliardi di gadget in tutto il mondo che producono abissalmente più profitto delle opere originarie che li hanno generati e giustificati.
Ebbene: chi è il vero produttore sfruttato del gadget e del profitto conseguente, chi aggiunge valore al pupazzo o allo zainetto o alla penna e all’infinità di prodotti materiali collegati all’opera di fantasia? Sono gli operai che materialmente fabbricano il gadget? Sono loro gli sfruttati? Mi pare che la risposta debba essere negativa. Il valore dell’oggetto non è nella materia, ma nello spirito, nelle sensazioni ed emozioni che richiama nell’acquirente, e che lo ricollegano al mondo fantastico amato durante la lettura o la visione televisiva, cinematografica, o via web. Insomma, siamo di fronte ad uno dei più vistosi esempi di messa a profitto dell’immaginario. Ma allora il vero produttore, l’eventuale sfruttato, è colui che tale immaginario ha creato. Solo che la sua individuazione si complica ancor più nella produzione fondata sul virtuale, perché la traduzione di un’idea in prodotto molto spesso non è opera di un singolo o di pochi individui. Ad esempio, nel caso della trasmissione televisiva certamente produttivi – in quanto hanno aggiunto valore alla merce – sono i “creativi” che hanno ideato le vicende della famiglia di maialini, anche se non sappiamo con certezza se sia stata farina del loro sacco o abbiano carpito altrove l’idea-base e i caratteri dei personaggi, da fonti esterne che nulla hanno ricevuto in cambio.
Comunque, nella traduzione dell’idea in merce sono entrati di certo altri protagonisti: coloro che realizzano, puntata dopo puntata, il cartoon; i venditori che hanno piazzato il prodotto in quasi duecento nazioni; quelli che hanno trasformato i personaggi televisivi in oggetti vendibili; i pubblicitari che hanno venduto l’abbinamento dei maialini con altre merci; e magari anche i sondaggisti che, interrogando il pubblico “fidelizzato”, riescono a modificare in itinere le storie e i caratteri dei protagonisti, adattandoli ai mutamenti di gusti e di umori del pubblico che oggi garantisce il successo dei maialini, ma che domani potrebbe indirizzandosi altrove. E si potrebbe continuare con altri protagonisti non irrilevanti del processo di valorizzazione della merce-Peppa, nel lungo ed accidentato percorso che ha condotto dal parto dell’idea primigenia fino alla vendita del format e dei gadget collegati. Perché ad esempio non va dimenticato che la produzione di plusvalore esiste solo se la merce viene venduta: il giorno in cui i maialini cessassero di interessare i telespettatori, i pubblicitari non riuscissero più a vendere gli spot annessi al programma e i gadget non appassionassero più l’infanzia internazionale, quelle merci perderebbero ogni valore. Dunque, partecipano alla formazione del profitto anche tutti coloro che contribuiscono a mantenere alto l’interesse del telespettatore, a persuadere gli inserzionisti pubblicitari dell’utilità del connubio tra il loro prodotto e i maialini, ad attualizzare continuamente i gadget e le loro modalità di vendita.
PROVVISORIE CONCLUSIONI SU CLASSI E CONFLITTI DI CLASSE
Alla fine di questa trattazione – iniziata nel 2012 con il saggio Classi, ceti, conflitti di classe ed estesa e approfondita ulteriormente in questo Ancora sull’analisi delle classi – su classi, ceti, conflitti di classe e rivisitazione dei concetti di sfruttamento e di produzione di valore aggiunto (plusvalore) alle merci, mi spetta di trarre alcune conclusioni, sintetizzando, seppure con cautela, i principali elementi di analisi forniti, al fine di trarne strumenti che spero utili per l’azione sociale, politica e sindacale del prossimo futuro, e per la scelta di un percorso di trasformazione della società esistente, in chiave benicomunista.
1) Il concetto di classe e di ceto sociale non è obsoleto, così come non lo è la convinzione che i conflitti di classe e di ceto abbiano profonde e inestirpabili radici nell’economia, nei processi di produzione, di distribuzione e di spartizione della ricchezza. Rispetto, però, alle impostazioni marxiane e del comunismo “scientifico” la realtà odierna ci impone profonde modifiche, per interpretare ciò che accade ed agire efficacemente per la trasformazione dell’esistente. Al fine di introdurre tali modifiche, pur avendo riportato successivamente vari contributi che la correggono e integrano, sono partito dalla definizione leniniana di “classe” (vedi Classi, ceti e conflitti di classe) la quale, pur datata e parziale, mi è parsa una buona base di partenza e più corretta rispetto a varie altre di fonte marxista o della cosiddetta “sociologia borghese”.
2) Abbiamo visto come, paradossalmente, lo stesso Marx, così schematico nel descrivere un conflitto di classe con soli due veri protagonisti, borghesia e classe operaia, ci tenne a sottolineare che le classi «non si presentano quasi mai nella loro forma pura» se non al momento del conflitto frontale con l’avversario. Dunque, così come era una forzatura ideologica quella delle due classi uniche per omogeneità interna e antagonismo reciproco, ho valutato altrettanto sbagliata l’indefinitezza di una natura di classe che si manifesterebbe solo nella contrapposizione con altre classi e ceti. Credo che invece alcune caratteristiche comuni di una classe esistano indipendentemente dal ruolo giocato dagli avversari. Solo che, accanto a ciò che unisce una classe e i ceti che la compongono, permangono costantemente gli elementi che dividono: e anche questi agiscono al di là di cosa possano fare i “nemici di classe”. Più precisamente, all’interno di una classe pur con caratteristiche comuni operano però diversi ceti sociali, che hanno differenti modalità di vivere nella stessa classe; e che di conseguenza si possono trovare in ogni fase ad essere alleati o conflittuali con ceti similari. Ad esempio. Se accettiamo la definizione leniniana laddove essa precisa che le classi «si distinguono tra loro per il posto che occupano in un sistema di produzione sociale e per il loro rapporto, per lo più sanzionato e fissato da leggi, con i mezzi di produzione», possiamo considerare membri della stessa classe capitalistica sia i proprietari individuali/familiari di rilevanti mezzi di produzione (terra inclusa), con tanto di sanzione giuridica della loro proprietà; sia quella borghesia di Stato e quei funzionari del Capitale (di Stato e privato) che, pur non avendone il sigillo proprietario per legge, appaiono possessori effettivi di altri considerevoli mezzi di produzione, in quanto pienamente abilitati a deciderne le modalità d’uso, il cosa, dove, quanto e per chi produrre e il come distribuire i frutti della produzione; sia, infine, i capitalisti della grande finanza che non producono nulla ma fanno denaro con il denaro. Che ci siano o meno scontri di classe tra essi e i settori sociali anticapitalisti, questi differenti ceti si possono includere in una unica classe capitalistica. Ma nello stesso tempo non dobbiamo ignorare la diversità dei rispettivi modi di vivere nella stessa classe. Insieme ad alcuni interessi comuni tra capitalisti privati e di Stato, tra funzionari del Capitale multinazionale e borghesia di Stato nazionale, tra industriali, investitori finanziari e proprietari terrieri – che permangono indipendentemente dagli avversari -, esistono tra questi differenti modi di essere capitalisti contrasti e anche conflitti, dovuti alla non coincidenza delle loro collocazioni nella classe e nella società. E dunque, di volta in volta, gli elementi di unità e di conflitto, di identità e di differenze di interessi entrano in gioco in maniera variegata, richiedendo di non descrivere una classe come se fosse un monolite, un insieme di interessi sempre compatti.
3) Un ragionamento analogo lo si può fare – ed anche con maggiori differenziazioni interne, a causa della debolezza economica e sociale – per quel vastissimo universo di coloro che per vivere devono vendere le proprie forze-lavoro, e che potremmo allargare in una più ampia definizione di classe senza proprietà e senza potere. Sempre facendo ricorso alla definizione leniniana, l’assenza di proprietà giuridica può essere ovviata (vedi la borghesia di Stato) grazie al potere e al possesso sostanziale. Dunque, non basta definire il proletariato come quella classe senza proprietà, che “possiede” solo forza-lavoro e prole: si può non essere proprietari personali di significativi mezzi di produzione o di importanti capitali, ma avere sufficiente potere per farne uso comunque. Inoltre, quanto si parla di proprietà di mezzi di produzione, bisogna fare una netta distinzione tra le dimensioni di essi: una bottega artigiana con i suoi attrezzi, una piccola barca da pesca, un terreno agricolo di qualche ettaro, un bar o una panetteria possono anche essere considerati piccoli mezzi di produzione ma la collocazione sociale dei loro proprietari è distante anni-luce da quella della grande imprenditoria di Stato o privata, nonché da quella dei gruppi finanziari, bancari e assicurativi. Di conseguenza, sia che ragioniamo sulla classe dei soli salariati, cioè di coloro che vivono grazie alla vendita della propria forza-lavoro in forma dipendente e subordinata, sia che estendiamo tale classe fino ad includervi una parte del piccolo lavoro autonomo, dotato magari di piccola proprietà come nei casi citati prima, all’interno coesistono ceti e strati sociali differenziati, i quali hanno interessi comuni e convergenti ma anche differenze non trascurabili. Se complessivamente la condizione salariata, dipendente e non proprietaria accomuna ad esempio gli operai stanziali e quelli migranti, i lavoratori del pubblico impiego e del privato, gli occupati relativamente stabili e i precari, le modalità con cui si applica tale condizione sono ben diverse se guardiamo i rapporti lavorativi dal punto di vista della stabilità e del potere contrattuale di ognuno di questi ceti salariati nei confronti del padronato di Stato o privato. Le fabbriche possono essere delocalizzate, il lavoro esternalizzato: le scuole e gli uffici ministeriali no; dunque, almeno per ora, il lavoro operaio e nei settori privati non ha le stesse difese e garanzie della dipendenza lavorativa dallo Stato nazionale. Stanziali e migranti, uomini e donne, possono anche avere sulla carta la stessa identità di salariati/e: ma la ricattabilità e la fragilità del rapporto di lavoro per i secondi è in media ben peggiore che per i primi; e così tra dipendenti relativamente stabili ed eterni precari. Se poi allarghiamo il campo e inseriamo nella classe dei senza proprietà e senza potere anche una parte del piccolo lavoro indipendente e autonomo le diversità aumentano ulteriormente. Dunque, così come nei vertici della scala sociale, anche nelle parti “basse” di essa coesistono elementi e fattori di differenziazione. Il ché impone cautela quando si tratta la collocazione di classi e ceti nella conflittualità sociale, economica e politica. Le classi non sono entità indefinite, non sono grandi gruppi sociali tenuti insieme solo dalla lotta contro gruppi avversari ma non sono nemmeno realtà omogenee o stabilmente omogeneizzabili. Al loro interno i differenti ceti, pur mantenendo una base comune, possono arrivare anche a fasi di conflitto aspro (in “seno al popolo”), a volte persino più duro di quello con altre classi, con le quali a volte si stabiliscono complicità contro ceti momentaneamente avversari pur se interni alla stessa classe (ad esempio, il più volte citato conflitto tra ultimi e penultimi, cioè tra salariati stanziali e migranti in questi ultimi anni in Italia e in Europa).
4) Se appare inconsistente una teoria che identifichi una classe solo nel conflitto con un’altra, altresì evanescente mi sembra la distinzione tra classe in sé e classe per sé – ad esempio, tra operai coscienti solo del proprio conflitto quotidiano economico e operai consapevoli del loro presunto destino di classe rivoluzionaria – che, impostata genericamente da Marx ed Engels, fu invece elemento cruciale della teoria leniniana e kautskyana, prima, e degli scritti di Gyorgy Lukacs30 (cfr. in particolare Storia e coscienza di classe) poi. Per Kautsky come per Lenin e i boscevichi, la classe operaia non aveva di per sé la consapevolezza del suo essere classe destinata a determinare la fine del capitalismo. Spontaneamente l’orizzonte dei singoli operai o proletari non sarebbe mai andato oltre i propri problemi riguardanti le condizioni immediate di lavoro e di vita, rimanendo all’interno dei rapporti capitalistici, ove al massimo la classe in sé poteva dar vita a lotte per migliorare la propria situazione contingente, ma senza giungere a porsi il problema di una rivoluzione anticapitalistica. Il salto alla coscienza per sé, rivoluzionaria, gli operai avrebbero potuto farlo solo assimilando la teoria politico-economica marxista, prodotta da una ”intellettualità borghese”, costituita, nella socialdemocrazia tedesca ed europea come tra i bolscevichi, per lo più da professionisti, insegnanti, artigiani, impiegati e funzionari della “classe media” cittadina. Su tale scissione tra la coscienza delle necessità immediate e delle possibili prospettive storiche, successivamente ha tentato un’elaborazione organica Lukacs, definendo
«la coscienza di classe come rapporto della classe alla totalità sociale, quindi non la somma o la media di quello che pensano e sentono i singoli individui della classe presa in considerazione, ma quello che dovrebbero pensare se fossero perfettamente in grado di comprendere la situazione data. La coscienza di classe da un lato supera il limite della incomprensione individuale, dall’altro incontra il limite imposto dalla struttura economico-sociale dell’epoca e della posizione occupata (da ognuno)…La coscienza di classe appare così non come un dato immediato, rilevabile, ma da un lato come la conseguenza di una situazione obiettiva, dall’altro come uno scopo da raggiungere: la teoria della coscienza di classe è la teoria della sua possibilità obiettiva»31.
Così come in Lenin e in Kautsky, questa lettura delle classi è o profondamente idealista o strumentale. Non si capisce infatti perché dovrebbe esistere di per sé una contrapposizione strutturale tra interessi immediati e a lunga scadenza, se non per l’ovvio motivo che per chiunque, indipendentemente dalla collocazione sociale, intervenire sull’oggi, sull’hic et nunc, é più sentito e necessario che tentare di determinare un più o meno lontano domani. Ma ancor più incomprensibile (a meno di non volere egemonizzare e utilizzare altri settori sociali per propri interessi, come effettivamente accaduto nel “socialismo reale”) è come un’ideologia e una teoria elaborate da intellettuali, autodichiaratisi provenienti da una borghesia che si considerava l’avversario principale del proletariato, potesse permettere di riconoscere i propri interessi storici come distanti e persino contrapposti a quelli immediati della vita lavorativa e sociale quotidiana. Oltretutto, questo contrasto tra la coscienza in sé e per sé finisce per far svanire le classi come elementi oggettivi della realtà sociale, sublimandole in enti puramente coscienziali. «La coscienza di classe – scriveva appunto Lukacs – non è la somma o la media di quello che pensano gli individui della classe ma quello che dovrebbero pensare se fossero in grado di comprendere la situazione data… La coscienza di classe appare così non come un dato immediato, rilevabile, ma uno scopo da raggiungere». Basta togliere la parola “coscienza” per arrivare alla conclusione che la classe non sarebbe un dato oggettivo, ma un parto mentale, il frutto di quello che i suoi componenti «dovrebbero pensare se fossero in grado di comprendere la situazione..uno scopo da raggiungere».
Qualcosa del genere lo scrisse Gramsci in un articolo dell’ottobre 1918: «I socialisti fanno un grande uso della parola coscienza: coscienza di classe, coscienza socialista, coscienza proletaria. E’ implicita in questo linguaggio la concezione filosofica che si è, solo quando si conosce, si ha coscienza del proprio essere: un operaio è proletario quando sa di essere tale e opera e pensa secondo questo suo sapere»32. L’identità di classe diviene uno stato d’animo, derivante da un particolare grado di consapevolezza: dal ché, la possibilità che un intellettuale borghese si tramuti in operaio anticapitalista per il fatto di condividere a parole l’ideologia comunista; salvo magari distaccarsene rapidamente se vede intaccati gli interessi materiali legati al suo stato sociale.
Trovo davvero sorprendente come un impianto materialista possa sgretolarsi di fronte alla necessità di giustificare il rapporto Partito-Classe insito nell’impostazione generale del comunismo “storico”. E comunque, se si ritiene che classi e ceti siano dati reali e non semplici parti del pensiero politico e filosofico, bisogna concludere che un qualche legame oggettivo di medio e lungo periodo tra i membri di una classe – e tra i vari ceti che la compongono – esiste, anche se può essere lacerato quando ad esso si contrappongano nell’immediato divergenze di interessi o situazioni conflittuali tra componenti della classe stessa (tra operai stanziali e migranti, salariati stabili e precari, lavoratori/trici del pubblico impiego e del privato; o in campo padronale, tra manager di multinazionali e di aziende nazionali, tra capitalisti privati e “pubblici”, tra possessori di imprese finanziarie e industriali). In genere il confine tra ciò che unisce e ciò che divide può essere molto mobile, perché esiste in permanenza una dialettica tra spinte all’unità e alla cooperazione all’interno di una classe o ceto e controspinte che dividono e persino contrappongono sui programmi i gruppi di individui e i singoli: esattamente come per ognuno/a di noi (a questo tema ho dedicato gran parte del sesto capitolo di Benicomunismo, e in particolare il paragrafo L’altruismo egoistico) opera, altrettanto in permanenza, il conflitto tra “egoismo” e “altruismo” o più esattamente tra difesa del Sé e necessità della cooperazione con gli altri/e. A questi possibili diversi interessi nell’immediato, si aggiungono infine fattori culturali, politici, sindacali, religiosi, etnici: ma le ragioni dell’unità o divisione all’interno di una classe (o ceto) mantengono in prevalenza il loro substrato oggettivo, che distingue i gruppi sociali «per il posto che occupano in un sistema di produzione, per il loro rapporto, per lo più fissato da leggi, con i mezzi di produzione, per la loro funzione nell’organizzazione sociale del lavoro»
5) La «dimensione che ha la parte di ricchezza sociale», di cui ognuno dei soggetti di una classe o ceto dispone, è importante per determinare la sua collocazione sociale e la sua tendenza a ricercare unità con altri esponenti della sua classe o ceto, piuttosto che allearsi invece con strati sociali esterni alla sua collocazione formale. Contrariamente alla minimizzazione con la quale Marx trattò la questione del reddito individuale, come elemento secondario rispetto alla posizione nei rapporti di produzione, la definizione leniniana segnalava come invece, a parità di ruolo nel meccanismo produttivo (salariati, lavoratori indipendenti, possessori di grandi, medi o piccoli mezzi di produzione, o di capitali finanziari, borghesia di Stato, funzionari del Capitale pubblico o privato), la differente distribuzione dei frutti della produzione e della ricchezza sociale è elemento rilevante per determinare il comportamento dei singoli soggetti, seppure della stessa classe o ceto.
Che la differenza di reddito all’interno di una classe abbia sempre avuto una notevole importanza, lo dimostra anche la rovente e reiterata polemica che nella storia del marxismo e del comunismo ha investito ad esempio quella che già Marx ed Engels definirono l’aristocrazia operaia, fino alle accuse sul tradimento di classe perpetrato da operai meglio pagati di altri e per questo tacciati di essersi venduti ai padroni. In realtà, la differenziazione salariale è sempre esistita nelle fabbriche come altrove, ma non ha mai cambiato il rapporto strutturale della “aristocrazia” nei confronti del lavoro salariato. Anche gli operai specializzati, più qualificati e meglio pagati, sono pur sempre obbligati a vendere la forza-lavoro ad un padronato che ha in ogni momento la possibilità di modificare il loro salario e le loro condizioni lavorative in maniera unilaterale, a meno di forte opposizione politica o sindacale organizzata. D’altra parte, in celebri scritti (già citati) della “maturità”, fu proprio Marx a sostenere l’assoluta coerenza, in un quadro di rapporti capitalistici, delle differenti retribuzioni delle forze-lavoro per operai diversamente qualificati. La verità è che una significativa differenza negli introiti dei vari strati di salariati determina, materialisticamente, differenti identificazioni o contrapposizioni con il luogo di lavoro e con le sue sorti, e non garantisce un’unità stabile fondata su una presunta e unificata coscienza di classe, consapevole dei suoi ipotetici obiettivi storici. E questa differenziazione non vale solo per i gradini più bassi della scala sociale. Ad esempio, analizzando il vasto campo dei proprietari/possessori dei mezzi di produzione, del capitale industriale, finanziario e terriero, ho già sottolineato le differenze tra coloro che posseggono di fatto i capitali, senza che questo sia sancito da una proprietà giuridica, e le tradizionali forme di proprietà capitalistica. Ma in entrambi i campi esistono ulteriori stratificazioni legate non solo alle dimensioni della proprietà ma anche al reddito effettivo che gli individui ne possono ricavare. Seppure in quanto a potere decisionale i funzionari del capitale di Stato e gli Amministratori delegati delle multinazionali siano in condizioni simili, essi possono differenziarsi assai per la diversa qualità dei redditi garantiti, per i benefit e le sinecure attribuiti loro.
Differenze analoghe esistono anche tra imprenditori che traggano i profitti solamente dalla propria fabbrica o azienda agricola – dove però sono obbligati a reinvestirne gran parte – e coloro che possano ingigantire il reddito con la speculazione borsistica senza spese produttive di un qualche rilievo. Ancor più variegata è la stratificazione nel campo del lavoro autonomo e indipendente, ove un libero professionista in campi ancora redditizi può ritrovarsi molto più in alto nella scala sociale rispetto ad un piccolo proprietario di un’attività artigianale, commerciale o agricola, il quale, pur possedendo un capitale di partenza, può stentare a tal punto da ricavarne solo un reddito medio non più alto di quello di suoi dipendenti; o un informatico, occupato in una delle potenti multinazionali del “virtuale”, può ritrovarsi molto meglio collocato socialmente di un promotore di una start-up dai bassi profitti, malgrado il primo formalmente sia un salariato e il secondo un mini-capitalista.
Cosicché, pur in un gruppo di individui che dal punto di vista dei rapporti di produzione si ritrovino in una stessa classe, differenze rilevanti, che comportano contrasti e non solo solidarietà, possono esistere per diversità del modo in cui gestiscono i capitali (nella classe padronale) o vendono la forza-lavoro (se salariati) ma anche per il reddito effettivo. E dunque, per sapere dove si possa contare davvero sull’unità di classe, è un errore fatale il ragionare solo sulla base del posto che gli individui «occupano in un sistema di produzione e del loro rapporto con i mezzi di produzione» e non anche «per la dimensione che ha la parte di ricchezza sociale di cui dispongono».
6) Il conflitto frontale (e mortale) tra capitalisti e operai, imposto alla teoria economica e politica ottocentesca da Marx ed Engels ed a quella novecentesca dal comunismo “scientifico”, pur essendo, come ho cercato di dimostrare in Classi, ceti e conflitti di classe, un’operazione ideologica e politica non dissimile da quella dei fisiocratici (per i quali il solo vero lavoro produttivo era quello agricolo) o di tanta parte della sociologia “borghese” novecentesca (secondo la quale la collocazione nel meccanismo produttivo non era l’elemento di fondo per la determinazione delle classi e dei loro conflitti), ha pur tuttavia segnato nel profondo la terminologia di classi, ceti e strati sociali fino ad oggi. E lo ha fatto, in particolare, schiacciando centinaia di milioni di persone nell’Occidente capitalistico in un’unica dimensione, quella della cosiddetta classe intermedia (tra operai e padroni), middle class nella terminologia anglosassone o piccola borghesia in gran parte di quella marxista e comunista. Per quanto non sia facile ridefinire con precisione la vastissima gamma di settori sociali non-proletari e non-capitalisti, uniformati in maniera ideologica in un unico confuso contenitore, proverò qui a fare alcune distinzioni, che possano aiutare ad esplorare tale universo sociale ma soprattutto a valutare in che termini all’interno di questo vasto popolo si possano ricercare e realizzare diffuse, seppur complesse, alleanze anti-capitalistiche e anti-mercificazione.
Una prima macro-categoria sociale di questa vastissima area è quella del piccolo lavoro autonomo o indipendente. Vi rientrano vari gruppi sociali, tra i quali il più in espansione negli ultimi anni in Italia è il mondo del finto lavoro autonomo, che comprende quelle forme di lavoro solo giuridicamente indipendenti ma di fatto completamente subordinate a committenti che sfruttano forze-lavoro senza vincoli padronali stabili: la miriade di partite Iva, di collaboratori a progetto, di soci di fittizie cooperative e delle decine di variopinte contrattualità inventate per non offrire a milioni di lavoratori/trici alcuna stabilità nè trasparenti rapporti con il padronato che di quei lavori pur necessita. In balia dei committenti, milioni di uomini e donne pongono le loro forze-lavoro al servizio di un padronato che non concede loro non solo la continuità del rapporto di lavoro, ma spesso neanche la copertura sanitaria, assicurativa e pensionistica. Sovente questi gruppi sociali devono per di più pagare le tasse “a prescindere”, come se il rapporto di lavoro fosse continuativo, con un reddito annuo medio ben più basso, oltre che aleatorio, dei salariati dipendenti. Tenendo conto di questi fattori, appare assurdo collocare questi ceti e strati sociali in una ipotetica classe intermedia o piccola borghesia: la grande maggioranza di costoro rientra a pieno titolo nella classe che deve vendere la forza-lavoro ad un padronato “pubblico” o privato che stabilisce insindacabilmente le condizioni di lavoro e la retribuzione. Dunque ritengo che questi milioni di lavoratori/trici vadano considerati parte della classe dei salariati, nonché di una ancor più vasta meta-classe, che in varie occasioni ho chiamato dei senza proprietà e senza potere.
In quanto alla cosiddetta piccola borghesia, se usiamo il termine “borghesia” marxianamente – e cioè per definire la classe dei proprietari dei grandi mezzi di produzione, di consistenti capitali o proprietà terriere, commerciali, distributive, significative rendite finanziarie e così via – e chiamiamo borghesia di Stato la classe che possiede analogo potere sulle proprietà “pubbliche”, potendone disporre anche senza la proprietà formale, allora il termine piccola borghesia dovrebbe designare quei ceti proprietari di piccoli mezzi di produzione, distribuzione, commercializzazione e di altrettanto piccoli capitali, fermo restando la mobilità di tali confini, visto che non abbiamo un criterio “scientifico” preciso per stabilire ove termina il piccolo. Dichiarata dunque la fluidità di queste definizioni, possiamo però individuare con una qualche precisione una gamma di ceti e gruppi sociali inclusi in questa classe. Ad esempio i piccoli proprietari agricoli, quei contadini indipendenti che magari si avvalgono anche del lavoro di qualche bracciante; gli imprenditori di piccole industrie o botteghe artigiane; piccoli commercianti o distributori; autotrasportatori con ridotte flottiglie di mezzi e piccoli consorzi di trasporto urbano o di pesca; e allargando il concetto di “mezzi di produzione e distribuzione” fino al turismo e alla ristorazione, anche proprietari di piccoli ristoranti, alberghi, negozi, bar, piccole agenzie turistiche. Una parte di questi gruppi sociali si possono considerare produttori indipendenti estendendo il concetto di produzione anche alla trasformazione dei prodotti e ad una serie di servizi che generano profitto. In sintesi, credo che per queste figure la definizione di piccola borghesia non sia inappropriata, anche se preferisco il termine di lavoro autonomo (o indipendente) con piccola proprietà, che essa sia un campo agricolo, una bottega artigiana, una piccola azienda, un ristorante o un albergo, una o più barche da pesca (di dimensioni e numeri limitati), un negozio o un bar. In ogni caso, tutti costoro nell’odierno capitalismo tendono sempre più a perdere l’indipendenza e l’ autonomia, essendo spesso subordinati alle grandi catene economiche, produttive e distributive del capitale privato e di Stato, nonché sottoposti a mille vincoli e soprusi burocratici, clientelari, quando non addirittura mafiosi in vaste zone del paese: il ché comporta l’avvicinarsi di questa piccola borghesia allo status dei salariati, con le conseguenti possibilità di proficue ed inedite alleanze con essi.
Resta poi nel grande calderone della middle class l’ampia area delle “libere” professioni e dei mestieri mentali che fino a qualche decina di anni fa poteva essere inclusa nella media borghesia alleata al padronato pubblico e privato, in quanto dotata di buoni redditi e sufficienti privilegi economici e sociali. Seppure questa area non si sia svuotata e il mondo delle professioni “nobili” abbia ancora una sua significativa distanza dal lavoro salariato e dalla piccola borghesia del lavoro autonomo, pur tuttavia anche in tali aree l’identificazione con il capitalismo privato o di Stato si è andata attenuando non poco negli ultimi anni. Come già sottolineavo, citando rispettivamente Illuminati e Wright Mills, il lavoro delle professioni indipendenti e “nobili”, nonché i lavori intellettuali in genere «vengono sempre più organizzandosi nelle forme del lavoro dipendente e di gruppo…con la proletarizzazione mascherata di liberi professionisti in impiegati amministrativi e tecnici»; e «i colletti bianchi sono…nella stessa condizione di classe dei lavoratori salariati rispetto alla proprietà». Anche tra questi settori sociali aumenta il numero di persone potenzialmente disponibili ad un’alleanza con i salariati e con la piccola borghesia del lavoro autonomo piuttosto che con i capitalisti privati e di Stato, vivendosi essi sempre più inclusi nella meta-classe dei senza potere e senza proprietà, comunque costretti per vivere a mettere a disposizione le proprie forze-lavoro, senza poter porre condizioni o limiti a coloro che dispongono della proprietà dei grandi mezzi di produzione e di distribuzione e del grande capitale privato e “pubblico”.
6) Tra i fattori in grado di sconvolgere alleanze o contrapposizioni tra classi e ceti, e all’interno di essi, un ruolo di primo piano lo ricopre indubbiamente quell’insieme di fattori che il marxismo ha definito sovrastrutturali, cioè non riguardanti direttamente la struttura economica e produttiva della società. Se, come già detto, non è condivisibile il peso attribuito da Weber e dalla sociologia novecentesca a tali fattori, talmente esagerato da annullare quasi gli elementi strutturali economici, una speculare sottovalutazione dell’incidenza della sovrastruttura è stata caratteristica diffusa della grande maggioranza degli anticapitalisti del passato. Eppure, la realtà storica ha dimostrato abbondantemente quanto incidano elementi ben concreti – per i quali il termine sovrastruttura appare limitativo, visto che intervengono continuamente nel tessuto fondativo delle società – come il credo religioso, l’appartenenza ad un’etnia, l’ideologia politica e l’influenza dei partiti, dei sindacati e dei movimenti sociali, i riferimenti culturali e sub-culturali, le tradizioni nazionali e locali, l’informazione e la società dello spettacolo, gli elementi psicologici e antropologici.
Tali elementi possono distorcere, snaturare o addirittura annullare le influenze che sul comportamento degli individui esercitano strutturalmente la collocazione produttiva, il reddito, gli interessi più profondi di classe e ceto: al punto da forgiare alleanze o conflitti apparentemente contro natura, per chi ritiene che sarebbe naturale far prevalere la coscienza e l’unità di classe o di ceto. Di esempi ne abbiamo a valanga: le grandi alleanze interclassiste fondate sulla religiosità islamica, ebraica o cristiana in un gran numero di paesi del mondo e le guerre di religione (o almeno motivate dallo scontro tra credi religiosi) altrettanto diffuse; le lotte, che ho definito tra ultimi e penultimi, all’interno dei salariati e degli operai, tra etnie e in questa fase soprattutto tra stanziali e migranti; i contrasti altrettanto interclassisti all’interno di tante nazioni tra separatisti e centralisti, e intorno alle filosofie delle “piccole patrie”; le ripetute infatuazioni popolari per ideologie del tutto elitarie, razziste e xenofobe, in genere fomentate dalle classi più ricche e potenti, con i conseguenti ottusi innamoramenti nei confronti di duci, leader maximi e avventurieri dittatoriali. E senza mai sottovalutare quel decisivo contrasto, interno ad ognuno/a di noi indipendentemente dalla collocazione di classe e ceto, tra la difesa e ingrandimento del proprio Io – ciò che viene chiamato egoismo – e il bisogno, anche al fine di tale difesa, del ricorso all’Altro, all’azione collettiva e alla solidarietà – ciò che solitamente si definisce altruismo.
Però, malgrado questi elementi influiscano sovente con notevole forza sul comportamento dei vari gruppi sociali, se osserviamo questi ultimi in un arco di tempo esteso possiamo constatare che l’interesse basilare – determinato dalla collocazione produttiva, dal reddito e dalle proprietà a disposizione, dal potere conseguente e dal ruolo sociale così assunto – non solo non scompare mai, ma nei momenti delicati e nei passaggi epocali emerge con forza nella determinazione delle alleanze, dei conflitti, delle amicizie e inimicizie di classe e di ceto. Dunque, per coloro che sono impegnati nella trasformazione della società è indispensabile, per ogni prospettiva di alleanza stabile, tenere conto che: a) classi e ceti a loro interni non sono una realtà stabilmente compatta ed omogenea, neanche sulla base dei puri interessi economici, dovendo tener sempre conto non solo dei cosiddetti “interessi storici” ma anche della persistente differenziazione interna che i poteri economici e politici solitamente sanno ben incentivare; b) agli elementi strutturali si sommano quelli sovrastrutturali, che non vanno considerati secondari ed in alcune fasi, tempi e luoghi possono addirittura divenire dominanti, comunque richiedendo sempre un notevole lavoro specifico; c) oltre gli aspetti generali di struttura e sovrastruttura, non va mai trascurato l’elemento individuale umano, il permanente contrasto personale, indipendentemente dal ruolo sociale, tra gli impulsi alla salvaguardia dell’Io e quelli indirizzati verso la collaborazione e la solidarietà con l’Altro e l’identificazione con le più generali sorti degli umani e della vita sull’intero pianeta.
7) Dall’esplosione della crisi in Europa nel 2008 si è sempre più parlato di un generale impoverimento delle società del Vecchio Continente, e in particolare di quelle dell’area mediterranea. In realtà l’immiserimento non è affatto un dato generalizzato: mentre considerevoli settori sociali si sono impoveriti, altri si sono arricchiti. Analizzando ad esempio alcuni dati sulla ricchezza patrimoniale, emergono confronti piuttosto sorprendenti. Oggi negli Stati Uniti e in Inghilterra il 10% della popolazione più ricca detiene circa il 70% del patrimonio nazionale, e in tutta la restante Europa il 10% dei cittadini ne possiede il 60%. La sorpresa riguarda il raffronto con la situazione della prima metà del Novecento, perché mentre la grancassa massmediatica batte insistentemente sul debito sempre crescente che graverebbe sui cittadini europei, in realtà in questi decenni quello che è davvero aumentato in maniera vistosa è il patrimonio privato: infatti mentre esso, al netto del debito, equivaleva nel 1950, come media europea, a due anni di PIL, oggi esso è salito a sei anni di PIL e in Italia addirittura a sette anni; ed in quanto alla distribuzione di esso, se torniamo indietro all’inizio del secolo scorso in Europa un analogo 10% della popolazione deteneva fin al 90% del patrimonio mobiliare e immobiliare.
Dunque in un secolo una notevole quota di tale ricchezza si è distribuita su una fascia sociale che va ben oltre il suddetto 10%; ed è quindi del tutto fuorviante, ai fini di alleanze e coalizioni, prendere sul serio non solo le boutades modello Occupy Wall Street, secondo le quali il conflitto sarebbe tra il Grande Capitale concentrato nelle mani di un 1% e il restante 99% di popolo, ma anche ritenere che la geografia sociale veda contrapposto il 10% più ricco al restante 90% di popolazione. La realtà è ben più complessa, per quanto non sia facile tracciare netti confini numerici in materia, appare più realistica la fotografia che colloca circa un terzo della popolazione dei principali paesi europei, e dell’Italia in particolare, nel campo dei difensori, materialisticamente irriducibili, dello status quo – in base al possesso di quote rilevanti di capitale e ricchezza mobile e immobile e/o di consistenti mezzi di produzione – , e potenzialmente contrapposti o comunque ben lontani dai due terzi dei cittadini/e, privi di potere e di proprietà così significativi da renderli paladini della difesa e della riproduzione del sistema capitalistico. All’interno del vasto campo di senza potere e senza proprietà, si agita però a fasi alterne una vasta stratificazione di ceti non omogenei strutturalmente, potenzialmente alleabili tra loro ma anche sovente in contrasto e a volte anche subordinati alla minoranza davvero ricca, proprietaria e potente, in conseguenza anche di scontri “in seno al popolo” (come quello già abbondantemente citato tra salariati stanziali e migranti).
In questo grande blocco dei due terzi, dopo questi anni di profonda crisi in gran parte dell’Europa, ci sono in primo luogo i salariati/e e gli operai del lavoro pubblico e privato, i disoccupati cronici o in cerca di primo lavoro, la gran parte del lavoro precario e dei pensionati/e, i giovani senza reddito e gli studenti senza prospettive, i migranti più irregolari e disagiati, ma anche la maggioranza del piccolo lavoro autonomo, cooperativo, no-profit, e anche settori significativi dell’ex-middle class impoverita e messa ai margini sia dei meccanismi di potere e di sostanzioso prestigio politico e sociale sia del blocco dei proprietari di capitali, mezzi di produzione e patrimoni di un qualche rilievo. Ciò rende queste decine di milioni di individui – se ci limitiamo all’Italia, o centinaia di milioni se ragioniamo su scala europea o “occidentale” – potenzialmente disponibili a mettere in discussione il sistema capitalistico o comunque assai poco interessati ad una sua difesa. A patto però di mettere al centro di ogni prospettiva di trasformazione radicale una strategia permanente di alleanze, in cui in ogni fase si tenga conto di ciò che unisce ma anche di ciò che può dividere il potenziale fronte anti-capitalistico, dedicando la massima attenzione all’esercizio democratico e partecipativo della rappresentanza di tali interessi, evitando la distruttiva privatizzazione della democrazia, delegata a partiti o istituzioni che si arrogano il diritto di rappresentare gli interessi di classe e di ceto meglio dei settori direttamente interessati.
8) In particolare, per quel che riguarda la vastissima classe dei salariati/e, anch’essa variegata e differenziata, la scomposizione del lavoro subordinato, prodotta nell’ultimo trentennio nei paesi a capitalismo sviluppato dalle profonde trasformazioni produttive e dagli spostamenti rilevanti di tante forze politiche e sindacali “di sinistra”, l’hanno certamente indebolita di molto, provocando anche diffusi fenomeni di sottomissione all’ideologia padronale. Pur tuttavia tutto ciò non ha eliminato le invarianti basiche del conflitto di classe tra Capitale e forze-lavoro e della sua radicalità strutturale, accentuandone al contrario gli elementi di asprezza oggettiva, anche se per ora non significativamente trasferiti sul piano dello scontro soggettivo organizzato. Per giunta, ciò che ho indicato prima come l’omogeneizzazione della disomogeneità nelle modalità di sfruttamento delle varie forze-lavoro nel mondo, rende oggi più realistica di qualche decennio fa la costruzione – a livelli persino più avanzati e universali che nel Ventesimo secolo, con modelli organizzativi nuovi, da ideare e sperimentare – di un vasto fronte internazionale del lavoro subordinato e dei senza potere e senza proprietà.
Credo che questa sia davvero una potenziale prospettiva a carattere mondiale: perché mentre i profondi sconvolgimenti produttivi che abbiamo analizzato fin qui hanno seriamente indebolito tutte le posizioni più forti che operai e salariati in genere avevano conquistato in Europa e in Occidente fino agli anni Settanta del secolo scorso, il dislocamento produttivo ha anche finito per trasferire nel Sud e nell’Est del mondo alcune garanzie per il lavoro operaio e salariato a livelli imprevedibili fino a non molti anni fa, rendendolo addirittura maggioritario in tanti paesi quasi esclusivamente agricolo-contadini o utilizzatori soprattutto di lavoro servile o semi-schiavistico, migliorando anche la qualità delle forze-lavoro sul piano delle conoscenze e competenze e, di conseguenza, assegnando loro più significativi ruoli nella produzione. Ma non è possibile che una tale ricomposizione avvenga nelle forme della reductio ad unum, cioè della unificazione forzosa di interessi e strutture organizzate dietro una frazione-guida secondo lo schema marxiano, presupponendo una classe unica e omogenea egemone nel processo: unificazione forzosa che magari si pretenderebbe di guidare illuministicamente verso una profonda rivoluzione sociale, tramite un Partito-guida miracolosamente privo di interessi privati, di ceto o di “casta”. Così come per la lotta anti-mercificazione, su cui tornerò in un prossimo scritto, anche per i conflitti di classe e del lavoro – che alla prima sono assai sovente intrecciati nei fatti, ma non altrettanto nella coscienza collettiva – lo schema organizzativo non può che essere quello delle alleanze e coalizioni paritarie, evitando gerarchie di settori sociali o politici che pretendano di imporre la propria parzialità a tutto il fronte; e con modalità davvero integralmente democratiche, in gran parte da ideare e sperimentare in Europa e ad Occidente.
Note
1 Antonio Gramsci, «Sugli avvenimenti del 2-3 dicembre 1919», in L’Ordine Nuovo 1919-1920, Einaudi, Torino 1955, pag. 61.
2 Ibidem, p.65.
3 Il Partito Comunista d’Italia (PCdI), sezione dell’Internazionale Comunista, è nato dalla scissione (dal Partito Socialista) di Livorno nel 1921. E’ stato attivo legalmente fino al 1926 e clandestino fino al 1943 quando, ridiventato legale e scioltosi il Comintern, assunse il nome di Partito Comunista Italiano (PCI). Era stato fondato su basi marxiste da Bordiga e Gramsci ma fu poi stalinizzato integralmente sotto la direzione di Palmiro Togliatti.
4 La Confederazione Generale del Lavoro venne fondata a Milano nell’autunno del 1906 su iniziatva soprattutto del Partito Socialista, con la confluenza delle Camere del Lavoro, le Leghe, le Federazioni sindacali preesistenti e centinaia di sindacati locali. Divenuta clandestina durante il fascismo, rinascerà con il Patto di Roma nel 1944 come Cgil Unitaria, prima di scindersi in tre distinte confederazioni, Cgil, Cisl e Uil.
5 A. Gramsci, Superstizione e realtà, in L’Ordine Nuovo, op. cit. pag.109.
6 Per un rinnovamento del Partito Socialista, in L’Ordine Nuovo, op. cit. pp.117-122.
7 Il Partito Popolare nelle elezioni politiche del 1919 aveva ottenuto più del 20% dei voti, in rappresentanza non solo di vaste aree contadini ma di larga parte di quella “piccola borghesia” urbana tanto vituperata da Gramsci e dai dirigenti comunisti, i quali non si posero neanche per un istante, malgrado l’avanzata fascista, il problema di un’alleanza politica con tale Partito, oltre che, e soprattutto, con i settori sociali che in esso si riconoscevano.
8 A. Gramsci, Il popolo delle scimmie, in L’Ordine Nuovo, 2 gennaio 1921.
9 Nell’agosto 1922 diecimila squadristi del Nord Italia, guidati da Farinacci e poi da Italo Balbo, che avevano già occupato altre città emiliane, assediarono Parma, trovando una fortissima resistenza da parte degli Arditi comandati dal deputato Guido Picelli e dovettero rinunciare all’occupazione della città. Per chi ne volesse sapere di più, è consigliabile tra gli altri lo scritto di William Gambetta E le pietre presero un’anima. Le Barricate del 1922, contenuto in Roberto Montali (a cura di), Le due città. Parma dal dopoguerra al fascismo (1919-1926), Istituto Biblioteche del Comune di Parma, Silva, Parma, 2009. In quanto agli Arditi, apprezzabile tra gli altri il libro di Eros Francescangeli, Arditi del Popolo, Odradek, Roma.
10 Dal ’77 in poi, Erre Emme edizioni, Roma 1997; Per una critica del ’68, Massari editore, Bolsena 1998.
11 P. Bernocchi, Vogliamo un altro mondo, Datanews, Roma 2008, p.41.
12 P. Bernocchi, Per una critica del ’68, op. cit., pp. 59-60.
13 A. Illuminati, Sociologia e classi sociali, Einaudi, Torino 1967, pp.78-9.
14 Charles Wright Mills (Waco, 1916- West Nyack, 1962) è stato uno dei più autorevoli sociologi statunitensi del secolo scorso. Ha analizzato in profondità la struttura del potere negli Stati Uniti, così come emersa dopo la Seconda guerra mondiale; e in particolare ha messo in luce, soprattutto in Le élite del potere, la crescente concentrazione dei poteri nelle mani della triade economica, politica e militare che, grazie anche all’inglobamento totale dei sindacati e la realizzata subordinazione piena dei lavoratori, smentiva nei fatti sia la divisione dei poteri sia l’effettiva libertà nelle società “democratiche” capitalistiche. Contemporaneamente, Wright Mills ha descritto, in particolare in Colletti bianchi, la progressiva trasformazione della middle class statunitense in un insieme di ceti sempre più subordinati al comando economico-politico-militare e sempre più simili alle classi salariate e del lavoro dipendente. Se ci si aggiunge una sua spiccata simpatia per la Rivoluzione cubana (che riteneva potesse partorire un terzo modello di società, né capitalista né comunista) e per alcuni movimenti di protesta in America Latina, si può capire perché venisse considerato “uomo di sinistra” negli Usa e, malgrado fosse morto prematuramente sei anni prima, la Cia lo ritenesse nel 1968 uno dei maggiori ispiratori dei movimenti giovanili e studenteschi di protesta negli Stati Uniti e nel mondo occidentale.
15 C. Wright Mills, White Collar, New York 1951, pp. 71-75.
16 P. Bernocchi, Benicomunismo, Massari Editore, Bolsena 2012, pp. 99-100.
17 Ibidem, p. 100.
18 K. Marx – F. Engels, Manifesto del Partito Comunista, Editori Riuniti, Roma 1971, p.69.
19 Si tratta delle due leggi fondamentali che hanno ingigantito e legalizzato le più varie forme di lavoro precario in Italia, spesso sanzionando con la precarietà anche forme di lavoro assolutamente continuative, non autonome ma pienamente subordinate al comando di azienda. La prima è stata varata dal primo governo Prodi, di cui Treu era ministro del Lavoro; la seconda, sulla quale aveva lavorato come principale consulente soprattutto il professor Biagi, ucciso poi dalle Brigate Rosse, è stata invece un parto del secondo governo Berlusconi. Dopodiché, in Italia il cosiddetto lavoro atipico, con una sterminata tipologia di nuove modalità precarie, è divenuto così tipico da coprire circa i tre quarti delle nuove assunzioni nel primo decennio del Duemila e a fine 2013 i precari, tra i lavoratori dipendenti erano considerati almeno 5 milioni, senza considerare la precarietà dei cosiddetti “indipendenti” o “autonomi”.
20 Giorgio Cremaschi, in Un altro mondo in costruzione, Aa.Vv., Baldini-Castoldi, pp.24-33.
21 Piero Bernocchi La precarietà del lavoro mentale flessibile, in Vecchi e nuovi saperi, AA.VV, Ed. Cesp-Cobas, Roma 2001, pp.13-14.
22 Sono le due leggi del primo governo Prodi (la Turco-Napolitano) e del secondo governo Berlusconi (la Bossi-Fini) che, varate formalmente per regolare l’immigrazione in Italia, in realtà sono state e vengono tuttora usate per criminalizzare vaste fasce di migranti e renderli molto deboli verso l’imperio padronale – e non solo, visto il diffusissimo uso privato e per le attività di cura che persino settori popolari ne fanno un po’ ovunque nel Paese – che delle loro forze-lavoro ha assolutamente bisogno ma che le pretende sostanzialmente indifese.
23 Alain Morice, La modernità del lavoro migrante, tradotto in Le trasformazioni del lavoro, ed. Cobas, novembre 1997.
24 E’ sempre bene ripetere che la distinzione tra lavoro manuale e mentale (o intellettuale, o cognitivo) va presa con la dovuta cautela – così come quella tra produzione immateriale e materiale. Se già nell’Ottocento “manuale” qualsiasi lavoro materiale pretendeva comunque una più o meno significativa partecipazione mentale, ancor più oggi l’integrazione tra le due forme di lavoro e di produzione è sviluppata ed avanzata. Pur tuttavia, la distinzione resta utile perché vogliamo così intendere la prevalenza di una modalità sull’altra: e ad esempio tra un insegnante “mercificato” di inglese e un operaio alla catena Fiat le differenze in tal senso sono ancora rilevabili; come quelle, per tornare ai casi citati di produzione di profitto aziendale, tra un informatico di Google ed un operaio della Toyota.
25 P. Bernocchi, Benicomunismo, op. cit., pp.62-63.
26 Ibidem, pp.64-65.
27 Ibid., pp.65-66.
28 Federico Rampini, Web Power, in La Repubblica, 21 febbraio 2014.
29 Marco Lodoli, Peppa Pig, in La Repubblica, 21 febbraio 2014.
30 P. Bernocchi, Benicomunismo, op. cit., pp. 80-83.
31 Ibidem, pp.84-85.
32 Ibid, p.84.