Sul piano linguistico-formale il compromesso storico tra Dc e Pci venne immesso, con grande clamore, nel dibattito politico italiano e internazionale dal segretario nazionale (lo era diventato il 17 marzo dell’anno precedente) del Pci Enrico Berlinguer con le sue Riflessioni sull’Italia dopo i fatti del Cile1, un lungo saggio pubblicato in tre puntate su Rinascita a partire dal 28 settembre 1973, a proposito di quali insegnamenti l’Italia e il Pci dovessero trarre dalla tragica esperienza del governo socialista di Salvador Allende in Cile, stroncata l’11 settembre dal golpe voluto dagli Stati Uniti e attuato dal generale Pinochet il quale, dopo una feroce repressione e svariati crimini, avrebbe retto il potere dittatoriale nel paese fino al 1990. In concreto, il succo del ponderoso scritto berlingueriano era traducibile in una proposta di governo di unità nazionale insieme alla Dc, motivata dalla convinzione che l’Italia, a causa dei forti conflitti sociali nel Paese e dell’operare della “strategia della tensione” con le ben note “stragi di Stato” e attivazioni fasciste dentro e fuori gli apparati statali, e la contrapposta nascita di strutture clandestine di sinistra predicanti la lotta armata, corresse rischi analoghi a quelli che avevano portato alla fine della democrazia in Cile. Analisti e storici di oggi sostengono che in realtà il golpe cileno venne usato dal Pci per cercare di cancellare quella conventio ad excludendum, dovuta alla situazione internazionale e ai vincoli – fino a quel momento accettati dal Pci – imposti dal Patto di Jalta e dalla spartizione del controllo sull’Europa tra Usa e Urss, e poter così accedere al governo come un partito “normale”, che costituiva pur sempre la seconda forza politica del paese.
“Il compromesso storico rappresentava…la ricerca di una legittimità repubblicana che era parte fondamentale del Dna del Pci da decenni, perché il partito desiderava uscire dal ruolo subalterno cui era condannato dalla guerra fredda. Questo tentativo di uscire dalla “conventio ad excludendum” (patto di esclusione del Pci dal governo) traeva forza dalle conclamate tradizioni repubblicane del partito. Sia la svolta di Salerno2 sia l’apertura di Togliatti ai cattolici3 offrivano dei chiari precedenti»4.
In tale prospettiva, Berlinguer, sia nel saggio suddetto sia in altri scritti e discorsi dell’epoca, sosteneva la volontà del Pci di svincolarsi in qualche modo dalla sudditanza al campo sovietico e di essere riconosciuto a livello internazionale come una forza pienamente inserita nel campo “occidentale”. Ma le cose stavano davvero così? Nel precedente capitolo, ho esposto il mio punto di vista a proposito della collocazione storica del Pci nel dopoguerra, dei suoi indissolubili legami con l’Urss e della sua accettazione piena proprio di quei vincoli che, almeno dal 1973 al 1979, Berlinguer sembrò voler recidere, oltre che dei conseguenti rapporti politici con la Dc e sociali con il mondo cattolico. Scrivevo che, trovandosi l’Italia, nella spartizione dell’Europa decisa con il Patto di Jalta, nel campo assegnato agli Stati Uniti, quel “compromesso storico” che Berlinguer propose pubblicamente tra il 1973 e il 1979 era in realtà operante dalla fine della guerra. La Dc garantiva gli Stati Uniti, il Pci garantiva l’Urss, affinché in Italia, seppur restando essa nell’area controllata dagli Stati Uniti, l’Urss potesse avere sempre un’arma a disposizione nel caso la situazione geopolitica avesse avuto sviluppi imprevedibili. D’altra parte, se il Pci avesse voluto rompere davvero con lo stalinismo e con l’Urss dopo la morte di Stalin, lo avrebbe potuto fare in ben due occasioni, entrambe clamorose, in cui il ripensamento sulla trentennale subordinazione all’Unione Sovietica avrebbe avuto il massimo risalto e avrebbe garantito al Pci l’ingresso in pompa magna nel “campo occidentale” protetto e gestito dagli Stati Uniti: l’invasione da parte delle truppe sovietiche dell’Ungheria nel 1956 e della Cecoslovacchia nel 1968. Ho già trattato nei precedenti capitoli come invece successe l’opposto: la difesa della prima invasione sovietica nel 1956 da parte del Pci fu totale e senza riserve e gli costò addirittura la rottura di quel Patto d’unità d’azione con il Psi che aveva retto durante la Resistenza e nel dopoguerra e che vedeva i due partiti ancora uniti a metà degli anni ’50; nonché un forte isolamento (anche elettoralmente: alle Politiche del 1958 il Psi superò il 14%, mentre il Pci restò bloccato al 22%); e nemmeno nel 1968 ci fu quella rottura netta con l’Urss che avrebbe permesso la riapertura di un rapporto unitario con il Psi e, almeno in teoria, una prospettiva a medio termine di governo di sinistra, tenendo conto che nelle elezioni di quell’anno comunisti e socialisti insieme ottennero più voti della Dc (41,5% contro 39%).
In verità – e ho cercato di spiegarne i motivi nel capitolo precedente – il Pci, al di là delle successive e apparenti velleità berlingueriane, non ha mai voluto o potuto realizzare davvero una rottura con l’Urss e con il “socialismo reale”: e nemmeno ha mai lavorato per costruire l’unità, o almeno un’alleanza stabile, dei partiti della sinistra istituzionale (né tantomeno con forze alla sua sinistra), avendo invece come stella polare, almeno fin dal 1944 (cfr. la già citata “svolta di Salerno”), una forma, seppur mutevole negli anni, di compromesso politico permanente con la Dc (fino all’ipotesi dell’alleanza di governo tra il 1973 e il 1979) e di compromesso sociale tra comunisti e cattolici, vero “tormentone” della strategia politica del Pci nel dopoguerra. Ho già accennato nel capitolo precedente a quanto di effettivamente comune ci fosse tra i due mondi, e quanto i cosiddetti catto-comunisti dell’epoca li rappresentassero piuttosto bene entrambi e sapessero come tra i due popoli non fosse poi così difficile confondere o mescolare cristianesimo e comunismo, Cristo e Marx, Vangelo e Manifesto del Partito Comunista, in una sorta di sincretismo popolare tra le due “fedi”. Come già detto, tra le principali ragioni, che impedirono una qualche reale alleanza tra il movimento studentesco del ’68 e il Pci, ci furono due visioni – una, quella del movimento, diffusasi rapidamente nella società – incompatibili a proposito di libertà e diritti civili, costumi e modi e stili di vita. La “rivoluzione sessuale” auspicata e praticata dal Sessantotto, la massima apertura in materia alle scelte di ognuno/a, lo “sdoganamento” dell’omosessualità (il femminismo era ancora in nuce), la critica dei vincoli matrimoniali e della famiglia tradizionale, la contestazione delle regole di vita cattoliche e delle gerarchie vaticane, risultavano materiali indigeribili per un partito anche puritano e bacchettone nel suo gruppo dirigente che, fin dall’inserimento togliattiano dei Patti Lateranensi nella Costituzione, aveva fatto della ricerca dell’intesa con il mondo cattolico la bussola del proprio agire nel sociale, nel politico e nel culturale.
La legge e il referendum sul divorzio
Quanto il Pci avesse a cuore il rapporto con il mondo cattolico lo si vide nella vicenda della legge sul divorzio e nel successivo referendum, nel periodo che andò dal 1970, anno dell’approvazione della legge, fino al 1974 quando la parte più conservatrice e reazionaria della Dc, d’intesa con le gerarchie vaticane, promosse il referendum abrogativo della legge. Ricordo che, nell’immediato, la legge sul divorzio faceva parte di una più ampia strategia del Partito radicale per «rivitalizzare il laicismo con una politica di riforme che trovasse le sue radici e la sua forza nella società e sfidasse apertamente gli equilibri esistenti, gli ostacoli e i veri derivanti sia dalla partecipazione dei partiti laici ai governi presieduti dalla Democrazia Cristiana sia dalla politica dell’unità nazionale perseguita dai comunisti; una politica di chiara alternativa alla Dc, fondata sull’affermazione dei diritti civili, con al centro l’obiettivo di introdurre in Italia, come in tutti i paesi democratici, il divorzio»5. In realtà, però, la proposta di introdurre il divorzio nella legislazione italiana aveva precedenti ascrivibili al Partito Socialista, anche se, andando molto a ritroso, il primo a depositare in Parlamento nel 1878 un progetto di legge sul divorzio, avanzatissimo per l’epoca, fu uno straordinario personaggio che avrebbe meritato ben maggior fama, il parlamentare salentino Salvatore Morelli, che le femministe americane giudicarono il loro«più prezioso alleato nel mondo». Non se fece ovviamente niente, come per altri nove successivi nella prima metà del Novecento, sino al 1954-1958 quando il progetto, decimo della serie, firmato dai socialisti Sanzone e Giuliana Nenni, suscitò per quattro anni vivaci discussioni, annullate però con la fine della legislatura. Ci volle la “tigna” di Loris Fortuna, socialista anch’esso, che fece ripartire il progetto nel 1965, oltre all’impegno martellante dei radicali, e di Pannella in primo luogo, che miravano a proporre una più ampia alleanza tra radicali, socialisti e comunisti – e soprattutto i cambiamenti epocali, culturali e sociali in atto – per arrivare finalmente al traguardo nel dicembre del 1970.
Ma le resistenze del Pci furono notevoli: il Partito comunista temeva di sfidare non solo i cattolici in generale ma quelli che votavano sovente comunista e anche quella parte della propria base che, pur non essendo formalmente dipendente dai precetti del cattolicesimo, aveva pur sempre una visione della famiglia non meno tradizionale di quella di tanti cattolici praticanti, soprattutto – così almeno pensavano i dirigenti del Pci – nel Sud Italia e particolarmente in regioni dove ancora esistevano e venivano messi in opera il “delitto d’onore” e il “matrimonio riparatore”6, due obbrobri che furono eliminati dal Codice penale solo nel 1981 (mentre solo nel 1969 la Corte costituzionale aveva cancellato come “delitto” penale l’adulterio). In realtà, il gruppo dirigente del Pci, oltre a questo timore storico di rottura con il mondo cattolico, e malgrado la sua tanto orgogliosamente rivendicata capacità di “leggere la società”, aveva perso di vista le profonde trasformazioni della società italiana che invece i radicali e altre componenti laiche e socialiste avevano letto e compreso meglio.
«Era in atto un fenomeno nuovo che era la conseguenza del profondo mutamento del sistema economico e produttivo: con la liberalizzazione degli scambi sia la ricostruzione post-bellica sia il processo di industrializzazione avevano subito infatti un’impennata che provocò, dal 1945 al 1965, lo spostamento del 20-30% della popolazione dell’agricoltura all’industria e ai servizi, dal Mezzogiorno al settentrione, dalla campagna alle città. Nell’arco di una generazione, il Paese aveva dovuto affrontare trasformazioni sociali, culturali, perfino antropologiche, che altri paesi europei avevano conosciuto nell’arco di uno o due secoli. Di questo sconvolgente processo di trasformazione la famiglia italiana fu la prima vittima, e soprattutto lo furono le famiglie dei ceti più deboli ed esposti. L’indissolubilità del matrimonio, lungi dal salvaguardarla, produsse uno stuolo di separati e separate, di famiglie di fatto, di “fuorilegge del matrimonio” privi di ogni diritto»7.
Il gruppo dirigente del Pci non aveva capito le profonde trasformazioni economiche, sociali ma anche di costume e di moralità, che nell’ultimo periodo – al seguito dei mutamenti strutturali citati ma anche dell’impatto ideologico e culturale esercitato sulla società da parte dei movimenti studenteschi e operai del biennio ’68/’69 – avevano coinvolto milioni di comunisti e di cattolici, che non erano più, in maggioranza, quelli/e degli anni ’50 o della prima metà degli anni ’60. Cosicché, il Pci provò a fare resistenza fino all’ultimo, arrivando a chiedere, come ultima ratio per ritardare i tempi della legge o farla saltare, che prima di vararla si procedesse ad una riforma generale del sistema familiare. Ma alla fine, il 1°dicembre 1970, alle 5,40 del mattino dopo 18 ore consecutive di seduta parlamentare, la legge 898, la cosiddetta Fortuna-Baslini (dal nome dei due primi firmatari, socialista l’uno, liberale l’altro) sul divorzio (anche se questo termine nel testo di legge non appariva, sostituito da un più blando “scioglimento del matrimonio”), pure con la firma per il Pci di Nilde Jotti, venne approvata in via definitiva dalla Camera con 319 voti favorevoli e 286 contrari, Ciò malgrado, il gruppo dirigente del Pci non parve avere imparato moltissimo dall’intera vicenda. Il timore della rottura irreparabile con la Dc e soprattutto con il mondo cattolico che, appunto, si considerava essere ancora fermo agli anni ’50, spinse ad esempio Berlinguer (non ancora segretario del Pci), pochi giorni dopo il varo della legge, a prendere sull’Unità le distanze dagli “entusiasmi” di socialisti e radicali, affermando – e con ciò riproponendo alla Dc un negoziato per modifiche alla legge – che il Pci non avrebbe seguito o assecondato «le storture, le esasperazioni settarie, le irresponsabili provocazioni di gruppi anti-clericali»8, mentre Aldo Tortorella puntò il dito contro quei «servi dei padroni…intenzionati ad ostacolare la politica dell’incontro e del dialogo con i cattolici». Cosicché, quando il 19 giugno dell’anno seguente Gabrio Lombardi, a nome dei Comitati civici e di altre organizzazioni cattoliche spinte da papa Paolo VI e con il sostegno della Dc più conservatrice guidata dal segretario Amintore Fanfani, presentarono alla Corte di Cassazione un milione e trecentomila firme per chiedere il referendum abrogativo della legge sul divorzio, e soprattutto quando la Corte ne fissò la data di effettuazione per l’11 giugno 1972, i dirigenti comunisti si attivarono freneticamente per cercare una mediazione con la Dc al fine di evitare un referendum che temevano – sempre in preda ad una lettura della società e del mondo cattolico oramai obsoleta – di perdere anche piuttosto nettamente, soprattutto al Sud. Nel Comitato Centrale del Pci (26-29 settembre 1971), Berlinguer, in particolare, perorò la necessità di un accordo con la Dc per evitare un referendum che a suo parere avrebbe «coagulato le forze più retrive del Paese..dato forza ai fascisti…e costituito una minaccia reazionaria». Tanta era la volontà di bloccare il referendum da parte del gruppo dirigente del Pci che Franco Rodano, l’alfiere storico e principale esponente del cattocomunismo italiano9, propose l’assurda idea di mantenere la legge ma accompagnandola con non meglio specificate sanzioni amministrativi nei confronti di chi ne avrebbe fatto uso; mentre lo stesso Berlinguer tentò ulteriormente di trovare una soluzione prima con un dialogo insistito con Aldo Moro e poi persino cercando un “abboccamento” diretto con Paolo VI. Provvisoriamente, il problema venne rinviato perché il 28 febbraio, dopo l’incapacità del governo monocolore Dc di Andreotti di ottenere la fiducia dal Parlamento (e dopo la fine del precedente governo di centrosinistra con il ritiro della delegazione del PRI), il presidente della Repubblica Giovanni Leone (che era stato eletto alla fine dell’anno precedente) sciolse le Camere per la prima volta nella storia della Repubblica e convocò nuove elezioni, rinviando nel contempo il referendum. Che venne poi nuovamente convocato solo due anni dopo, il 12-13 maggio del 1974. All’epoca, anche il gruppo dirigente del Pci dovette convenire che non gli sarebbe più stato possibile né trovare un compromesso con la Dc (anche perché oramai una parte significativa di essa si era allontanata dalle posizioni più retrive e reazionarie10), né tenere un atteggiamento neutrale. Però soprattutto il segretario Berlinguer, oramai lanciato sul “compromesso storico” che temeva venisse ostacolato da una sconfitta referendaria, cercò di tenere un basso profilo, poiché, mentre nelle dichiarazioni ufficiali esprimeva la previsione che si sarebbe vinto o perso per pochi voti, era invece intimamente convinto che il No avrebbe perso nettamente. Come ha raccontato Chiara Valentini nella biografia del segretario del Pci11, prima di un comizio a Milano a Gianni Cervetti che gli aveva chiesto che risultati prevedesse, Berlinguer rispose: «Meglio che non dica quali sono le mie previsioni, altrimenti scoraggio i compagni»; mentre fu più preciso rispondendo ad analoga domanda di Ugo Baduel, che seguiva il segretario con l’incarico di farne i resoconti quotidiani sull’Unità, «arriveremo al massimo al 35%».
Invece le cose andarono molto diversamente. Al voto partecipò l’88% della popolazione; e il No all’abolizione della legge e il fronte divorzista stravinsero con il 59,3% dei voti, mentre i Sì si fermarono al 40,7. Vennero in particolare smentite anche quelle previsioni che pronosticavano, all’interno del Pci, una netta vittoria degli anti-divorzisti a Sud e nelle isole. Tranne il Molise (dove effettivamente i Sì vinsero con il 60%), in Calabria , Campania e Puglia i Sì non andarono oltre il 52%, mentre il No vinse sia in Sicilia (50,5%) sia in Sardegna (55%); e a Nord e al Centro la vittoria dei divorzisti fu schiacciante con la parziale eccezione di Veneto e Trentino dove il Sì prevalse per un soffio (51%). Insomma, ancor più e meglio dell’approvazione della legge sul divorzio di 4 anni prima, un risultato così clamoroso era la dimostrazione palmare di quanto, in sei anni dal ’68, i messaggi libertari e sui costumi di vita, oltre alle trasformazioni economiche strutturali già citate, avessero cambiato in profondità la società italiana, al punto da spostare, dal Vaticano al progresso civile, tanti milioni di cattolici e cattoliche, e in generale di cittadini e cittadine: cosa incredibilmente non compresa e non prevista proprio dalle due forze, la Dc e il Pci, che si ritenevano depositarie del controllo e della conoscenza delle moltitudini di persone elettoralmente a loro “fedeli”. E mentre a destra Fanfani pagava caro il suo azzardo che gli aveva fatto preconizzare addirittura una riproposizione della schiacciante vittoria elettorale del 1948, Berlinguer e il gruppo dirigente Pci vennero duramente “bastonati”, incredibile dictu, proprio da quel Pier Paolo Pasolini che, come ho descritto diffusamente nel capitolo precedente, era venuto il loro soccorso nei momenti più caldi dei contrasti con il movimento studentesco del ‘68, dimostrando di aver finalmente introiettato, almeno in parte, quei cambiamenti strutturali, culturali e ideologici di larga parte della popolazione italiana che non aveva invece colto sei anni prima. E stavolta, a non apprezzare affatto, anzi a lanciare strali avvelenati contro di lui, fu proprio quella intellighentia comunista, che lo aveva tanto blandito all’epoca della “scomunica” del movimento studentesco. Ecco alcuni stralci dell’articolo che Pasolini scrisse un mese dopo il voto sul Corriere della Sera:
«La vittoria del No è in realtà una sconfitta di Fanfani e del Vaticano ma in un certo senso anche di Berlinguer e del Partito Comunista. Fanfani e il Vaticano hanno dimostrato di non aver capito niente di ciò che è successo nel nostro Paese in questi ultimi dieci anni; il popolo italiano è risultato – in modo oggettivo e lampante – infinitamente più progredito di quanto essi pensassero, puntando ancora sul vecchio sanfedismo contadino e paleo-industriale…Ma bisogna avere il coraggio intellettuale di dire che anche Berlinguer e il Partito comunista italiano hanno dimostrato di non aver capito bene cosa è successo nel nostro paese negli ultimi dieci anni. Essi infatti non volevano il referendum, non volevano la “guerra di religione” ed erano timorosi sull’esito positivo delle votazioni…Gli italiani si sono dimostrati infinitamente più moderni di quanto il più ottimista dei comunisti fosse capace di immaginare»12.
Ma attenzione: malgrado la stroncatura dell’insipienza e ignoranza delle evoluzioni sociali da parte del gruppo dirigente Pci, Pasolini non era per nulla entusiasta del voto espresso dagli italiani, anzi! Vi vedeva già future degenerazioni culturali, sociali, di costume, e da nostalgico passatista del tempo che fu, rimpiangeva ancora una volta la disgregazione della cosiddetta “civiltà contadina” d’antan: che cosa ci trovasse poi di memorabile e di degno di grande rimpianto in quella vita contadina dei decenni (o secoli) precedenti, sinonimo per lo più, almeno in Italia, di miseria diffusa, vita dura, grama e breve, alimentazione povera, appropriazione culturale vicina a zero e costumi familiari non proprio idilliaci, soprattutto per le fanciulle, per me resta un mistero.
«Il 59 per cento dei No non sta a dimostrare, miracolisticamente, una vittoria del laicismo e della democrazia. Niente affatto. Esso sta a dimostrare invece due cose: 1) che i “ceti medi” sono radicalmente – direi antropologicamente – cambiati. I loro valori positivi non sono più i valori sanfedisti e clericali…ma sono i valori dell’ideologia edonistica del consumo e della conseguente tolleranza americana; 2) che l’Italia contadina e paleoindustriale è crollata, si é disfatta, non c’è più, e al suo posto c’è un vuoto che aspetta di essere colmato da una completa borghesizzazione…Il No è stata una vittoria, indubbiamente. Ma la reale indicazione che esso dà, é quella di una “mutazione” della cultura italiana che si allontana tanto dal fascismo tradizionale che dal progressivismo socialista»13.
Dal “compromesso storico” al sostegno al governo Andreotti
Eppure, malgrado il Psi (oltre ai radicali, ovviamente) avesse dimostrato di saper interpretare la società italiana e i mutamenti avvenuti sia nel popolo di sinistra e comunista sia in quello cattolico, e nonostante fosse stato indubbiamente il maggior artefice della promozione o poi della difesa della legge sul divorzio, alla prima verifica elettorale di grande portata, a poco più di un anno di distanza, e cioè alle elezioni regionali del 1975 (il 15-16 giugno) non fu affatto il Partito socialista ad uscire vincitore, anche se incrementò i propri voti, rispetto alla precedente tornata elettorale del 1970, dell’1,5% raggiungendo complessivamente il 12%; ma poca cosa confrontata al vero e proprio trionfo ottenuto dal Pci, che vide aumentare i propri voti del 5,6% arrivando al suo massimo storico del 33,4% ad un passo dal 35,2% della Dc, che aveva perso il 2,5%, superando i dieci milioni di elettori/trici, solo mezzo milione in meno della Dc. Insomma, l’estrema cautela nei confronti della Dc, del Vaticano e soprattutto del popolo cattolico, e malgrado non ne avesse interpretato la volontà reale, pagò sul piano elettorale. E spinse Berlinguer, malgrado notevoli resistenze tra i militanti, gli iscritti/e e anche nello stesso gruppo dirigente, a rilanciare la proposta del “compromesso storico” con democristiani e cattolici. Al proposito, torna la domanda che mi sono già posto, rispondendovi spero in modo inequivocabile nel precedente capitolo, del perché di questa insistenza su un progetto strategico che non aveva fondamento non solo nel quadro internazionale – bloccato dal Patto di Jalta e dalla spartizione delle sfere di influenza tra Urss e Usa – ma neanche nell’umore della maggioranza dei militanti e in buona parte del gruppo dirigente.
Non inganni a questo proposito l’apparente sostegno della sinistra democristiana e la disponibilità formale di Aldo Moro al dialogo (ma non già ad un governo Dc-Pci). Coloro che nella Dc più rappresentavano la fedeltà “atlantica” e il legame ferreo con gli Stati Uniti, come in primo luogo Giulio Andreotti, avevano chiarito cosa ne pensassero del “compromesso storico” fin dalla prima formulazione data alla proposta da Berlinguer nel 1973: «Secondo me, il compromesso storico è il frutto di una profonda confusione ideologica, culturale, programmatica, storica. E all’atto pratico risulterebbe la somma di due guai: il clericalismo e il collettivismo comunista»14. A parte questo segnale incontrovertibile delle intenzioni statunitensi e dei loro rappresentanti in Italia come Andreotti, Berlinguer non poteva ignorare che, potendo avvenire l’ingresso governativo del Pci solo con la sua accettazione piena della Nato e della subordinazione all’egemonia USA, anche il gruppo dirigente sovietico avrebbe fatto carte false per impedire questo connubio “innaturale”. Viene piuttosto da pensare che tra il 1973 e il 1976 Berlinguer, insieme ai suoi consiglieri più fidati e ai “cattocomunismi” in particolare, abbia temuto sul serio l’effetto congiunto delle “stragi di Stato” e della crescente attività armata e terroristica di destra e di sinistra, oltre che la crescita delle mobilitazioni popolari e di piazza, legate alla diffusa e intensa militanza dei gruppi della sinistra antagonista; e che questi fenomeni, uniti alla crescita rilevante dei consensi del Pci, giunto in apparenza oramai ad un passo dal superare la Dc, lo abbiano spinto a mandare, a livello internazionale e nazionale, un messaggio rassicurante del genere: qualora anche superassimo elettoralmente la Dc e si creassero le condizioni per un nostro ingresso al governo, questo avverrà solo con il consenso e la compartecipazione della Dc (e degli Stati Uniti, tramite essa) e giammai ricorrendo ad un governo delle sinistre, che potrebbe provocare meccanismi repressivi simili a quelli visti in opera in Cile.
Non ho elementi concreti (scritti, dichiarazioni, testimonianze probanti) per sostenere questa tesi, ma ricorro ad un ragionamento di stretta logica, che mi porta ad escludere altre possibili interpretazioni a proposito di una linea strategica di impossibile realizzazione e foriera, altrimenti, solo di un autolesionismo incomprensibile. Che, apparentemente, si sarebbe manifestato a breve, prima, durante e subito dopo le elezioni politiche dell’anno seguente (giugno 1976). Elezioni che vennero precedute da una campagna elettorale che fu quanto di più lontano da un clima da “compromesso storico”. Il Pci vi arrivava sull’onda del successo clamoroso alle Regionali del ’75, quando era arrivato ad un passo dal superare la Dc: e la possibilità che nelle Politiche il Pci avanzasse ulteriormente, superasse la Dc e conquistasse lo scettro di primo partito italiano, veniva considerata ipotesi plausibile da parecchi analisti e commentatori, e anche dai gruppi dirigenti dei principali partiti. Cosicché, si assistette ad un revival dei toni truci della campagna elettorale del 1948 da parte della Dc, timorosa di essere scavalcata, e malgrado i presunti “dialoganti” della sinistra democristiana. Altro che “compromesso storico”: mentre Berlinguer e i suoi tennero un profilo basso, caldeggiando «una coalizione antifascista e un governo di unità nazionale per fronteggiare il momento di grave crisi», la Dc, guidata dai settori più conservatori e filo-statunitensi, ritirò fuori la bandiera dell’anticomunismo viscerale, quasi fosse tornato fisicamente Baffone15 a guidare dall’Urss il Pci, presentandosi essa stessa come «l’unico baluardo contro il pericolo rosso». E’ interessare notare come invece si visse quella fase, che sembrava foriera del tanto atteso “sorpasso” elettorale, una parte significativa della base Pci e in particolare quei settori giovanili della Fgci e dintorni che, soprattutto a Nord, avevano tenuto botta ai gruppi della sinistra antagonista e potevano vantare i ripetuti successi elettorali del Pci come riprova che, mentre i “gruppettari” si esibivano in estremismi verbali, il Partito comunista portava a casa risultati concreti. Ed è significativo capire quale fu il clima pre-elettorale tra il popolo comunista per poter leggere bene come mutò bruscamente dopo le elezioni, di fronte ai miseri, e anzi negativi, risultati ottenuti con le elezioni in termini di cambiamenti istituzionali e governativi.
«Noi, la Fgci, gli studenti comunisti, il dialogo con gli estremisti non lo interrompemmo mai, fino al febbraio ’77: alle spalle, sia noi che loro, avevamo il ’68, quelle aspettative e quel clima culturale. Ma noi avevamo trovato la strada per cambiare, senza inseguire sogni generosi ma inconcludenti e senza cadere in pericolosi avventurismi. Questa opzione fu via via sempre più limpida e seducente e raggiunse tra i giovani e gli studenti un consenso di massa…Tutta una cultura sembrava garantire una potente chiave interpretativa del mondo. Leggevamo del “moderno principe” e lo vedevamo inverarsi in un partito vivo, autorevole, in continua espansione. Parlavamo di “riforma morale e intellettuale” e toccavamo con mano il protagonismo operaio e la partecipazione dal basso, il trionfo nel referendum sul divorzio e i primi imponenti, coloratissimi cortei del movimento delle donne. La “via italiana al socialismo” appariva una prospettiva teorica e politica convincente e realistica. Vivemmo dentro quel clima e dentro quell’ebbrezza fino al giugno ’75, fino alla vittoria elettorale del Pci nelle elezioni regionali, anzi, fino alla fine dell’anno. Poi qualcosa cominciò a cambiare, le orecchie più attente avvertirono qualche primo scricchiolio. Di lì a poco fu uno sconquasso»16.
In realtà, gli scricchiolii per il popolo del Pci e per il suo immotivato trionfalismo arrivarono a metà del ’76, mentre lo sconquasso iniziò l’anno successivo. La Fgci dell’epoca dette un rilievo esagerato, credendoli sintomo del peggiorare del clima, ad alcuni insuccessi, seguiti ad apparenti successi, che nel corso dei primi mesi del 1976 la Fgci aveva registrato tra gli studenti. Ne aveva sopravvalutato il consenso quando nella primavera 1975, nelle prime elezioni dei rappresentati studenteschi nel quadro dei Decreti Delegati, le liste sostenute dalla Fgci ottennero la maggioranza- e lo stesso accadde per gli analoghi e nuovi organismi universitari – solo perché i gruppi della sinistra antagonista boicottarono le elezioni, rifiutando quel tipo di rappresentanza delegata, mentre la Fgci (al momento forte di 150 mila iscritti/e in tutta Italia) lanciava gli OSA (Organismi studenteschi autonomi). Solo che, da una vittoria formale e comunque effimera, la Fgci aveva tratto conclusioni strategicamente senza fondamento. Infatti, come ricorda il Capelli già più volte citato, la Fgci si mise in testa, a partire da quegli OSA, di poter costruire nelle scuole addirittura una Rete consiliare diffusa in tutta Italia: «Era evidente la suggestione dell’esperienza sindacale, i Consigli di fabbrica. Soprattutto vi era l’idea che anche gli studenti, come gli operai, fossero un blocco socialmente compatto, con una comunanza di interessi da rappresentare»16 . Ma siccome così non era – e così non è neanche oggi – «si aprì una discussione tormentata sui criteri di elezione e fu il primo segno di qualcosa che si stava incrinando: di Consigli degli studenti ne nacquero pochi e quei pochi furono paralizzati, attraversati da incomprensioni e tensioni crescenti tra le forze politiche studentesche»17.
Ma in realtà ben altri erano i guai che attendevano il Pci, perché tutte le contraddizioni, accumulate fin dal 1968, stavano per esplodere, dal momento che tutta la ragionevolezza e la moderazione verso la Dc e verso i poteri istituzionali, e la concomitante “terra bruciata” che, fin dal ’68, la dirigenza del Pci aveva cercato di fare alla sua sinistra, e tutta l’auspicata ricerca dell’abbraccio con la Dc e il popolo cattolico, si infransero – e paradossalmente in coincidenza con il maggiore successo elettorale della storia del Pci – proprio in conseguenza di tale successo. Accadde infatti che le previsioni di una grande avanzata elettorale si realizzò davvero nelle elezioni del 20-21 giugno: alla Camera il Pci fece un enorme balzo in avanti rispetto alle precedenti elezioni – del 7,2% in percentuale – raggiungendo il suo record storico (e che tale sarebbe rimasto) con il 34,5%, più di 12 milioni di voti e 50 deputati in più; appena di un punto in meno fu l’analogo successo al Senato e alla fine il Pci ottenne 75 parlamentari in più. Solo che non si avverò il passo indietro della Dc, in linea con quanto era accaduto alle Regionali e anzi la Dc confermò il 38,7% delle precedenti elezioni, restando dunque il primo partito, e recuperando ben tre punti e mezzo rispetto alle Regionali dell’anno prima. In contemporanea, il Psi, che si aspettava di ottenere il “premio” per la vittoria referendaria sul divorzio, segnò invece il suo minimo storico restando, seppur di poco, sotto il 10%, entrando in crisi insieme al suo rapporto di governo con la Dc; e la stessa cosa successe agli altri piccoli partiti alleati della Dc, ad eccezione del Partito Repubblicano (non serve qui riprendere quanto già scritto nel capitolo precedente sul netto insuccesso, con l’1,5%, della lista di Democrazia Proletaria e della prospettiva “frontista” per arrivare ad “un governo delle sinistre”, da parte dei principali tre gruppi della sinistra radicale).
E qui, di fronte alla presunta impasse nella formazione del nuovo governo (in realtà un ipotetico quadripartito Dc-Psi- Psdi-Pri poteva contare sul 55% dei seggi), il tanto agognato “compromesso storico”, predicato per tre anni da Berlinguer e mai davvero digerito dalla base comunista e neanche da una parte del gruppo dirigente, partorì il “topolino” che avrebbe stoppato, e per sempre, le velleità governative del Pci: Berlinguer infatti accettò di offrire l’appoggio esterno ad un governo di solidarietà nazionale che, al di là della formula roboante, in concreto era un monocolore Dc, addirittura guidato da Giulio Andreotti, colui che fin dal 1973, alla prima apparizione della proposta berlingueriana, l’aveva bocciata sonoramente, come ho ricordato in precedenza; e che era considerato comunemente “l’uomo degli americani in Italia”. Insomma, se Berlinguer, consentendo con l’astensione del Pci il varo di quello che grottescamente venne chiamato il governo della non-sfiducia, voleva cercare di tranquillizzare la Dc e, tramite essa, gli Stati Uniti, non poteva far di meglio. Solo che, come si sarebbe visto più avanti, non ci riuscì: e in compenso ottenne il risultato di agitare negativamente la base comunista come forse era successo solo dopo il XX Congresso del Pcus e la destalinizzazione. E credo che i ricordi di Capelli ci possano ancora aiutare a farcene un’idea di massima:
«Comincia la stagione politica della “non sfiducia”, dell’”astensione” ai governi Andreotti.Un cambio brusco, radicale, di clima politico: dopo una lunga, montante euforia, ci si addentrava in una estenuante attesa che per moti significò da subito un brusca disillusione . Le grandi speranze che si erano riversate sul Pci avevano portato solo ad un’astensione ad un governo diretto dall’uomo che più di ogni altro impersonava la continuità del sistema democristiano. La delusione fu forte, tra i giovani il cambiamento di clima fu tanto rapido e immediato quanto palpabile»18.
E dopo che la “montagna” della lunga marcia, pluridecennale, di avvicinamento al governo e alla intesa con il popolo democristiano aveva partorito il “topolino” della non-sfiducia ad un governo Andreotti, indiscutibile totem della Dc e del “partito americano”, il popolo comunista arrivava nelle peggiori condizioni alle ancor più dure prove dello scontro con il “terribile” Movimento del ’77, nei cui confronti sarebbe passato, dal disinteresse o contenuta ostilità verso la sinistra extraparlamentare degli ultimi anni, alla diretta e consapevole guerra verso quel che si sarebbe mosso in quell’anno fatidico alla sua sinistra. Per poi arrivare, dopo un anno di conflitto asperrimo con il movimento del Settantasette, in stretto contatto operativo con gli apparati repressivi statali, ad assumersi in prima persona anche la responsabilità della “intransigenza” più ottusa di fronte all’evento più traumatico del dopoguerra italiano, il rapimento e l’uccisione, da parte delle Brigate Rosse, di Aldo Moro e della sua scorta.
Note
1 Il saggio di Berlinguer venne pubblicato suddiviso in tre articoli: Imperialismo e coesistenza alla luce dei fatti cileni, Rinascita n.38, 28 settembre 1973; Via democratica e violenza reazionaria. Riflessione sull’Italia dopo i fatti del Cile, Rinascita n.39, 5 ottobre 1973; Alleanze sociali e schieramenti politici, Rinascita n.40, 12 ottobre 1973.
2 Per quel che riguarda il significato generale e le implicazioni politiche nazionali e internazionali della cosiddetta “svolta di Salerno”, rimando al capitolo sulla Resistenza.
3 L’accordo tra Stato e Vaticano, noto come Patti Lateranensi, venne stipulato da Mussolini nel 1929 e prevedeva tra l’altro il riconoscimento del Vaticano come Stato indipendente e un concordato grazie al quale la religione cattolica veniva considerata come «sola religione dello Stato». Nel 1946, i membri dell’assemblea Costituente, dopo lunga discussione e grazie ai voti del Pci, decisero di inserire i Patti nell’art.7 della Costituzione, malgrado l’imposizione della religione cattolica come sola religione di Stato fosse in palese contraddizione con l’art.3 che prevedeva l’eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge «senza distinzioni di sesso, razza, lingua, religione».
4 David Broder, La morte di Aldo Moro e la possibilità di un nuovo compromesso storico, www.internazionale.it, 15 marzo 2018. Broder è uno storico inglese, che si è occupato in particolare del comunismo italiano e francese.
5 Gianfranco Spadaccia, Legge sul divorzio, 50 anni fa l’approvazione dell’idea di quei pochi che avevano capito il Paese, Il Riformista, 1 dicembre 2020.
6 Il cosiddetto “delitto d’onore”, introdotto con il Codice Rocco nella giurisprudenza italiana, costituiva l’art.587 del Codice penale, in vigore fino al 1981 quando venne abolito. L’articolo stabiliva che «chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia, della sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onore suo e della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni». La stessa pena era prevista per chi avesse ucciso «la persona che sia in illegittima relazione col coniuge, con la figlia, con la sorella»: insomma, una pena assurdamente irrisoria rispetto a quanto lo stesso Codice prevedeva (e prevede) per l’omicidio volontario, cioè non meno di 21 anni. In quanto al “matrimonio riparatore” l’art.544, fino alla sua abrogazione sempre nel 1981, estingueva i reati di rapimento, percosse, violenza carnale/stupro (ai danni anche di minorenni), a patto che il responsabile sposasse la vittima. Fece grande scalpore, al proposito il rifiuto del “matrimonio riparatore” da parte di Franca Viola, una ragazza di Alcamo di 17 anni, che il 26 dicembre 1965 venne rapita da un ex-fidanzato mafioso che non voleva più sposare dopo averne appreso la condotta delinquenziale, violentata e tenuta prigioniera per una settimana. Franca Viola fece arrestare il delinquente e i suoi complici e divenne simbolo di un mutamento profondo che si stava avviando nella coscienza civile italiana, soprattutto nei confronti della condizione della donna in Italia.
7 G. Spadaccia, op.cit.
8 E. Berlinguer, l’Unità, 6 dicembre 1970
9 Franco Rodano era stato il principale fondatore del Partito Comunista Cristiano, seguito poi dal varo nel 1943 del Movimento dei cattolici Comunisti, e nel 1945 sostituito dal Partito della Sinistra Cristiana; tutte strutture che vennero sciolte, quando Rodano decise che la questione “storica” dell’incontro tra cattolici e comunisti doveva essere compito del Pci, entrando dunque nel Partito comunista e scalandone rapidamente le gerarchie, fino a divenire più tardi uno dei principali “consiglieri” di Enrico Berlinguer.
10 Per il No e per il mantenimento del divorzio si schierarono molti democristiani importanti e celebri, tra i quali Romano Prodi, Raniero La Valle, Arturo Parisi, Ermanno Gorrieri, Tiziano Treu, Luigi Gozzini, Leopoldo Elia, Piero Pratesi, Pietro Scoppola, Luigi Macario, Luigi Pedrazzi.
11 Chiara Valentini, Berlinguer, Feltrinelli, Milano, 2014.
12 Pier Paolo Pasolini, Gli italiani non sono più quelli, Corriere della Sera, 10 giugno 1974; e anche in Scritti corsari, Garzanti, Milano, 1975.
13 Ibidem
14 Oriana Fallaci, Intervista a Giulio Andreotti (dicembre 1973), in Intervista con la storia, Milano, 1974
15 Adda venì baffone è un popolarissimo detto napoletano, poi diffusosi in tutta Italia, che cominciò a circolare a Napoli verso la fine della Seconda guerra mondiale, quando la gran parte della popolazione, al di là delle opinioni politiche, voleva solo che la atrocità belliche e le privazioni finissero. Il riferimento era a Stalin (che in seguito venne chiamato spesso Baffone nel linguaggio popolare) con i suoi vistosi baffoni, quando una parte del popolo sperava che l’Urss fosse un paese dove comandava il popolo e Stalin una sorta di Padre dei lavoratori/trici e non il responsabile di una interminabile serie di crimini. Comunque, l’espressione si usa ancora ogni tanto, svincolata dal riferimento a Stalin, per invocare l’arrivo si qualcuno che “metta a posto la situazione”.
16 Ferruccio Capelli, Il movimento degli studenti e il Pci negli anni incandescenti della solidarietà nazionale e del terrorismo, relazione al Seminario sul movimento studentesco fiorentino, 9-10 maggio 2014, in www.casadella cultura.it Capelli è direttore della Casa della cultura di Milano, e formatore in aziende private e pubbliche, associazioni sindacali e di volontariato. All’epoca dei fatti narrati in questa relazione, era membro della Fgci e successivamente ha militato nel Pci, Pds, Ds e PD.
17 ibidem
18 ibidem