Nel febbraio 2021, al momento dell'”incoronazione” di Draghi a uomo della Provvidenza, salvifico presidente del Consiglio con pieni poteri, scrivevo tra l’altro:

“Nell’Italia del 2021 affidata alla guida apparentemente monocratica di Mario Draghi,  bisogna sfatare un luogo comune tenace: quello della emarginazione/impotenza dei principali partiti di fronte al potere “sovrano” di Draghi. Si fatica a prendere atto di quale sia oggi la vera natura dei maggiori partiti italiani. Essi non hanno più stabili vincoli ideologici, teorici e culturali da rispettare: sono in netta prevalenza macchine di potere, finalizzate a conquistarlo e mantenerlo; e le posizioni ideologiche e politiche sono quasi sempre intercambiabili. Le “creature” provenienti dallo scioglimento del PCI, ad esempio, ne hanno abbandonato del tutto tesi o riferimenti; e negli ultimi due anni l’indefinibile PD di Zingaretti ha inghiottito tutto il possibile: voleva andare alle elezioni nel 2019 dopo il crollo del governo Lega-5Stelle, ma poi si è associato ai tanto (e qui giustamente) vituperati Cinque Stelle; non voleva Conte come presidente del Consiglio e poi lo ha fatto diventare un proprio riferimento. E ora é alla corte di Draghi in attesa di cambiare nuovamente bandiera nel caso le quotazioni del “sovrano” dovessero crollare. Del trasformismo berlusconiano non conta neanche parlare, mentre quello dei 5Stelle, che dovevano “aprire il Parlamento come una scatola di tonno” e divenuti oggi i “tonni” più abbarbicati alla “scatola”, batte ogni record: hanno rinnegato tutto, continuando ad espellere chiunque provi a ricordare i principi, pur cialtroni, dell’esordio. La Lega è passata dal sovranismo fascistoide e dalla caccia al migrante all’europeismo. Ma attenzione: preso atto dell’intercambiabilità di tesi e programmi all’interno dei partiti, guai a sottovalutare quanto potere resti in mano ad essi, potere che hanno tutta l’intenzione di difendere e se possibile di ampliare (e del gioco trasformista fa parte anche Meloni e FdI, che intendono lucrare sul monopolio dell’opposizione, nella certezza che le prossime elezioni saranno vittoriose per il centrodestra e la competizione riguarderà solo la carica di presidente del Consiglio, tra Lega e FdI). L’ingresso in massa dei partiti nel governo non segnala alcuna resa a Draghi, ma solo il desiderio di partecipare da protagonisti alla spartizione del “bottino”, di foraggiare le proprie consorterie, le proprie lobbies sociali…Per chi si fosse fatto fuorviare dall’esaltazione corale ricevuta da Draghi, basterà ricordare che un sondaggio di Demos misurava in un 80% della popolazione i favorevoli al governo del SuperMario Monti di dieci anni fa. Bastarono un paio di settimane e i primi provvedimenti “tosti”, e il consenso tracollò: e al plauso nazionale si sostituì l’avversione e l’ostilità. Per un leader in Italia, niente è peggio del superficiale consenso unanime, della piaggeria e dell’apparente sostegno universale, lesto a trasformarsi nel dileggio e nell’abbandono (vedi le sorti dei Renzi e dei Conte, dei Berlusconi e dei Grillo). Il fatto è che i partiti al governo, invece che preoccuparsi delle sorti dell’Italia, condurranno un anno o due di campagna elettorale permanente, non si occuperanno né dei presunti grandi piani del capitalismo italico (miserabilmente dipendente dallo Stato come nessun altro in Europa) né di grandi riforme strutturali o di qualsiasi mega-progetto che non rientri nei propri ristretti interessi elettorali. Già nella prima settimana di governo, Salvini ha sparato a zero su Draghi in ben quattro occasioni. E ritengo che andrà avanti sempre così: la Lega non vorrà lasciare spazio a  Meloni e romperà le scatole in continuazione, ma di riflesso lo faranno anche i 5Stelle, in fase di disgregazione; e alla fine pure al PD toccherà smettere di provare a fare il collante tra forze non saldabili…Insomma, le luminarie trionfali per Draghi si spegneranno presto” (Il “sovrano” Draghi e l’insopportabile vacuità dei partiti, 22 febbraio 2021, in www.pierobernocchi.it).

La forza del capitalismo di Stato

Aver descritto con buon anticipo quello che sarebbe accaduto nei 17 mesi successivi non mi è stato consentito da una particolare pre-veggenza ma semplicemente dall’analisi di quale sia, in un più ampio quadro mondiale, la consistenza del capitalismo di Stato italiano (il più diffuso ad Occidente, inventato dal fascismo e consolidato dalla DC e dal Pci) e dal conseguente ruolo stabile e centrale dei partiti nella gestione di esso, che nessun potere forte, nazionale o europeo, ha potuto seriamente scalfire.  Lo si è riconfermato anche nella vicenda dell’uso dei fondi del PNRR. A suo tempo facemmo presente che Draghi non sarebbe mai riuscito ad usare la considerevole, e senza precedenti, spesa statale in deficit consentita dalla UE come spesa buona a favore dei settori popolari. E che, anzi, avrebbe dovuto accettare, pena un suo brusco e traumatico allontanamento, che la spesa ingente venisse gestita e divisa tra i principali partiti, calatisi in massa nel governo solo per spartirsi opportunisticamente il bottino, sostenuti dalle inamovibili burocrazie (o borghesie di Stato) incrostate negli apparati istituzionali e dalle miriadi di poteri di interdizione  (e non poteri davvero forti e dominanti, visto che di davvero dominanti – come negli USA o in qualche paese occidentale, o come nelle autocrazie o dittature di tanti paesi – in Italia non ne esistono ), tali, cioè, non da guidare ma da interdire, bloccare, inibire l’azione istituzionale, se contraddetti o emarginati. Sostenevo inoltre (cfr. il già citato “Il ‘sovrano’ Draghi ..”) che i rischi per la giustizia sociale ed economica non sarebbero dipesi dalla sudditanza di Draghi ad un inesistente governo mondiale delle banche o al complottismo della Grande Finanza (che in certi discorsi ricorda una sorta di Spectre, oppure le invettive dell’estrema destra contro le plutocrazie demo-giudaiche) quanto dalla direzione che i partiti, al governo in una grande ammucchiata, avrebbero imposto ai notevoli flussi di denaro a disposizione.
Ma la difficoltà  di riuscire a convincere almeno la “compagneria”, e in particolare i restanti seguaci del comunismo novecentesco, è dipesa, e tuttora dipende, dalla cattiva lettura maggioritaria, perdurante in essa, di cosa sia in generale il capitalismo attuale nei paesi più sviluppati, e in particolare in Italia, La gran parte delle organizzazioni richiamantisi al comunismo ottocentesco e novecentesco hanno ripetuto pedissequamente in questi anni la sorprendente  sottovalutazione, nell’elaborazione stessa dei padri fondatori del comunismo, del ruolo degli Stati come capitalisti collettivi: sottovalutazione che a suo tempo ebbe una sola rilevante eccezione, grazie a quanto Engels, però dopo la morte di Marx, scrisse nell’Anti-Dühring: “Il modo di produzione capitalistico ha cominciato con il soppiantare gli operai, oggi esso soppianta i capitalisti e li relega tra la popolazione superflua…Ma né la trasformazione in società  anonime, né in proprietà statale, sopprime il carattere di capitale delle forze produttive. Lo Stato moderno è una macchina essenzialmente capitalistica, il capitalista collettivo ideale. Quanto più si appropria le forze produttive, tanto più diventa un capitalista collettivo, tanto maggiore è il numero di cittadini che esso sfrutta. Il rapporto capitalistico non viene soppresso, viene invece spinto al suo apice”. E, ad esempio, la Cina attuale rappresenta esattamente il punto più alto di questa spinta verso l’apice capitalistico.  Solo che, a parte questo richiamo engelsiano, in tutta la restante produzione marxiana tale decisiva considerazione è stata generalmente ignorata, così come successivamente in gran parte del pensiero marxista novecentesco, non solo in Italia: con ben poche eccezioni, il ruolo dello Stato, non solo come organo politico di controllo e repressione al servizio dei capitalisti privati (o, più sbrigativamente, “dei padroni”) ma come capitalista collettivo, è stato grandemente sottovalutato.
In verità, fin dall’affermarsi dei primi Stati moderni, il capitalismo non è mai stato affare solo di singoli padroni privati in “libera” competizione per l’accaparramento dei mercati: il liberismo economico integrale, accompagnato dal non-interventismo in economia degli Stati e dalla libera concorrenza pura, è sempre stato un’utopia del capitalismo, un colossale imbroglio teorico e politico per occultare l’unico vero liberismo, quello in materia di sregolato utilizzo della forza-lavoro indifesa. Non è realtà lampante che gli Stati più potenti agiscano in continuazione per distorcere il libero mercato, almeno ora dopo il ciclopico intervento – che ha movimentato cifre colossali e senza precedenti – dei principali Stati nazionali per tamponare la crisi esplosa nel 2008, processo che si è amplificato ulteriormente con il whatever it takes di Draghi e della BCE e con la odierna, ingente massa di denaro messa a disposizione dei principali paesi europei per contrastare gli effetti della pandemia?
Nella realtà concreta, l’unico liberismo vero che i singoli capitalisti hanno sempre cercato di imporre è quello nel mercato del lavoro e nei servizi sociali. Solo in questi campi il padronato privato ha sempre ricercato una concorrenza priva di regole che faccia abbassare il più possibile il costo del lavoro; e analoga  concorrenza senza regole è auspicata nei servizi sociali e pubblici. Solo in tal senso è corretto parlare di neoliberismo: mentre del tutto infondata dovrebbe apparire oramai, soprattutto dopo i titanici interventi statuali anti-crisi del 2008 e a quelli assai ingenti attuali per contrastare gli effetti della pandemia, la tesi secondo la quale il neoliberismo avrebbe ridotto a simulacri gli Stati nazionali. I quali invece non solo conservano ma, dal 2008 ad oggi, hanno piuttosto accentuato le loro funzioni da cervello capitalistico collettivo, in grado di limitare, controllare e incanalare in qualche modo l’”anarchismo” dei singoli capitali privati e le oscillazioni troppo violente dei cicli economici, di effettuare i grandi investimenti a lunga gittata nei settori di sviluppo  ove i singoli capitali mai si impegnerebbero, nonché gli interventi riparatori dopo le crisi.  Insomma, gli Stati (intendo quelli forti ed efficienti) continuano ad adempiere – tanto più ora, di fronte ad una crisi sanitaria, economica ed ambientale dirompente a livello mondiale, accompagnata dalla altrettanto micidiale guerra in Ucraina – agli interventi di supporto, correzione, soccorso e stimolo dell’economia privata, e, più che ridurli, vanno intensificandoli ed estendendoli.

Se il capitalismo ha potuto non solo sopravvivere ma riprendere slancio e forza dopo le due Guerre mondiali, se ha superato anche la Grande Depressione del ’29 e non è stato travolto neanche in questi quindici anni di crisi profonda e prolungata delle economie occidentali, nonchè da più di due anni e mezzo di pandemia, è solo grazie al massiccio intervento dei principali Stati, capitalisti collettivi in grado di immettere tanta ricchezza ricavata dai cittadini/e nel salvataggio dell’intero sistema. Un corrispettivo di questa lettura erronea del capitalismo moderno è stata ed è anche la teoria del governo unico delle banche, cioè del dominio mondiale delle banche e delle cordate finanziarie unite in una Santa Alleanza globale. Teoria fragilissima se solo si pensi che gli enormi interventi che hanno tenuto a galla il capitalismo europeo e statunitense – e che si stanno spendendo per farli sopravvivere anche alla crisi da Covid-pandemia – non sono stati fatti da multinazionali finanziarie private ma da Banche centrali nazionali, dalla Federal Reserve per gli USA e dalla BCE per l’Europa. Impresa che sarebbe stata impossibile per banche e gruppi finanziari privati, oltretutto in una continua e spietata concorrenza tra loro, tra “squali” che, oltre a divorare i “pesci” più piccoli, hanno come imperativo strutturale anche quello di azzannarsi tra loro.

L’estensione del capitalismo di Stato in Italia e il ruolo dominante dei partiti
si può dire che l’ingigantirsi ad Est, nei paesi del “socialismo reale” staliniano, del ruolo dello Stato e della borghesia di Stato (o burocrazia statale) ha provocato nel corso del secolo Ventesimo una catena di fenomeni emulativi ad Ovest e l’ingigantimento delle funzioni di un ceto/classe sociale sempre più ampio. In questo processo l’Italia è stata all’avanguardia. Il fascismo gettò le basi e realizzò negli anni Venti il più esteso capitalismo di Stato dell’Ovest europeo, a partire dall’avvio dell’IRI, che aveva il fine di eseguire la riorganizzazione tecnica, economica e finanziaria delle attività industriali del paese,  di sviluppare l’industrializzazione in grande stile che i privati non potevano accollarsi: e tale intervento determinò una svolta cruciale nel sistema capitalistico, dimostrando la sua efficacia nelle fasi di crisi o di passaggio da un livello produttivo ad un altro. Efficacia confermata ai giorni nostri dalla vistosa crescita, nelle gerarchie economiche mondiali, di paesi come la Cina, l’India, la Corea del Sud, Singapore, Taiwan, Indonesia e Vietnam, paesi caratterizzati appunto da un forte, o addirittura dominante, intervento e controllo dello Stato come gestore del capitale nazionale.

In Italia l’interconnessione tra capitalismo di Stato e privato non solo é sopravvissuta alle disgrazie belliche del fascismo, ma é stata inserita nella Costituzione repubblicana (articoli 41 e seguenti, che sanzionarono la coesistenza di proprietà “pubblica” e privata) e rilanciato dalla DC, tramite strutture  come le Partecipazioni statali, l’ENI, la Cassa del Mezzogiorno, la Gepi, e con il sostanziale consenso dei partiti della sinistra comunista e socialista, fino a fare dell’Italia il paese europeo con il più massiccio intervento statale nell’economia e l’edificazione di un sistema di capitalismo misto (intreccio tra capitalismo di Stato e privato).  Dunque in Italia, ancor più che in altri paesi europei, quel funzionariato dotato di notevoli poteri che gestisce il capitale “pubblico” nazionale convive da tempo con il capitale privato, in forma sostanzialmente pacifica, visto che borghesia privata e di Stato hanno avuto ed hanno interessi non dissimili, per il legame con la crescita del capitale nazionale complessivo, con la penetrazione nel mercato mondiale e la protezione di quello nazionale dai concorrenti esteri, con l’abbassamento del costo del lavoro. Ma a tessere le fila di questo controllo statale sull’intera economia e a sintetizzarne gli appetiti e la distribuzione del conseguente potere, sono stati i partiti principali e più precisamente le centinaia di migliaia di politici, amministratori, gestori del capitale di Stato che hanno occupato tutti i posti di comando ramificati ovunque nella società, e non certo, come teorizza tanta vulgata “di sinistra”, come banali portaborse o portavoce e cani da guardia di un capitalismo privato italiano, di suo da sempre piuttosto cialtrone e arraffone, incapace di camminare con le proprie gambe e sempre bisognoso del soccorso e sostegno statale, per giunta con dimensioni assai ridotte rispetto agli analoghi poteri privati di tanti altri paesi “occidentali”. Conseguentemente alle particolarità pressoché uniche del capitalismo di Stato in Italia e della sua diffusione proliferante, altrettanto singolare, se non addirittura unica, è la presa dei principali partiti su tutte le istituzioni e le strutture economiche e sociali italiane, al punto da giustificare il termine partitocrazia, che soprattutto i radicali diffusero alcuni decenni fa, prima che i Cinque Stelle riprendessero maldestramente tematiche simili, dimostrandosi poi in breve tempo ancora più attaccati al potere partitico dei loro predecessori nella famigerata “scatola di tonno”. Il termine certamente conteneva e contiene elementi di ambiguità e di qualunquismo equivocabile, e personalmente per questo non ne faccio uso corrente. E’ però indubbio che non esiste in nessun paese “occidentale” un tale, diffuso, proliferante e invasivo potere partitico ad ogni livello della società, con una presenza asfissiante nei mezzi di informazione pubblici, nella magistratura, negli apparati economici e via via, dal livello nazionale a quello locale, in ogni ganglio rilevante della vita economica e sociale, facendo del sistema dei partiti – pur nell’intercambiabilità tra governi e opposizioni, pur con i vistosi cambi di pelle e di nome, di ideologia e teorie e programmi, pur con il vistoso scadimento di qualità del proprio personale politico – un potere più forte di quelli che abitualmente sono considerati tali dalla sinistra marxista e conflittuale, dalla Confindustria, al Vaticano (un partitino stalinoide sostiene che siamo addirittura in una Repubblica Vaticana!), dai principali gruppi bancari e finanziari alla magistratura, dai massmedia alle varie mafie e massonerie e consorterie e sociatà più o meno “occulte”, nessuna delle quali davvero in grado di sottomettere i partiti, e non solo in nome del potere politico-statale ma soprattutto proprio in base al peso economico e strutturale dei rispettivi “eserciti” nell’intera società. A tal proposito, nel saggio già citato (“Il ‘sovrano’ Draghi…”) avanzavo un esempio che mi pare tuttora illuminante:

“Carlo Bonomi, il nuovo presidente della Confindustria, da molti/e considerata deus ex-machina e “potere forte” per eccellenza, che farebbe e disferebbe i governi, è assurto alla carica di presidente sulla base del suo ruolo di CEO della Synopo spa, una holding che distribuisce in Italia i prodotti della industria californiana Natus, apparecchiature e strutture tecniche per le cliniche di neurologia, neurochirurgia e riabilitazione sanitaria. Nel 2019 tale holding ha fatturato la risibile cifra di 17 milioni di euro, dando lavoro a circa 3600 persone, mentre Bonomi in tale società per azioni ha immesso la miserabile somma di 31 mila euro (!!), mentre gli utili sono stati di 250 mila euro. Ed ecco un illuminante raffronto con alcune strutture “pubbliche”: il Comune di Torino l’anno scorso ha “movimentato” nel bilancio annuale 1 miliardo e 230 milioni (circa 70 volte tanto la Synopo) con circa 10.500 dipendenti (quasi il triplo); il Comune di Bologna ha messo in campo un po’ più di un miliardo di euro (circa 60 volte tanto) con 4300 dipendenti; senza poi parlare di Milano con i suoi 3 miliardi di bilancio con 16 mila dipendenti e la città-record in materia, Roma, con bilancio di 4 miliardi e 600 milioni di euro e 48 mila dipendenti (per la verità, ad oscurare la holding di Bonomi basterebbe anche il comune di Perugia con il suo “fatturato” annuo di 500 milioni di euro). E a parte Bonomi e la Synopo, è tutta la struttura industriale italiana ad essere poca cosa come fatturato e come occupazione rispetto alle principali strutture statali, regionali e comunali che movimentano cifre assolutamente superiori e danno lavoro a molta più gente: e se questi raffronti non bastassero, ricordo infine che la FCA, la Fiat-Chrisler – che resta sempre la struttura industriale numero uno tra quelle con capitali in gran parte italiani – nel 2018 occupava circa 57 mila persone in Italia, cioé meno dei lavoratori/trici impiegati/e nei due comuni di Roma e Milano”.

E paragoni analoghi, e anche più favorevoli alla forza dei partiti, si potrebbero fare con i vari altri “poteri forti”, o almeno così ritenuti dalla grande maggioranza della sinistra conflittuale, già citati poco fa: nessuno di essi ha oggi un potere sociale e politico superiore o equivalente al sistema dei partiti nel suo complesso (o “partitocrazia”, nella versione, non del tutto peregrina, pannelliana).

Il Draghicidio, le imminenti elezioni e le conseguenze possibili sui conflitti dell’autunno

Ovviamente su queste analisi si possono avere i pareri più disparati. Ma come si fa a non prendere atto di una realtà talmente incontestabile? Tutti quelli che, almeno fino a ieri, erano considerati i “poteri forti” dominanti, nazionali e europei, dalla sinistra conflittuale e dalla compagneria nel suo complesso, erano dalla parte di Draghi, dalla Confindustria al Vaticano, dai “sindacatoni”, seppur con qualche mugugno Cgil, ai grandi gruppi bancari e finanziari; e dalla stessa parte, e a spada tratta, era la leadership della UE, il governo degli USA, e a mio modesto parere persino le Mafie, quelle grosse e quelle piccole, desiderose tutte di mettere le mani sugli enormi fondi in circolazione. E invece è bastato che tre partiti, l’ex-M5S, oramai grottescamente allo sfascio e guidato da un colossale cialtrone come Conte, la Lega salviniana , e neanche tutta ma solo la parte più fascistoide, e Forza Italia, anch’essa nemmeno al completo ma con il Berlusca che vuole tornare in pompa magna sul principale scranno senatoriale, hanno commesso l’inconcepibile Draghicidio, spegnendo la luce, contro ogni previsione della “compagneria”, al Sovrano Draghi – dopo averlo già “trombato” per la carica di presidente della Repubblica – al suo mentore Mattarella, e alla moltitudine dei suoi sponsor nazionali ed esteri. E si andrà ad elezioni dove tali presunti poteri dominanti il Paese potranno ben poco per orientarle, così come i vertici della UE o lo stesso governo USA che, magari dopo aver fatta formale professione di antifascismo, dovrenno prendere atto che a decidere se in Italia da ottobre ci sarà o meno un governo fascistoide saranno i cittadini/e italiani, o almeno quella parte, sempre più risicata di essi/e,che andrà a votare. E quand’anche si prospettasse alla presidenzadel Consiglio una conclamata “fascista storica” con tanto di Fiamma Mussoliniana, nessuna delle operazioni fatte in precedenza, ad esempio contro Berlusconi per sostituirlo con Monti, potrà essere ripetuta: perchè con pandemia ancora in circolazione, guerra in Ucraina in piena attività, inflazione galoppante e carovita, qualsiasi attacco ecconomico-finanziario, diretto o indiretto, contro l’Italia finirebbe per scatenare la tempesta perfetta in grado  di travolgere l’UE, visto che in queste condizioni l’Italia è “too big to fail”, troppo grande per poter fallire senza trascinare con sè l’intera baracca europea.
Dunque mi pare che la sinistra conflittuale, e i COBAS con essa, si debba ppreparare ad un autunno un po’ diverso da quello prospettato fino a qualche settimana fa, ed alla prospettiva, che ora appare largamente la più probabile – a meno di un clamoroso suicidio dei tre partiti coinvolti, che potrebbe darsi solo nel caso Salvini e Berlusconi non accettassero che a guidare il governo sia il/la leader del partito che otterrà più voti o una persona da esso/a delegata – e cioè un governo di destra-destra, guidato da una conclamata fascistoide o da un suo delegato/a. Mi pare che questa realistica prospettiva possa cambiare alcuni tratti del quadro autunnale che ci eravamo fatti fino a qualche settimana fa, a proposito dei conflitti prospettabili per l’autunno. Laddove si pensava alla necessità di intrecciare i conflitti locali, ambientalisti e non, anche circoscritti e settoriali, con la protesta contro la guerra e la militarizzazione, contro l’inflazione, il carovita e il dissesto ambientale ed energetico, penso che vada presa in considerazione l’ipotesi che ci si possa trovare , almeno nei primi mesi post-elettorali, ad un ritorno in grande del conflitto sui diritti civili, sulla sicurezza, sui migranti, sulla difesa delle comunità LGBTQ, dei loro diritti specifici e di quelli delle donne, dei detenuti/e, degli antiproibizionisti ecc., con un coinvolgimento diretto di tanta parte di quei cittadini/e che, pur non attivisti o militanti abituali, pur non impegnati politicamente in maniera stabile, sono però sensibili a tematiche civili, a volte persino più che a questioni economiche o antimilitariste e disposte ad assecondare una protesta generalizzata a carattere antifascista e antireazionaria, che non potremmo e non dovremmo consegnare al ritorno strumentale della pseudo-sinistra sul terreno dell’antifacismo di comodo.
In particolare, questo nuovo quadro impone ai COBAS, all’interno del più ampio scheramento antigovernativo che andrebbe costruito in tempi ragionevolmente rapidi, di precisare meglio le nostre scelte, da fare all’interno delle più ampie coalizioni possibili. Per stilare una traccia di tale percorso, i fatti hanno certo dimostrato l’inconsistenza di programmare scioperi con 4 mesi di anticipo, come fatto finora da gran parte degli altri sindacati di base ad esempio per il 21 ottobre (quando quasi certamente non ci sarà ancora un governo in carica); ma ciò malgrado ci si impone ora di programmare qualcosa di più prevedibile e preciso. SI Si potrebbe prospettare questo percorso:

1) la giornata del Global Strike mondiale e nazionale, ambientalista e climatista, del 23 settembre, verso la quale eravamo già impegnati, si carica di ancor maggiori significati; e noi vi dobbiamo partecipare con delegazioni adeguate nelle varie città, anche se non possiamo permetterci scioperi. E, a due sole giornate dalle elezioni e dunque con la massima visibilità mediatica, vi dobbiamo immettere tutti i temi del conflitto attuale, anche se l’aspetto ambientale sarà preminente ma andrà collegato a guerra (che già dal giorno dopo la caduta di Draghi è stata derubricata a notizia secondaria dalla quasi totalità dei media, e tanto più rischia di esserlo a ridosso delle elezioni), crisi economica ed energetica, inflazione, carovita ecc. Dobbiamo però fare la massima attenzione ai prevedibili ritorni “frontisti” e ai tentativi elettorali di cavalcare la giornata da parte dei soliti noti in tema, peraltro con una certa presa, di antifascismo.
2) Seppure in linea generale resta vero quanto ho scritto sopra su una certa intercambiabilità dei partiti e una loro omogeneità sui temi economici e strutturali, pur tuttavia FdI e Meloni rappresentano una certa anomalia; e non solo perchè sono eredi del fascismo storico con quella fiamma che rappresenta lo spirito mussoliniano che sprigiona dalla tomba del duce. Ma soprattutto perchè, se sul terreno economico possono seguire i mandati dell’UE, sul piano dei diritti civili non sono la stessa cosa dei partiti “progressisti”; e dunque su terreni come lo ius scholae o in genere i diritti dei migranti, delle donne o quelli delle comunità LGBTQ o dei detenuti/e, sull’eutanasia, sulla liberalizzazione delle droghe leggere e su altri temi analoghi entreranno in conflitto serio con tanta parte della popolazione che non è toccata solo dalla guerra e dal carovita ma anche da questi temi, e che è fatta per tanta parte da cittadini/e che di solito non si mobilitano nè sono attivisti in qualche ambito conflittuale sociale. Potremmo dunque aspettarci qualcosa di analogo all’arrivo del primo Berlusconi al governo, con una disponibilità alla protesta che potrebbe andar oltre i temi economici e strutturali. E conseguentemente dovremmo essere in grado di muoverci sul crinale stretto che ci faccia essere  in prima fila nell’opposizione al nuovo governo (continuo ovviamente a  ragionare su una vittoria delle destre e su un governo fascistoide sull’asse FdI-Lega) evitando però la possibile invadenza frontista delle aree di pseudo-sinistra a partire dal PD.
3) Impresa difficile ma non impossibile, dato lo sputtanamento, ben altrimenti avanzato rispetto al 1994-5 e ai suoi progenitori, del PD e dei suoi alleati. Ma questo ci richiede la modulazione degli altri step di mobilitazione autunnale. Alla luce dei prevedibili risultati elettorali, infatti, mi pare che possa divenire più difficile l’idea-base di partire dai conflitti locali e settoriali rinviando a più avanti una grande mobilitazione nazionale, con un appuntamento centrale a Roma. Potrei sbagliare ma, in questo nuovo quadro, mi parrebbe più incisivo, senza ovviamente bypassare e anzi cercando di potenziare comunque gli appuntamenti di settembre e prima parte di ottobre a carattere territoriale e settoriale, puntare ad una grande manifestazione nazionale nella seconda pate di ottobre, che può avere successo e presa di massa anche se il nuovo governo non avrà ancora esplicitato totalmente il proprio programma, per dare un punto di riferimento nazionale non solo alle aree militanti e attive ma anche ad un vasto popolo anti-reazionario disponibile a difendere non solo i diritti economici e sociali ma anche quelli civili. Mentre mi sembra che il momento migliore per uno sciopero generale e generalizzato, che sia davvero tale e non riguardi solo le aree più radicali del lavoro dipendente organizzato, potrebbe collocarsi proprio nella fase di esplicitazione del programma del nuovo governo, e cioè a novembre, al momento della partenza della discussione in Parlamento sulla nuova “finanziaria”.
4) Per tutto questo, però, bisogna riuscire a gettare un ponte tra i sindacati di base, che devono evitare errori di autoreferenzialità che non ci possiamo permettere in questa fase così complessa, la coalizione creatasi intorno a GKN, e più in generale i movimenti e le strutture ambientaliste, antirazziste, antiguerra, centrosocialesche, studentesche, femministe e LGBTQ, antiproibizioniste a anti-autoritarie, che potrebbero finalmente ritrovarsi insieme in una grande coalizione contro il nemico comune. Impresa certo molto difficile, ma la nostra attuale collocazione come Confederazione COBAS, operante più o meno in tutti i settori e movimenti citati come possibili soggetti di una grande alleanza conflittuale, mi fa dire che forse siamo, tutto sommato, in una discreta collocazione almeno per provare a dare corpo a tale tentativo “pontiere”, ovviamente facendo riferimento a tutti gli altri protagonisti disponibili a lavorare per la più ampia coalizione possibile per il conflitto con il probabile governo autunnale.

Piero Bernocchi