Dovendo fotografare con una panoramica d’assieme la storia del Pci negli anni Ottanta, dopo la brusca e rapida cancellazione della strategia del “compromesso storico” – che aveva segnato il fallimento della direzione berlingueriana e della sua velleitaria e mai meglio precisata “via italiana al socialismo”- ci vedo un paesaggio segnato da periodiche sconfitte, di progressiva marginalizzazione e tendenziale irrilevanza di un partito trascinatosi per un decennio senza strategia o serie prospettive nazionali e internazionali che ne giustificasse la pretesa centralità: un partito persino soppiantato nelle gerarchie della sinistra istituzionale – come mai era successo nel dopoguerra – dal Psi di Craxi, malgrado quest’ultimo non avesse un bacino elettorale superiore alla metà di quello del Pci, oltre a un numero di iscritti/e e militanti nettamente inferiore. Soprattutto nella prima metà degli anni Ottanta, il Pci ricevette una serie di mazzate da abbattere un toro, una sequela di sconfitte politiche e di fallimentari invenzioni politico-strategiche che – dalla disastrosa gestione della lotta alla Fiat nell’autunno del 1980 alla micidiale sconfitta nel testardamente voluto referendum in difesa della scala mobile; dalla improvvisa scoperta della questione morale in Italia allo sgretolarsi di costruzioni politiche fantasiose come gli auspicati governi di solidarietà nazionale, o internazionali come il fantasmatico eurocomunismo – ridussero progressivamente, e di molto, la presa del Pci sulla propria base sociale (classe operaia in primo luogo), ma anche su quel mondo culturale che era sempre stato alla sua corte; ed evidenziarono la difficoltà del Pci a comprendere le profonde trasformazioni sociali in atto, ingigantendo oltre misura ad esempio Craxi, un leader spregiudicato e furbo, ma non geniale e nemmeno carismatico come lo era stato a suo tempo Nenni.
La disastrosa sconfitta dei 35 giorni di lotta alla Fiat e il “governo mancato” (1980)
L’8 maggio 1980 la Fiat dichiarò lo stato di crisi e la messa in cassa integrazione per 78 mila operai per otto giorni, dopo che pochi mesi prima (novembre 1979) aveva licenziato 61 operai, che più si erano distinti nelle lotte dell’ultimo anno, e in particolare in quelle del luglio 1979 per la chiusura del contratto: formalmente con motivazioni generiche ma lasciando trapelare, nel gossip sindacal-politico e giornalistico, che si trattasse di lavoratori collegati alle organizzazioni terroristiche. Gossip accompagnato pure da letali dichiarazioni anche di autorevoli esponenti del Pci torinese come ad esempio Adalberto Minucci.
«La Fiat ha l’esigenza di rendere governabile la fabbrica. Credo che in quest’ultima ondata a Mirafiori sia entrato un po’ di tutto, dallo studente al disadattato, si è proprio raschiato il fondo del barile. Una realtà magmatica molto complicata, un porto di mare con gente che entra senza avere dimestichezza né, a volte, attitudine al lavoro»1.
Ma in realtà quello che stava accadendo aveva una portata ben più ampia e, come si sarebbe capito a breve, si inseriva in un grandioso processo di ristrutturazione produttiva, del tutto incompreso non soltanto dal sindacato di fabbrica e da quelli nazionali, ma in primo luogo proprio dal Partito comunista, il quale sembrò ripetere, seppur su scala ben più ridotta e con conseguenze non così tragiche, la stessa incapacità analitica del gruppo bordighian-gramsciano durante il cosiddetto “biennio rosso” (1919-1920) nelle fabbriche di Torino, scambiando per alba gloriosa quello che era un tramonto di un soggetto sociale (al proposito nel mio Dal sindacato ai Cobas2 citai un analogo errore che commettemmo come sinistra antagonista nei confronti degli operai delle grandi fabbriche alla fine degli anni’70, paragonando la luminosità di quelle lotte all’aumento del bagliore delle vecchie lampadine ad incandescenza il cui filamento, poco prima di rompersi, produce un vistoso aumento di luce). In verità, proprio la massima esposizione, durante tutti gli anni ’70 in Italia, della conflittualità operaia aveva provocato una profonda riflessione nei think tank capitalistici, producendo nuovi e ben attrezzati progetti di disgregazione delle stesse fonti – la grande fabbrica sul modello fordista – alle quali si abbeverava la conflittualità operaia.
«La struttura produttiva aveva fatto emergere una nuova figura, l’operaio-massa, che aveva espresso una serie di comportamenti conflittuali, dal rifiuto del lavoro, alla disaffezione, dall’egualitarismo all’antagonismo permanente. Questi comportamenti, in un primo momento, avevano messo in crisi la struttura produttiva capitalistica. Ma in una seconda fase ci fu un violento attacco padronale per distruggere quella figura sociale. Questi furono i passaggi: accerchiamento della grande fabbrica, lavoro nero, economia sommersa, fabbrica diffusa»3 .
Tutti passaggi sui quali – al momento dell’attacco frontale da parte della Fiat, prevedibile avanguardia dell’offensiva padronale – né la Cgil né il Pci berlingueriano (mentre la sua “destra” di fatto condivideva gli inviti di Giorgio Amendola ai sindacati affinché venisse «applicata alla Fiat la linea dell’Eur», cioè la moderazione predicata da Lama, dissociandosi dal «sindacato dei Consigli» e dalla conflittualità operaia diffusa) dettero mostra di aver consapevolezza sufficiente, e men che meno attrezzature politiche e sindacali, per reagire efficacemente, arrivando a dover improvvisare dalla mattina alla sera di fronte ai successivi passaggi aggressivi della Fiat. Cosicché quando, durante le trattative con i sindacati. la Fiat – tra l’8 e il 10 settembre – presentò il proprio piano di ristrutturazione selvaggia che prevedeva circa 15 mila licenziamenti e 24 mila operai in cassa integrazione a zero ore, l’11 settembre la lotta esplose dal basso, scavalcando le direzioni sindacali, con lo sciopero in tutti i reparti e cortei enormi di operai da Mirafiori (dove in testa apparve il ritratto di Marx) al Lingotto; e dal giorno successivo, mentre al tavolo delle trattative la Flm (il sindacato unitario del metalmeccanici) accettava la “mobilità esterna” (licenziamenti mascherati) di migliaia di lavoratori, la produzione venne bloccata in tutti gli stabilimenti. In contemporanea con l’avvio dello scontro frontale tra una classe operaia sfuggita al controllo sindacale e la Fiat, si sviluppava la crisi del secondo governo Cossiga (tripartito Dc, Psi e Pri); e, ripetendo più o meno lo schema del “compromesso storico”, la direzione berlingueriana, forte anche dell’enorme tensione che il conflitto alla Fiat stava riverberando in tutto il paese, si andò convincendo che fosse nuovamente il momento di avanzare la candidatura del Pci a governare. Il 14 settembre, a conclusione dell’enorme manifestazione di chiusura della festa dell’Unità a Bologna (un milione di persone, si disse all’epoca), Berlinguer esternò tale candidatura in modo esplicito, proponendo un nuovo governo, che operasse modifiche radicali alla linea economica, riscrivesse il “decretone” finanziario per l’anno successivo e chiudesse positivamente la vertenza alla Fiat.
«Senza la classe operaia non si governa. Né niente può migliorare alla Fiat se gli operai vengono colpiti e avviliti…Resteremo all’opposizione a qualsiasi governo che non preveda la nostra partecipazione…ma non è possibile governare la crisi senza la forza e le idee del Pci»4.
Testimonianze negli anni successivi da parte di alcuni dirigenti Pci dell’epoca confermarono che la direzione del Pci riteneva davvero possibile l’ingresso al governo e, malgrado i forti dubbi della “destra” interna e di gran parte della Cgil e pure della Flm, si convinse a sostenere e incentivare la lotta operaia alla Fiat credendo di poterla vincere non già sul piano sindacale ma su quello politico, una volta entrati nell’area governativa. E questo, malgrado il giorno dopo il discorso di Berlinguer a Bologna, la direzione craxiana del Psi lo stroncasse brutalmente dalle colonne dell’Avanti, esprimendo chiaramente la non disponibilità dei socialisti, ancor prima della Dc, ad un ingresso del Pci nel governo.
«Quello di Berlinguer a Bologna è stato un discorso senza capo nè coda, un discorso che accentua la radicalizzazione dei rapporti tra partiti, senza indicare soluzioni possibili, riproponendo schemi vetero-comunisti che sembrano raggelare ogni possibile interlocutore»5.
Quanto gli operai della Fiat prendessero sul serio questa dichiarata convinzione del Pci di poter cambiare a breve gli equilibri politici in Italia, al punto da rovesciare anche i rapporti di forza con la Fiat – e malgrado io abbia seguito all’epoca direttamente la lotta – non sarei in grado di dire con certezza: ma di sicuro, e lo si sarebbe visto nell’entusiasmo con cui pochi giorni dopo Berlinguer venne accolto a Mirafiori e a Torino, in molti presero sul serio le dichiarazioni “forzute” della direzione del Pci. Galvanizzati anche da questo sostegno, nei dieci giorni seguenti il blocco della produzione fu totale, con una sorta di occupazione di fatto, trascinando anche i sindacati nazionali a maggioranza comunista (Cgil e Flm) a dare sostegno alla lotta. E il 25 settembre, alla fine di una giornata di sciopero generale nazionale dei metalmeccanici e di sciopero generale di tutto il lavoro dipendente in Piemonte, a Torino oltre un centinaio di migliaia di operai e studenti invasero la città in corteo e gran parte di essi non riuscì neanche a entrare in Piazza San Carlo per ascoltare i comizi finali, che chiesero all’unanimità lo sciopero generale nazionale, mentre, almeno a parole, le direzioni sindacali per la prima volta accettarono che si passasse a formalizzare l’occupazione, di fatto già in opera, della Fiat, qualora i licenziamenti non fossero stati revocati. E il giorno dopo, Berlinguer – come a voler avallare le proposte dell’occupazione della fabbrica e dello sciopero generale – andò in visita agli stabilimenti, parlando alle migliaia di operai che bloccavano la produzione, e poi in serata ad una grande manifestazione a Piazza San Carlo, mettendo in mostra tutte le contraddizioni e l’improvvisazione di un partito oramai da un paio di anni senza alcun strategia di ricambio dopo il fallimento del “compromesso storico”. Accolto da migliaia di lavoratori/trici e portato quasi in trionfo, Berlinguer garantì ripetutamente che il Pci non avrebbe mai accettato alcun licenziamento, aperto o mascherato, appoggiando tutte le forme di lotta decise dalle assemblee operaie e sostenendo la proposta dello sciopero generale nazionale; e lasciò capire che il Pci avrebbe dato pieno appoggio pure ad un’eventuale occupazione totale degli stabilimenti. Lo fece in maniera ancora più esplicita nel comizio che tenne in una Piazza San Carlo piena fino all’inverosimile, rispondendo alle accuse, in verità piuttosto romanzate, che Flaminio Piccoli, a nome della Dc, aveva rivolto al Pci di «scavalcare il potere e le funzioni del sindacato, assumendo un ruolo in contrasto con la natura e i compiti di un partito democratico, con l’assunzione da parte del Pci di una immagine leninista che considera il partito strumento per la dittatura del proletariato». Questa fu la risposta di Berlinguer:
«L’onorevole Piccoli ha commentato gli incontri, che abbiamo avuto con i lavoratori della Fiat e della Lancia e le cose che abbiamo detto durante questi incontri, con affermazioni veramente sorprendenti, che poggiano su evidenti falsificazioni. La nostra posizione è assolutamente limpida e inequivocabile: siamo per una conclusione positiva e rapida di questo acuto conflitto, che escluda i licenziamenti voluti dalla Fiat…Farsesca è l’accusa di aver sollecitato l’occupazione degli stabilimenti. Ai lavoratori abbiamo detto che se, a causa di una perdurante sordità e aggressività della controparte, sarà necessaria un’intensificazione delle lotte, le forme di questa intensificazione dovranno essere decise democraticamente da loro stessi, nelle assemblee, con le organizzazioni sindacali; e se queste decisioni riguarderanno anche forme di occupazioni degli stabilimenti, ovviamente il nostro partito darà il suo pieno appoggio e la sua solidarietà, come partito operaio e come forza democratica»6.
Il giorno dopo due eventi in contemporanea sembrarono premiare l’ostentata “durezza” contro la Fiat e l’altrettanto manifesta sicumera sulla possibilità di pesare in maniera decisiva sulle sorti del governo Cossiga. Quest’ultimo infatti si vide bocciato, dopo aver ricevuto una fittizia fiducia a voto palese, il “decretone” economico-finanziario per un voto di scarto (298 no e 297 sì), con almeno 30 voti contrari provenienti dalla maggioranza: e si dimise. Di converso la Fiat, forse prendendo sul serio la prospettiva di un ingresso del Pci in un governo di “solidarietà nazionale”, fece, almeno in apparenza, un deciso passo indietro, annunciando un «rinvio a fine anno dei licenziamenti per spirito di responsabilità», mentre ribadiva la conferma della cassa integrazione per 24 mila operai. I due eventi congiunti bastarono al Pci per cantare vittoria su entrambi i fronti con toni trionfalistici. Così titolava il giorno dopo l’Unità sui due avvenimenti:«Il governo travolto dal suo fallimento»; «Sospesi i licenziamenti Fiat, è un primo grande successo». Per quel che riguardava il governo, l’editoriale di Alfredo Reichlin riconfermava le dichiarazioni di Berlinguer nei giorni precedenti, centrati sulla convinzione che non si potesse uscire dalla crisi economica senza il Pci al governo.
«La sorte del tripartito era già scritta nel suo atto di origine. Nulla di buono poteva venire al Paese e alle forze popolari da un’operazione nata dalla vittoria della destra dentro la Dc, che tendeva a coinvolgere il Psi in un disegno moderato che, isolando i comunisti, chiudesse ogni prospettiva di partecipazione al governo del movimento operaio unito con tutte le sue forze e le sue idee»7.
Mentre per quel che riguardava il passo indietro della Fiat, ne veniva enfatizzata la portata e la positività del compromesso (i licenziamenti venivano solo rinviati ma soprattutto la cassa integrazione a zero ore e senza rotazioni e senza precisa scadenza assolveva di fatto alla stessa funzione dei licenziamenti), nonché il peso su di esso della caduta del governo e del ruolo del Pci:
«La Fiat convoca una conferenza stampa a sorpresa, deve comunicare una notizia clamorosa: la sospensione dei licenziamenti, spostati alla fine dell’anno…Sul significato politico di questa mossa, non ci sono dubbi, è un successo dei lavoratori, del sindacato e anche del Pci che ha sostenuto fino in fondo la lotta…L’azienda torinese, dopo gli scioperi, dopo l’effetto avuto dalla visita di Berlinguer e dopo una serie di pronunciamenti anche all’interno del governo, si era sentita sempre più isolata. Negli ultimi giorni poi nello staff manageriale erano cominciati dubbi, ripensamenti: si vuole davvero giocare il tutto per tutto, arrivare all’occupazione di Mirafiori e poi a chissà cosa altro? Le dimissioni di Cossiga sono state il colpo finale. La Fiat ha capito quanto si sia indebolito quello schieramento conservatore che avrebbe voluto imporre una lezione al movimento operaio e ai lavoratori. Non se l’è sentita di arrivare fino al limite della provocazione politica»8.
Il Pci sbagliava, e pesantemente, su entrambi i fronti. Così come il gruppo dirigente berlingueriano aveva ignorato due anni prima quanto la sorte del “compromesso storico” fosse legata a quella di Aldo Moro, contribuendo a sacrificarlo alla ragion di Stato pur di togliersi dai piedi le Brigate rosse, così ora dimostrava, inseguendo il sogno dell’ingresso al governo, di non aver capito quanto poco l’obiettivo delle sinistre unite, mai perseguito dal Pci dal 1956 in poi, interessasse ora a Craxi, intenzionato a rendere irrilevante il ruolo del Pci; e men che meno Berlinguer aveva compreso l’intento puramente tattico della Fiat, intenzionata solo a prendere tempo, in attesa del ritorno di un governo analogo a quello appena caduto. Purtroppo il trionfalismo del Pci finì per indebolire la lotta operaia, lasciando credere che il traguardo fosse oramai a portata di mano, proprio mentre si trattava di mettere all’angolo la Fiat e ottenere non solo la totale cancellazione dei licenziamenti ma anche di evitare che le modalità della cassa integrazione finissero per divenire dei licenziamenti “mascherati” e per giunta per 24 mila operai piuttosto che per 14 mila. Già dal giorno dopo infatti, le assemblee operaie, pur decidendo la continuazione della lotta, cominciano a manifestare incertezza rispetto alle trattative riprese a Roma tra Fiat e Flm alla presenza del ministro del Lavoro Foschi. E il 30 settembre, la Fiat, già rassicurata sulla formazione del nuovo governo (che arrivò infatti in un paio di settimane), riprese l’attacco inviando a 22884 lavoratori/trici la lettera con l’annuncio della cassa integrazione a zero ore che colpiva i delegati Flm, gli operai più combattivi, i più giovani e tante donne. In pratica la Fiat annunciava apertamente chi fosse nel mirino per i licenziamenti di fatto, iniziando l’opera di divisione tra i lavoratori/trici.
Il 5 ottobre a Roma si svolse un incontro, che assai probabilmente delineò come si sarebbe conclusa la vicenda, tra Lama, Carniti, Benvenuto (segretari generali di Cgil, Cisl e Uil) e Cesare Romiti, divenuto da tre mesi amministratore delegato unico della Fiat e suo capo incontrastato9: a fare da arbitro/mediatore il ministro Foschi che diede il via libera alla cassa integrazione, accompagnato con alta probabilità da rassicurazioni alla Fiat sull’appoggio anche del prossimo governo; cosicché, il portavoce di Romiti, Annibaldi sfidò il giorno seguente gli operai, annunciando che la Fiat avrebbe proceduto a seri provvedimenti nei confronti di chi fosse entrato in fabbrica non autorizzato. Ma, per il momento, la minaccia non ebbe effetti perché tutti gli ingressi degli stabilimenti vennero presidiati dagli operai che invitavano tutti ad entrare non timbrando il cartellino. Il 7 ottobre, però, cominciò a delinearsi la strategia offensiva più insidiosa: apparve un comunicato di un Coordinamento quadri e corpi intermedi Fiat promosso dal caporeparto Luigi Arisio che denunciava la “violenza” esercitata dagli operai alle porte e invitava alla mobilitazione dei “capi”, dei “quadri”, di impiegati e personale non operaio. Era l’annuncio dell’evento decisivo per l’attacco agli operai in lotta, in coincidenza con la progressiva smobilitazione di Cgil, Flm e Pci.
E lo sciopero generale che finalmente Cgil, Cisl e Uil si decisero a convocare in difesa della lotta degli operai il 10 ottobre, pur molto partecipato nell’industria (ma non negli altri settori), arrivò troppo tardi, in un clima di progressiva sfiducia che sarebbe stata ulteriormente incrementata con l’evento opposto, ma di ben altro impatto, che si manifestò la mattina del 14 dicembre quando il gruppo di “quadri”, capi e capetti e impiegati/e Fiat si radunò in qualche migliaio al Teatro Nuovo in assemblea, facendo partire un corteo – dietro lo striscione «Vogliamo la trattativa, non la morte della Fiat» seguito da un altro, esplicito, «Il lavoro si difende lavorando», – che andò ingrossandosi con l’aggiunta di commercianti e negozianti (lo sciopero e il blocco aveva fato calare le vendite), impiegati di altre fabbriche e cittadini intenzionati ad appoggiare la reazione anti-operaia. Malgrado tutti questi apporti, quella che poi è passata alla storia italiana come marcia dei quarantamila non portò in piazza più di 12 mila persone, secondo la questura, che ovviamente non aveva alcun motivo per ridurre le cifre reali. L’aspetto sconcertante della vicenda è che il numero andò crescendo progressivamente di ora in ora, ma con il contributo decisivo di Luciano Lama. A sera il TG dette la cifra di 20 mila mentre il giorno dopo il quotidiano di casa Agnelli, La Stampa, elevò il numero a 30 mila. Però fu proprio il segretario della Cgil a fissare la cifra in 40 mila, probabilmente per far capire agli operai che, di fronte a tanti contromanifestanti, bisognava chiudere la lotta limitando i danni. Parecchi anni dopo Arisio (che poi divenne deputato per il Pri) ricordò con ironia10 il fatto che proprio Lama avesse dato loro una mano, mentre lui stesso era ben consapevole che i manifestanti erano ben meno di tale cifra.
Il giorno dopo gli operai chiesero a gran voce alle direzioni sindacali un’immediata contromanifestazione, convinto di portare in piazza molta più gente dei 12 mila (ma anche dei presunti 40 mila) messi in campo dai “colletti blù” filo-Fiat. Ma nessuna risposta arrivò dai vertici nazionali perché si era ad un passo dall’accordo finale che chiuse al peggio i 35 giorni di lotta. E il 15 ottobre l’accordo venne siglato. La Flm finì per accettare le richieste della Fiat: cassa integrazione a zero ore per 24 mila operai senza rotazione e senza nessuna vera garanzia sul rientro; avviamento di processi di mobilità extra-aziendali; reintegrazione dei lavoratori solo per chi entro il 30 giugno 1983 non avesse trovato altro lavoro; blocco delle assunzioni e non rinnovo del “turn over”; dimissioni volontarie incentivate; prepensionamento di lavoratori anziani: insomma, senza usare più la parola “licenziamenti” la Fiat otteneva di poter ridurre il personale di un numero almeno doppio dei 15 mila licenziamenti annunciati che avevano fatto esplodere la lotta. Così, con grande imbarazzo, l’Unità commentò – sotto il titolo «Prima assemblea molto tesa. L’accordo è discusso» (e sottotitolo: «Interventi polemici e contestazione ai dirigenti sindacali») – l’accordo e le assemblee infuocate negli stabilimenti Fiat, riportando sia l’intervento di Trentin per la Cgil sia la dichiarazione di Chiaromonte per il Pci:
«Possiamo anche considerare questa ipotesi di accordo una sconfitta – ha detto il segretario della Cgil Bruno Trentin – possiamo rifiutarla, non sporcarci le mani. Ma sarebbe un grave errore. Io lo considero un risultato positivo che garantisce la continuità del movimento…Certo, su alcuni punti non siamo riusciti a passare, soprattutto per la nostra incapacità di coinvolgere nella lotta anche i settori moderati dei lavoratori della Fiat»11.
Mentre questa fu la posizione ufficiale del Pci, espressa da Gerardo Chiaromonte:
«L’ipotesi di accordo è certamente un compromesso, che in alcuni punti può anche prestarsi a numerose critiche e rilievi e può destare legittimi malcontenti di varia natura. Bisogna però avere presente che un ulteriore prolungamento della lotta comporterebbe pericoli seri per l’unità dei lavoratori della Fiat…Resta aperta la necessità di superare le contraddizioni tra diversi strati di lavoratori, venute alla luce durante la vertenza sindacale di queste settimane, e in particolare con la manifestazione dell’altro ieri a Torino»12.
Però le contestazioni all’accordo andarono molto oltre i fischi e i “civili dissensi” riportati dall’Unità. Dopo che l’assemblea dei delegati Fiat di Torino aveva rifiutato l’accordo, i leader sindacali che decisero ugualmente di sfidare la rabbia operaia, rischiarono davvero di uscirne malconci: Carniti dovette scappare dopo essere stato preso a sassate; Lama fu anch’esso aggredito e venne portato fuori in gran fretta dal servizio d’ordine; e la stessa sorte toccò a Benvenuto che dovette interrompere rapidamente il suo discorso, perché, dopo i fischi corali, arrivarono i lanci di oggetti contundenti; e fu chiaro che la maggioranza degli operai era contrario agli accordi, anche se molti abbandonarono le assemblee, rifiutandosi di votare un accordo già irreversibilmente deciso. Infatti, già intenzionati a chiudere comunque la lotta, la Flm e le tre confederazioni presero per buone le votazioni di cui l’Unità, pur registrando gli innumerevoli episodi di contestazione e di rifiuto, riportò i dati – seppur sommersi dal grande spazio dato alla notizia della morte di Luigi Longo – che sostenevano la vittoria del Sì con percentuali tra il 65 e il 70%. E il giorno dopo confederazioni e Flm firmarono l’accordo definitivo con l’azienda.
Perse la classe operaia della Fiat ma in realtà tutta la classe operaia italiana: i 35 giorni di battaglia persino esaltante alla Fiat fu il definitivo canto dl cigno del protagonismo operaio degli anni ’70, uscito dal centro della scena allora e poi mai rientratoci davvero nei successivi quaranta anni. Per valutare appieno il significato della epocale vittoria di Romiti e della Fiat, potrebbe bastare quanto ben fotografò poco tempo dopo Beniamino Andreatta (ministro del Tesoro dall’ottobre 1980 al dicembre 1982), complimentandosi con Romiti per il suo successo, giudicato come «l’unico fatto politico vero degli ultimi dieci anni, che ha cambiato tutto il sistema delle relazioni industriali, ha messo ko il sindacato, ha ribaltato i rapporti tra la classe politica e quella imprenditoriale»13.. Che Andreatta avesse visto lungo, lo dimostrò nei sei anni seguenti la colossale ristrutturazione della Fiat che, dopo aver chiuso lo stabilimento del Lingotto e aumentato di sei volte i robot in fabbrica, andò ben oltre i 14 mila licenziamenti auspicati all’inizio del conflitto dell’autunno 1980, riducendo il numero dei dipendenti dai 320 mila di allora ai 225 mila del 1986; e con i soldi risparmiati comperò il Corriere della Sera, la Rizzoli, l’Alfa Romeo , la SNIA Bpd, le assicurazioni Toro e una buona quota della Montedison. E che si trattasse di una sconfitta epocale per la classe operaia e per i lavoratori italiani, oltre che di un cambio di pelle corporativo della Cgil e della Flm, lo capirono perfettamente gli operai Fiat più politicizzati che, così si espressero, lo stesso giorno della firma dell’accordo, attraverso il comunicato del Consiglio di fabbrica della Fiat Lingotto:
«Sull’accordo Fiat, il nostro giudizio è estremamente negativo. Sia per quanto riguarda il metodo sia per il merito, in particolare sulla mancata rotazione della cassa integrazione e sulla mobilità esterna…La scelta del non confronto con i Consigli, arrivando all’accusa di non rappresentatività degli stessi, la scelta di andare alle assemblee dei lavoratori strumentalizzandole, rappresenta la chiara volontà di accantonare il sindacato del controllo operaio in fabbrica…La conclusione di questo accordo è legata più ad orientamenti politici della federazione Cgil-Cisl-Uil che a reali rapporti di forza esistenti in fabbrica. La scelta politica che la maggioranza del gruppo dirigente sindacale ha fatto, è quella di voler cambiare la natura di questo sindacato. In sostanza l’attuale gruppo dirigente del sindacato ha accettato che per uscire dalla crisi si deve privilegiare la competitività del prodotto basata sull’aumento dello sfruttamento dei lavoratori».14
Ma, ragionando sul terreno politico-partitico, fu soprattutto un’altra pesante sconfitta del Pci, perché dopo il fallimento dei sei anni persi dietro il miraggio del “compromesso storico”, nella stessa giornata della firma dell’accordo, decollò il governo di Arnaldo Forlani, un quadripartito con la crescente influenza del Psi di Bettino Craxi, oramai dialogante da pari a pari con la Dc e il contorno del Pri e del Psdi. Di nuovo la strategia berlingueriana dell’accesso al governo – ieri con la Dc, ora con il “movimento operaio unito al governo” cioè tramite un accordo con il Psi, respinto alla grande da Craxi – falliva seccamente, immettendo negli anni ’80 un Pci ancora più privo di strategia, ondivago e legato alle improvvisazioni e alle svolte berlingueriane, per giunta avendo anche dilapidato un patrimonio di fiducia da parte degli strati più politicizzati, combattivi e consapevoli della classe operaia, usciti sconfitti e bruciati nelle proprie speranze e riferimenti politici, e oramai ben poco disposti a seguire il Pci in una serie di velleitarie “spallate” ai governi che provocavano solo “fratture” agli operai e ai settori popolari.
Immaginifiche improvvisazioni berlingueriane (1981-1984)
Devo ammettere di non aver mai capito, né durante gli anni in cui fu segretario nazionale (1972-1984) del Pci – ed io e tanti altri/e del Sessantotto e del Settantasette confliggevamo con il partito che dirigeva – e neanche successivamente o a tutt’oggi, le ragioni del grande successo di Berlinguer tra il popolo comunista. Se prescindiamo dal fideismo nei confronti del proprio leader maximo, sulla scia di quello tributato a Togliatti, tali ragioni mi apparvero e mi appaiono misteriose se si tiene in considerazione il fatto che in dodici anni Berlinguer non portò a casa alcun successo strategico; che perse praticamente tutte le battaglie più serie e impegnative combattute (e fin qui ne ho già elencate una buona serie); che non dette alcun sostanzioso contributo teorico o ideologico alla storia del Pci e alle sue fortune; che non produsse analisi significative sulle trasformazioni sociali, sui mutamenti tra le classi e i ceti dell’epoca, per trarne modifiche tattiche e strategiche nella linea del partito; che inanellò una serie di svolte e di immaginifiche improvvisazioni, senza valide premesse né conseguenze credibili. Ma, se ancora nella linea del “compromesso storico”, nell’ostilità frontale al movimento ’77, nel terrore di una ben improbabile espansione brigatista – che contribuì ad impedire la salvezza di Moro e quindi la sopravvivenza della strategia dell’alleanza con la Dc -, si poteva ancora intravedere un qualche filo conduttore leggibile e dotato di una minima coerenza, i suoi primi anni Ottanta, e fino alla drammatica morte nel 1984, mi appaiono ancor oggi una sequela di “trovate” à la carte, tanto effimere quanto destinate ad essere capovolte con grande leggerezza. A pensarci ora, le sue trovate, le sue uscite improvvise e le sue svolte somigliavano assai più ai modelli politici dei nostri ultimi trenta anni di improvvisata politique politicienne – che fa il surf sulle correnti economiche e sui conflitti sociali, cercando di cavalcare l’onda montante e di mollare l’onda calante – che alla tradizionale metodologia togliattiana, certo sottomessa ai mandati sovietici ma quantomeno leggibile grazie a quel filo conduttore. Delle immaginifiche improvvisazioni della prima parte degli anni ’80 analizzerò, oltre quella già studiata nelle pagine precedenti, almeno le tre principali, fino alla sconfitta sul referendum in difesa della scala mobile da cui il Partito comunista non si riprese più fino allo scioglimento definitivo.
1)L’improvvisa scoperta della “questione morale”. Il 28 luglio 1981, pochi mesi dopo l’ulteriore fallimento dei tentativi di portare il Pci al governo, Berlinguer dette al direttore di Repubblica Eugenio Scalfari una lunghissima ed “esplosiva” intervista che fece sobbalzare tutto il mondo politico e giornalistico dell’epoca. All’improvviso, il capo del Pci scopriva la questione morale, che a suo avviso attanagliava l’Italia al punto da averla resa un territorio avvelenato e corrotto in ogni sua propaggine istituzionale, a causa soprattutto della degenerazione dei partiti. Riassumo qui i passaggi essenziali dell’intervista-fiume che occupava alcune pagine del giornale.
«I partiti non fanno più politica, hanno degenerato e questa è l’origine dei malanni d’Italia. I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani…I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni a partire dal governo, gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai TV, alcuni grandi giornali…Tutto è già lottizzato e spartito e il risultato è drammatico. Tutte le “operazioni” che le diverse istituzioni e i loro dirigenti sono chiamati a compiere, vengono viste prevalentemente in funzione dell’interesse del partito e della corrente o del clan a cui si deve la carica»15.
Scalfari che, pur conoscendo i temi che Berlinguer avrebbe trattato, non si aspettava, credo, un attacco così virulento all’intero sistema politico, si sentì obbligato ad obiettare:
«Lei fa un quadro della realtà italiana da far accapponare la pelle. Ma debbo riconoscere che in gran parte é un quadro realistico. Però vorrei chiederle: se gli italiani sopportano questo stato di cose é segno che lo accettano o che non se ne accorgono. Altrimenti voi avreste conquistato la guida del Paese da un pezzo».
Risposta di Berlinguer :
«Molti italiani si accorgono benissimo del mercimonio che si fa dello Stato, delle sopraffazioni, dei favoritismi, delle discriminazioni. Ma gran parte di loro è sotto ricatto. Hanno ricevuto vantaggi e sperano di riceverne, o temono di non riceverne più…Ma io credo di sapere a cosa lei pensa: poiché noi dichiariamo di essere un partito “diverso” dagli altri, lei pensa che gli italiani abbiano timore di questa diversità. Elencherò per punti molto semplici in cosa consiste il nostro essere diversi. Noi vogliamo che i partiti cessino di occupare lo Stato, debbono concorrere alla formazione della volontà politica della nazione ma non occupando pezzi sempre più larghi dello Stato, sempre più numerosi centri di potere in ogni campo…Noi pensiamo che il tipo di sviluppo economico e sociale capitalistico sia causa di gravi distorsioni, di immensi costi e disparità sociali, di enormi sprechi di ricchezza. Non vogliamo seguire i modelli di socialismo finora realizzati, rifiutiamo una rigida e centralizzata pianificazione dell’economia, pensiamo che il mercato possa mantenere una funzione essenziale, che l’iniziativa individuale sia insostituibile, che l’impresa privata abbia un suo spazio e conservi un ruolo importante. Ma siamo convinti che queste realtà dentro le forme capitalistiche non funzionino più e che si debba discutere in quale modo superare il capitalismo come meccanismo».
A questo punto, Scalfari ebbe buon gioco a mettere in evidenza la contraddizione teorica e politica fondamentale in cui, almeno dalla fine della prospettiva del “compromesso storico”, il Pci si dibatteva, facendo notare di «non trovare significative differenze rispetto a quanto può pensare un convinto socialdemocratico europeo; però a lei sembra un’offesa essere paragonata ad un socialdemocratico». Ottenendo risposte imbarazzate, ben sapendo che un rifiuto chiaro del “socialismo reale” – che nel Pci non avvenne mai – e l’inserimento nel campo della socialdemocrazia europea, avrebbe significato sì liberarsi dal peccato originale del Pci ma cancellando anche la ragione sociale della nascita, cioè la rivoluzione russa, e in Italia dovendo avere a che fare con il “socialismo” rampante di Craxi, che oramai quello spazio presidiava stabilmente. In ultimo, Berlinguer trovò anche modo per difendere un suo vecchio cavallo di battaglia (1977), rivelatosi rapidamente un ronzino e da tempo abbandonato, come tanti altri analoghi: quello dell’austerità, che dovemmo aspettare tre decenni prima di sentircelo riproporre, stavolta dall’Unione Europea. Ad una domanda di Scalfari che sottolineava come l’appello berlingueriano per l’austerità non fosse stato accolto con favore dai lavoratori e neanche dai militanti del Pci, così rispose Berlinguer:
«Noi sostenemmo che il consumismo individuale esasperato produce non solo dissipazione di ricchezza e storture produttive ma anche insoddisfazione, smarrimento, infelicità e che comunque la situazione economica dei paesi industrializzati non consentiva più di assicurare uno sviluppo economico e sociale conservando la “civiltà dei consumi”, con tutti i suoi guasti anche morali. La diffusione della droga, ad esempio, tra i giovani é uno dei segni più gravi di tutto ciò…Noi fummo i soli a sottolineare la necessità di combattere gli sprechi, accrescere i risparmi, contenere i consumi privati superflui, rallentare la dinamica perversa della spesa pubblica. Dicemmo che anche i lavoratori avrebbero dovuto contribuire per la loro parte a questo sforzo di raddrizzamento dell’economia…avendo come obiettivo un diverso tipo di sviluppo e diversi modi di vita, più parsimoniosi ma anche più umani…Non fummo ascoltati».
Ora, lasciando da parte la prospettiva qui ripescata, ma già abbondantemente travolta anche all’interno dl Pci, dell’austerità, e tornando alla cosiddetta questione morale, ad un lettore odierno può sembrare di sentire con largo anticipo l’accoppiata Grillo-Casaleggio senior e i grillini delle prime ore (non certo di queste ultime, laddove coloro che dovevano «aprire il Parlamento come una scatola di tonno», sono diventati i “tonni” più attaccati alla scatoletta, al punto di essere disposti a tutto pur di non uscirne); o, ai più anziani, il Pannella e i radicali di quegli stessi anni. E a chi ne sa di storia italiana del dopoguerra, apparirà pure la coincidenza tra il modo di trattare la questione di Berlinguer e quello, certo meno sofisticato nello stile e anche spesso grossolano, che, con più di quaranta anni di anticipo, fece le brevi ma eclatanti fortune di Guglielmo Giannini e del Fronte dell’Uomo Qualunque: partito che nel 1948, dopo due anni di vita, entrò in pompa magna in Parlamento, grazie al giornale inventato e diretto da Giannini16, il cui simbolo era un cittadino, appunto qualunque, schiacciato da un torchio di stampa, a rappresentare il monopolio partitico sulle istituzioni e su ogni centro di potere economico o sociale. C’è però una differenza vistosa tra i casi citati. Quando ad esempio nell’intervista Berlinguer sottolineava che i partiti non erano più «organizzazioni del popolo, ma camarille, ciascuna con un “boss” e dei “sotto-boss”…per la Dc Bisaglia in Veneto, Gava in Campania, Lattanzio in Puglia, Andreotti nel Lazio, De Mita ad Avellino, Gaspari in Abruzzo, Forlani nelle Marche e così via. E per i socialisti è più o meno lo stesso e per i socialdemocratici peggio ancora», Scalfari avrebbe potuto – e dovuto, se la sua missione di “redimere” i comunisti non l’avesse stoppato – ricordare a Berlinguer che con quei boss e sottoboss lui stesso aveva trattato per sei anni, e fino a due anni prima, per fare insieme il governo del “compromesso storico”; e che la stessa cosa aveva fatto solo un anno prima, con socialisti e socialdemocratici per un governo dove potesse entrare «tutto il movimento operaio unito». Erano tutti diventati boss e occupanti mafiosi di tutto l‘occupabile nel giro di 24 mesi? O aveva visto bene, già alcuni decenni prima, un simpatizzante monarchico e qualunquista (alla sua esperienza dobbiamo questo aggettivo spregiativo) come Giannini, segnalando che la lottizzazione spartitoria era stata abbondantemente avviata fin dal dopoguerra? E mentre Berlinguer elencava tutti i luoghi della spartizione del potere e del dominio delle clientele, magari Scalfari avrebbe potuto far notare che la stessa, identica politica il Pci la praticava fin dal dopoguerra in tutte quelle regioni “rosse” dove controllava e dominava l’economia, la politica e ogni spazio sociale, e dove esistevano “boss” targati Pci non meno noti o meno influenti di quelli citati per la Dc; e che anche a livello nazionale il Pci aveva occupato tante posizioni di potere e prestigio, nelle università, nei centri di ricerca, nelle aziende pubbliche, nelle case editrici, nei centri culturali, nella stessa TV, persino in tanti giornali pur cosiddetti “borghesi” ove contrattava gli equilibri con il padronato proprietario; e senza contare il dominio sindacale, il monopolio esercitato, tramite la Cgil, nella gestione dei diritti e del controllo sindacali, nei posti di lavoro, nelle fabbriche, nel pubblico impiego e nella scuola, nella sanità e negli ospedali, ma anche nell’economia statalizzata.
Insomma, quell’alterigia della presunta diversità e della auto-assegnatasi pulizia morale – che nella stessa intervista, per un attimo, Scalfari decise di sfottere, sottolineando che «a volte parlate della vostra diversità come se foste dei marziani, oppure dei missionari in terra di infedeli» – pur avendo sempre fatto parte della infinita presunzione del dirigente medio comunista, quasi si considerasse frutto di una felice mutazione genetica, non aveva alcuna ragion d’essere – ammesso e non concesso che l’abbia mai avuta – da parecchi decenni, perché, come si dice grossolanamente a Roma sul tema, «er più pulito c’aveva la rogna»; o, più diplomaticamente, perché la spartizione della gestione dei poteri diffusi nel Paese tra Dc e Pci, e poi Psi con l’avvento di Craxi soprattutto (ovviamente con “quote” corrispondenti al peso reciproco), fu operante fin dalla nascita della Repubblica. Comunque, anche questa ennesima “trovata” berlingueriana, oltre a provocare una diffusa incazzatura nel mondo politico, scandita da un corale ”senti chi parla” – e accompagnata per lo più dalla sottolineatura dei finanziamenti perpetui provenienti da uno Stato ostile all’Italia della Nato come l’Unione Sovietica – non lasciò significative tracce nel popolo Pci, colpito piuttosto dalla difficoltà del partito di trovare una strategia efficace, nonché dall’ascesa di Bettino Craxi e del suo Psi. D‘altra parte lo stesso Berlinguer avrebbe di nuovo cambiato cavallo e provato, di lì a pochi mesi, a montare un altro destriero, destinato però anch’esso ad una rapida fine “ronzinante”.
2) La “spinta propulsiva” del modello sovietico e la vacua “terza via” al socialismo. Dopo il clamore mediatico suscitato dall’intervista a Repubblica, un altro exploit analogo Berlinguer lo ottenne pochi mesi dopo, il 15 dicembre 1981, quando il segretario del Pci in una Tribuna Politica affrontò le vicende polacche e la presa del potere da parte del generale Jaruzelski, il quale due giorni prima aveva introdotto la legge marziale per sconfiggere l’opposizione, sempre più forte, del movimento di Solidarnosc17, imprigionando migliaia di oppositori e facendo anche un certo numero di vittime. Così la mattina del 13 dicembre Jaruzelski aveva giustificato alla TV polacca la brutale presa del potere (in seguito sostenne che lo fece per evitare che in Polonia si ripetesse l’invasione sovietica dell’Ungheria e della Cecoslovacchia).
«La nostra patria è sull’orlo del collasso. I risultati di molte generazioni e la casa polacca sono in procinto di trasformarsi in rovina. Le strutture dello Stato cessano di funzionare. Il clima di conflitti, di incomprensioni, odio, supera i limiti di tolleranza. Ieri molti edifici pubblici sono stati sequestrati. Si levano grida di rappresaglie fisiche contro i “rossi”, contro persone che hanno opinioni diverse. Le fortune degli squali del mercato nero sono in crescita. Caos e demoralizzazione hanno raggiunto la dimensione di una catastrofe. I casi di terrorismo, minacce, vendette , violenze dirette, sono in aumento; un’ondata di delitti, rapine e furti è in corso in tutto il paese. Le persone hanno raggiunto il limite di tolleranza psicologica, molte persone sono preda della disperazione…Il Consiglio di Stato ha imposto la legge marziale in tutto il paese. Il nostro obiettivo non è un colpo di Stato militare, una dittatura…Il suo unico scopo è mantenere l’equilibrio giuridico del paese, per ripristinare l’ordine e la disciplina. Questo é il modo migliore per portare il paese fuori dalla crisi, per salvarlo dal collasso»18.
Chiamato due giorni dopo a rispondere sul tema a Tribuna Politica, Berlinguer improvvisò uno “strappo” che sorprese non solo il mondo politico ma anche la base Pci, almeno quanto le tesi degli anni precedenti sul “compromesso storico”, sull’austerità e sulla questione morale. Questa la parte essenziale del suo discorso televisivo:
«Ciò che è avvenuto in Polonia ci induce a considerare che effettivamente la capacità propulsiva di rinnovamento delle società che si sono create nell’Est europeo è venuta esaurendosi: parlo di una spinta propulsiva che si è manifestata per lunghi periodi e che ha la sua data d’inizio nella Rivoluzione socialista dell’Ottobre…Oggi siamo giunti ad un punto in cui quella fase si chiude. Noi pensiamo che gli insegnamenti fondamentali che ci ha trasmesso prima di tutto Marx e alcune delle lezioni di Lenin conservino una loro validità; e che d’altra parte vi sia tutto un patrimonio e tutta una parte di questo insegnamento che sono oramai caduti e che devono essere abbandonati e del resto sono stati da noi stessi abbandonati con gli sviluppi nuovi che abbiamo dato alla nostra elaborazione, centrata su un tema che non era centrale in Lenin. Il tema su cui ci concentriamo è quello dei modi e delle forme della costruzione socialista in società economicamente sviluppate e con tradizioni democratiche , quali sono le società dell’Occidente europeo…Noi consideriamo l’esperienza storica del movimento socialista nelle due fasi fondamentali: quella socialdemocratica e quella dei paesi dove il socialismo è stato avviato sotto la direzione dei partiti comunisti… Entrambe vanno superate criticamente con nuove soluzioni, cioè con quella che noi chiamiamo terza via, terza rispetto alle vie tradizionali della socialdemocrazia e ai modelli dell’Est europeo»19.
Ancora una volta, la direzione berlingueriana manifestava con questa dichiarazione – che poi sarebbe stata ripresa e ampliata nel Comitato centrale dell’11-12 gennaio 1982 – l’impasse del “vorrei ma non posso” sulla possibile, ma sempre rinviata, rottura con l’Urss e la fumosità della fantomatica terza via, variante della via italiana al socialismo predicata da Togliatti e dell’altrettanto vago eurocomunismo, propagandato – ma senza risultati visibili né in termini di elaborazione né di alleanza stabile tra partiti comunisti “non allineati” con Mosca – fin dal 1975, d’intesa con i Pc francese, spagnolo, inglese. Può persino far sorridere, a posteriori, che il Pci avesse avuto bisogno, per dichiarare terminata “la spinta propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre”, di attendere il 1981 e il generale Jaruzelski quando aveva avuto, di fronte a ben altra gravità, visione chiara di come si muovesse il principale frutto della Rivoluzione russa, a Budapest nel 1956 e a Praga nel 1968. Così come, ancora una volta, la direzione del Pci evitava di spiegare cosa del “socialismo reale” fosse da scartare e cosa fosse ancora valido, e in cosa consistesse questo “socialismo per i paesi sviluppati” che – come aveva fatto notare Scalfari nell’intervista succitata – una volta tolta la centralizzazione e la statalizzazione dei mezzi di produzione, mantenuta l’iniziativa e la proprietà privata, compresa quella dei mezzi di produzione, garantita la liberta di organizzazione con il pluripartitismo e la centralità di un Parlamento decisionale, derivante da libere elezioni, abbisognava di qualcosa di altro per giustificare la differenza tra l’eurocomunismo e la classica socialdemocrazia nordica, tedesca o inglese del dopoguerra.
Peraltro, anche di questa presunta”rottura” o “strappo”, non se ne fece niente. Il Comitato centrale dedicato a questi temi dell’11-12 gennaio 1982, dopo la relazione di Berlinguer che riprese i temi della dichiarazione a Tribuna Politica, ascoltò con grande attenzione l’intervento di Armando Cossutta20, che demolì e persino ridicolizzò le velleità berlingueriane e la strumentalità dell’uso dei fatti polacchi mentre in Italia il Pci non riusciva a cavare un ragno dal buco; e finendo con il chiedere se davvero si volesse sancire una rottura con l’Urss e con il Pcus: domanda alla quale sia gli interventi successivi sia le conclusioni risposero con un coro di riconferme del rapporto prioritario, ma alla pari, con l’Urss e con i paesi del pur criticato “socialismo reale”. Cosa che non esentò il Pci dal ricevere nei giorni successivi una serie di reprimende dagli organi di stampa dell’Est “socialista”, dal Rude Pravo cecoslovacco alla Pravda sovietica. Comunque, la strumentalità dei tentativi eurocomunisti – che in realtà furono un espediente per avvicinare quel ceto medio terrorizzato dal modello sovietico ma evitando la rottura e la denuncia dei caratteri dittatoriali del comunismo staliniano e post-staliniano – si può dimostrare anche solo facendo, a chi prese sul serio la terza via al socialismo, una semplice domanda: come mai nel 1989, una volta liberatosi dell’ingombrante e impresentabile “socialismo reale “, non si è perseguita la terza via, provando a verificare in cosa consistesse davvero, in cosa si differenziasse dalla socialdemocrazia e in che misura fosse praticabile?
3) Le illusioni del XVI Congresso, il governo Craxi e la “débacle” sulla scala mobile. Se i “fuochi fatui” della questione morale e dello strappo con l’Urss si spensero subito, l’evento in cui maggiormente si verificò la potenza dell’auto-illusione berlingueriana, fu proprio quel XVI Congresso del Pci (2-6 marzo 1983) che ne sanzionò, rieleggendolo segretario con ovazioni annesse, il suo ruolo di leader maximo. Berlinguer riuscì nella notevole impresa di suggestionare i 1109 delegati/e facendo credere loro che, proprio mentre era iniziata la marginalizzazione del Pci ed il lungo purgatorio – trascorso subendo l’egemonia di Craxi sul governo e sulla sinistra tutta – verso lo scioglimento, il Pci invece fosse il centro della politica nazionale, il soggetto da cui sarebbero dipese le sorti dell’Italia, dei governi e dei partiti principali, grazie all’ennesima formula ingegneristica, l’alternativa democratica, che a breve avrebbe aperto le porte all’ingresso del Pci nel governo del Paese. «Torna al centro la questione comunista. Confronto e lotta per l’alternativa» così titolava trionfalmente l’Unità a conclusione del Congresso, e così riassumendone, nell’articolo di fondo di Ugo Baduel, il senso generale:
«La questione comunista torna pienamente al centro dell’attenzione e della realtà politica italiana. Sta qui, in questo sintetico giudizio che Berlinguer ha posto in apertura della sua replica, tutta la valenza politica del sedicesimo Congresso…Il nucleo del discorso di Berlinguer, che trasmetteva il significato di tutto il dibattito, sta nella risposta politica al PSI, alla DC, ai partiti governativi che si sono pronunciati, qui al Palasport o fuori di qui,sul tema dell’alternativa democratica»21.
O, direttamente dalle parole di Berlinguer nel discorso conclusivo:
«Con questo congresso, la questione comunista è tornata ad essere pienamente la questione centrale da risolvere per le sorti dell’Italia: e questo è l’elemento più importante del suo successo, perché prova quanto il Paese abbia bisogno di questo Partito comunista italiano. Mi pare indubbio che il nostro Congresso è destinato a esercitare un’influenza determinate che metterà in discussione tutto il corso della vita politica italiana e le politiche degli altri partiti»22.
Peraltro, tale illusoria sicumera aveva già ricevuto una lampante smentita dalla risposta data da Craxi durante il Congresso, cortese nella forma ma liquidatoria nella sostanza, oltre che dal silenzio di Ciriaco De Mita, presente per la Dc ma che neanche si era preso la briga di parlare a proposito del governo di alternativa democratica (anche se una sua parallela dichiarazione escludeva l’ipotesi che Dc e Pci potessero governare insieme). Risposta che la stessa Unità, nell’articolo di fondo citato, aveva comunque dovuto registrare, anche se cercando di addolcirne il senso e sperando in una “ripensamento” di Craxi:
« Berlinguer ha preso atto che Craxi, cui si era chiesto di scegliere tra la collaborazione con la DC e l’alternativa democratica, non ha escluso quest’ultima proposta ma ha sostenuto che non è ancora proponibile e per contro ha giudicato che sia possibile, anche se non si sa se per tutta la prossima legislatura, continuare a collaborare con la DC al governo. Non c’è stata, quindi, una novità sostanziale, mentre per il PCI sarebbe decisivo che il PSI accettasse almeno di annunciare esplicitamente la prospettiva di alternativa democratica, che determinerebbe un’enorme corrente tra i lavoratori e tra l’opinione pubblica democratica e progressista che potrebbe rendere vincente quella proposta»23.
Quanto le prospettive politiche del Pci, malgrado il trionfalismo di facciata del suo segretario, fossero già subordinate a Craxi e al Psi, lo testimoniarono vistosamente queste parole di Baduel, inserite proprio nell’articolo di fondo a commento del senso generale del Congresso: «per il PCI sarebbe decisivo che il PSI accettasse almeno di annunciare esplicitamente la prospettiva di alternativa democratica». Insomma, il Pci usciva da un Congresso in cui si era auto-narrato come il centro della politica italiana, letteralmente pregando Craxi affinché si degnasse almeno di non escludere in un ipotetico futuro la possibilità di un governo con il Pci. E la ragione di tanta sottomissione di fatto era semplice: il Psi craxiano aveva una strategia, il Pci no, continuava a procedere alla giornata. E sarebbero bastati pochi mesi per averne la dimostrazione lampante. Alle elezioni politiche del 26-27 giugno 1983 la Dc perse (faccio sempre riferimento ai voti della Camera, dove il numero di elettori/trici è maggiore) milioni di voti, scendendo dal 38% delle precedenti elezioni al 33%; il Pci rimase più o meno stabile al 30% (0,5 in meno), mentre il Psi guadagnò l’1,7%, raggiungendo l’11,5%. Forte di questo pur limitato incremento, ma soprattutto del vistoso calo della Dc, Craxi ottenne la presidenza del Consiglio:e il 4 agosto partì il primo governo Craxi, un pentapartito con Dc, Psi, Psdi, Pri e Partito liberale. Ancora una volta il Pci, sempre alla ricerca di una formula che lo portasse comunque al governo, rimaneva all’opposizione: e stavolta contro il più arrembante dei concorrenti. Craxi non usò certo il governo per l’ordinaria amministrazione, a partire dalla decisione più dirompente di quella legislatura, che portò ad uno scontro frontale con il Pci: la “sterilizzazione” della scala mobile, varata con un decreto il 14 febbraio 1984 – chiamato per la coincidenza con la festa degli innamorati/e “decreto di San Valentino” – che tagliava quattro punti (che successivamente scesero a tre) di contingenza, cioè riduceva significativamente la copertura automatica dei salari. La scala mobile, meccanismo che tutelava il salario dei lavoratori/trici dipendenti, aumentandolo automaticamente con l’inflazione, era stata introdotta in Italia nel 1945, con un accordo tra Cgil e Confindustria; ma divenne operativa in tutta Italia e in tutti i settori del lavoro dipendente , con valori uguali per ogni categoria, qualifica, età e genere del lavoratore/trice solo nel 1975 con l’introduzione del cosiddetto “punto unico di contingenza”. Da allora, l’adeguamento automatico dei salari ogni tre mesi avveniva in base all’andamento dei prezzi di beni di consumo di larga diffusione (il cosiddetto paniere), usando l’IPC (indice dei prezzi al consumo). Prima del varo del decreto, Craxi, che intendeva raffreddare un’inflazione che nell’ultimo periodo aveva sfondato anche il muro del 20% e che all’avvento del suo governo era comunque al 15%, avviò un trattativa con i maggiori sindacati, che gli valse l’appoggio di Cisl e Uil ma l’opposizione della Cgil (o meglio, della maggioranza comunista, pressata dal Pci e da Berlinguer in particolare, mentre la minoranza socialista di Ottaviano del Turco invece sostenne il decreto).
Il decreto venne comunque varato e iniziò quello che sarebbe stato lo scontro finale, una vera e propria guerra frontale tra il Psi e il Pci. Craxi, oltre a garantirsi l’appoggio di Cisl e Uil e di una parte significativa della Cgil (anche la parte comunista si era opposta al decreto più per la fortissima pressione del Pci e di Berlinguer che per autentica convinzione: persino Lama non condivideva l’opposizione frontale al decreto e men che meno il ricorso al referendum) avviò anche altri provvedimenti che gli avrebbe garantito il sostegno di quella parte della società, maggioritaria, che non era coperta dalla scala mobile, promuovendo il blocco dell’equo canone (che consentiva gli aumenti degli affitti adeguati all’inflazione) , il blocco delle tariffe pubbliche e l’introduzione di una vasta gamma di agevolazioni fiscali. Il Pci passò rapidamente all’offensiva promuovendo già dal mese successivo, il 4 marzo, una manifestazione nazionale con almeno mezzo milione di persone, praticando poi in Parlamento l’ostruzionismo per impedire la ratifica del decreto; e poi, insieme a Democrazia Proletaria, iniziò a raccogliere le firme per un referendum abrogativo. In linea di massima la battaglia condotta dal Pci era sacrosanta: ma c’era un di più che prescindeva dal motivo del contendere. Berlinguer sentiva che, dopo il fallimento di ogni proposta strategica del Pci nell’ultimo decennio (il “compromesso storico”, l’austerità, il governo di “solidarietà nazionale” e quello di alternativa democratica, la questione morale, l’eurocomunismo ecc.), il Psi craxiano con la guida del governo stava mettendo in una posizione marginale il Pci, portando dalla sua parte i due terzi delle organizzazioni sindacali, e persino facendo vacillare anche la parte comunista della Cgil con l’argomento che la scala mobile toglieva loro potere contrattuale e li rendeva struttura persino superflua. In più, Craxi stava attirando una gran parte del lavoro autonomo, della piccola e media imprenditoria, delle micro-imprese e dell’artigianato oltre ovviamente alla Confindustria, e in generale quei cittadini a reddito fisso non coperti dalla scala mobile, i piccoli risparmiatori, che vedevano l’inflazione divorare il loro gruzzolo, e anche molti pensionati, ai quali Craxi mandava il messaggio «l’inflazione è la tassa sui poveri», e pure una parte significativa dei lavoratori dipendenti, a cui diceva «ciò che conta è il salario reale non il salario monetario, i salari in termini di acquisto e non la carta moneta che troviamo nella busta paga». Credo che questo insieme di fattori fece ritenere al gruppo dirigente berlingueriano che fosse decisivo ingaggiare e vincere una sorta di scontro all’ultimo sangue, anche al di là dell’oggetto del conflitto, su un terreno che riteneva, erroneamente, favorevole. Ma puntarono sullo strumento sbagliato. Dopo una mobilitazione di mesi, che si intrecciò con le proteste contro l’installazione di 112 missili Cruise con testate nucleari nella base Nato a Comiso, e verificato che oramai il potere di veto del Pci e della Cgil su tematiche sindacal-lavoriste era stato annullato da Craxi, Berlinguer e i suoi si convinsero a puntare tutto sul referendum abrogativo, affidando fideisticamente a tutti i cittadini/e la decisione su un tema – la difesa del salario dei lavoratori dipendenti – che avrebbe dovuto rimanere oggetto di scontro sindacale e politico legato alla capacità di conflitto dei soggetti direttamente interessati.
Berlinguer non poté vedere la conclusione di questo scontro frontale che avrebbe segnato irreversibilmente la sconfitta e la conseguente marginalizzazione del suo partito per tutti i restanti anni Ottanta. Il 7 giugno 1984, durante un comizio a Padova, venne colpito d un ictus e continuò fino alla fine il suo discorso, malgrado fosse evidente che stava perdendo il controllo della parola e del corpo. Ricoverato d’urgenza, morì quattro giorni dopo. I funerali videro una partecipazione oceanica, più o meno come quelli di Togliatti a suo tempo. La grande commozione e emozione popolare, anche tra i non comunisti, per quella tragica fine si riverberò nelle elezioni europee della settimana successiva (17 giugno) dove si realizzò quello che molta stampa chiamò “l’effetto Berlinguer”: il Pci per la prima volta scavalcò, seppur di pochissimo, la Dc con il 33,3% contro il 33%. Ma fu un fuoco di paglia. A Berlinguer successe alla guida del Pci Alessandro Natta: un “usato sicuro”, si direbbe oggi, ma che, non soprattutto per colpa sua, avrebbe dato vita alla segreteria più incolore della storia settantennale del Pci. A colpirlo frontalmente dopo solo un anno di segreteria furono i risultati del referendum tanto desiderato che si tenne il 9-10 giugno 1985. La convinzione del gruppo dirigente del Pci di vincere il referendum nasceva da presupposti sbagliati e ancora una volta – come già alla nascita del Pci o per il referendum sul divorzio o nei confronti dei movimenti del Sessantotto o del Settantasette – dalla incapacità di analizzare le trasformazioni sociali avvenute nel contempo e i conseguenti spostamenti politici. E in questo caso dipendeva dal non aver capito che: a) i lavoratori dipendenti coperti dalla scala mobile erano oramai minoranza in Italia, il lavoro autonomo era cresciuto notevolmente; ma anche tra i lavoratori dipendenti esistevano molti piccoli risparmiatori che non apprezzavano più la rincorsa tra inflazione e aumento fittizio dei salari che nel contempo bruciava i risparmi; b) nel solo giro di un anno la riduzione dei tre punti di inflazione aveva dimezzato l’inflazione (poi, alla fine dei due governi Craxi, l’inflazione si ridusse a meno di un terzo); c) anche i sindacati, Cgil compresa, si erano convinti che con la copertura della scala mobile la contrattazione aveva perso di peso e credevano (ma si illudevano) che, abolita o ridotta drasticamente la sua copertura, avrebbero riguadagnato potere contrattuale; d) Craxi, anche con alcune scelte di politica internazionale, aveva rapidamente guadagnato consenso come “uomo forte”, in grado di gestire e dirigere il Paese rilanciando il sistema produttivo. Cosicché, il risultato non fu quello che gran parte dei sondaggi e delle previsioni delle forze politiche si attendevano: il taglio della scala mobile venne confermato e il No alla cancellazione del decreto che l’aveva “sterilizzata” prevalse con il 54,3%. Craxi trionfava, veniva sanzionata l’emarginazione del Pci e il suo oramai irreversibile tramonto.
La gestione incolore di Natta e l’inglorioso scioglimento del Pci
Il colpo della sconfitta sul referendum, che Berlinguer aveva voluto ad ogni costo, fu micidiale per il Pci e in particolare per il nuovo segretario Natta, al quale, nemmeno tanto velatamente in parecchi all’interno del Pci, imputarono di non essere stato all’altezza dell’aggressività e della mediaticità di Craxi (che però dalla sua aveva la carica e i poteri del presidente del Consiglio), che effettivamente spadroneggiò durante la campagna elettorale, e men che meno della fascinazione e dell’appeal politico del suo predecessore Berlinguer. Il Pci provò ad attenuare i danni della sconfitta, presentando fin dal giorno dopo un’interpretazione auto-assolutoria dei risultati che, a rivederla ora, sorprende per la ingenua presunzione di poter trasformare una sconfitta cocente almeno in un pareggio. L’Unità del giorno dopo la batosta riuscì ad uscirsene (il Sì al referendum significava la cancellazione del taglio alla scala mobile, il No la conferma di esso) con titoli del tipo «Prevale il No, grande forza del Sì», come se appunto avessero più o meno pareggiato, o con «Lo schieramento governativo perde oltre 5 punti», riferendosi al fatto che i partiti governativi nelle ultime elezioni avevano raggiunto insieme circa il 60%, mentre il Sì al taglio della scala mobile aveva ottenuto “solo” il 55%; o ancora, «Tutti tengano conto che il divario non è grande», come se 10 punti percentuali e circa 3 milioni di voti di differenza fossero poca cosa. Lo stesso Natta cercò di indorare la pillola:
«Il Sì non ha vinto ma ha avuto una notevolissima affermazione. Le distanze non sono grandi. E’ stata una prova difficile affrontata con mezzi impari. Ci siamo trovati di fronte ad uno scatenamento aggressivo, ad una drammatizzazione del referendum…Mai come in questa occasione abbiamo combattuto in condizioni del tutto impari e di fronte ad una campagna che ha cercato di coartare con ogni mezzo il giudizio libero e ragionato dei cittadini»24.
Dello stesso tenore l’editoriale di Emanuele Macaluso nella stessa edizione del quotidiano del Pci:
«Cade la storiella dell’isolamento del Pci, dal momento che la sua proposta referendaria raccoglie circa il 46% dei voti, di tutti voti, non solo dei lavoratori, in una campagna elettorale in cui i mezzi di informazione pubblici hanno tifato tutti per il No e l’Unità è stato l’unico grande quotidiano nazionale a fare la campagna per il Sì…Ma questa battaglia ha avuto anche una grande funzione chiarificatrice politico-culturale e lascerà un segno nella vicenda politica italiana».
Indubbiamente il segno lo lasciò, e nettissimo: ma del tutto a favore di Craxi, del Psi e del suo governo che si vide spianata la strada di fronte ad un’opposizione politica in rotta, guidata da un leader evanescente, con due sindacati di supporto al governo e la Cgil non solo divisa ma oramai definitivamente convinta di quale catastrofico errore fosse stato sperare di rovesciare la difficile situazione politica e sociale mediante uno strumento come il referendum. Nel Pci si accelerò la discussione interna sul vicolo cieco a cui avevano portato le scelte della direzione berlingueriana, le “trovate” continue e ondivaghe, tutte giocate sul clamore del momento e gravate da un’inconsistenza strategica che solo ora, uscito di scena il leader maximo, si palesavano clamorosamente. E soprattutto ripartì il conflitto sulla necessità o meno di tagliare i ponti non solo con il legame ombelicale con l’Urss e con il “socialismo reale” ma anche con tutta la tradizione comunista, falce e martello comprese, egemonia operaia inclusa, e sull’inevitabilità di arrendersi all’evidenza dell’attrattiva socialdemocratica. Questo processo, complicato dalla consapevolezza che il campo socialista europeo era oramai saldamente presidiato in Italia da Craxi, fu in qualche modo stoppato dall’affermarsi in Urss di una nuova, e a suo modo originale, leadership per opera di Mikhail Gorbaciov (o Gorbacev) che l’11 marzo 1985 era stato nominato segretario generale del Pcus, succedendo a Breznev, sulla base di un programma almeno sulla carta innovativo, che prometteva profonde riforme economiche (il termine che venne usato per definirle fu quello di perestrojka, letteralmente ricostruzione) e democratizzazione dello Stato e della gestione politica (la glasnost, per indicare liberalizzazione, apertura o trasparenza). In particolare, a fare sperare il gruppo dirigente del Pci che si potesse uscire dalla tenaglia”rottura con il Pcus, rinnegamento di tutta la propria storia e resa alla socialdemocrazia versus mantenimento dei legami con l’Urss e isolamento sempre più insostenibile”, fu in particolare l’incontro (27-28 gennaio 1986) tra una delegazione del Pci (con il segretario Natta e Pajetta) e una del Pcus guidata da Gorbaciov, conclusosi con grande soddisfazione reciproca e in un clima di ritrovata armonia dopo le polemica del periodo berlingueriano. Questo fu il giudizio ufficiale del Pci, registrato con grande evidenza nell’articolo di Giulietto Chiesa che aveva fatto parte della delegazione, sotto il titolo «Natta-Gorbaciov “Colloqui di grande utilità”».
«Altre quattro ore di colloqui tra Alessandro Natta e Mikhail Gorbaciov. L’incontro si è svolto in un clima cordiale ed ha toccato tutte le questioni di maggior rilievo della situazione internazionale…I due interlocutori hanno constatato la grande utilità di contatti del genere, convenendo sull’esigenza che essi abbiano una frequenza maggiore…Il tono e il clima dei discorsi pronunciati, oltre che il loro contenuto testimoniano di un’atmosfera particolarmente propizia…Grande lo spazio e il rilievo dato dai media sovietici alla presenza della delegazione del Pci a Mosca…Amicizia e franchezza sembrano essere stati i tratti caratteristici di questo veramente inusuale vertice»25.
La vistosa soddisfazione della direzione del Pci per i risultati di un incontro – che non solo sveleniva gli strascichi delle polemiche (dalla guerra in Afghanistan al golpe in Polonia di Jaruzelski) degli anni berlingueriani, ma soprattutto consentiva al Pci di mantenere il legame storico con l’Urss senza doversi più accollare invasioni militari o gestioni politiche impresentabili -, venne squadernato da Giancarlo Pajetta che, con maggior scioltezza di Giulietto Chiesa, espresse un vero peana per la nuova leadership sovietica:
«I nuovi leader del Cremlino si sono ricordati di essere i figli e i nipoti degli uomini che hanno fatto la rivoluzione di ottobre…Sono arrivato con grandi speranze per tutto quello che avevo saputo e letto sul nuovo corso di Gorbaciov. Ma la realtà che ho trovato è stata ancora migliore delle mie previsioni…Sono rimasto stupito dalla scioltezza, dall’assenza di quel fare pedagogico , quasi missionario, che da almeno trenta anni avevo sentito in ogni incontro con i sovietici. Né Gorbaciov né gli altri si sono sognati di ripetere le formule abituali del tipo “se non siete d’accordo, vuol dire che non avete capito”…Gorbaciov è quanto di più diverso ci si possa immaginare da Breznev. All’inizio quest’ultimo mi era sembrato un uomo semplice ma rigoroso. Poi era cominciata l’involuzione. I suoi ultimi anni, se si esclude lo stalinismo, hanno rappresentato il momento peggiore dell’Urss»26
In questo clima, la decisione di anticipare di un anno il XVII Congresso (dal 9 al 13 aprile 1986) fu l’effetto combinato di tre fattori concomitanti e pressanti: 1) la sconfitta bruciante nel referendum sulla scala mobile e anche il calo elettorale alle elezioni amministrative del 1985; 2) la manifesta assenza di una strategia stabile e convincente per la collocazione politica in Italia e l’agognato accesso al governo, dopo il fallimento del “compromesso storico” e poi dell’alternativa democratica e del governo di solidarietà nazionale (fuor dai bizantinismi, il governo con la Dc nel primo caso, un governo delle sinistre nel secondo, e una “grande ammucchiata” partitica nel terzo), di contro ad un ruolo sempre più dominante di Craxi sulla sinistra e sul governo reale; 3) la vistosa oscillazione tra la fedeltà alla propria storia, con la difesa dell’intero percorso del comunismo italiano e del legame con l’Urss – che la nuova direzione gorbacioviana faceva sperare promettente – di contro alla sempre più manifesta volontà dell’area migliorista (facente capo, dopo la morte di Giorgio Amendola, a Giorgio Napolitano, Gerardo Chiaromonte e Emanuele Macaluso), intenzionata a chiudere con tale storia per entrare ufficialmente nell’alveo della socialdemocrazia europea e in Italia prospettando un processo di unificazione con il Psi (suggerendo anche, se pur non ufficialmente, il cambio di nome del partito), Ma il XVII Congresso non sciolse nessuno di questi nodi. Natta, nella sua oceanica relazione (durò circa tre ore e mezzo, la più lunga nella storia del Pci; e il suo resoconto occupò ben cinque pagine fitte fitte dell’Unità), provò a rispondere ai quesiti insoluti e anche a due pesanti considerazioni circolanti nel mondo politico e sulla stampa, e cioè, come riportò testualmente in una sorta di excusatio non petita, «la dottrina secondo la quale i comunisti italiani, seppure hanno rappresentato qualcosa nel passato sono comunque al termine della loro capacità creativa» e l’accusa che «tutto il nostro contributo, compreso quello dell’ultimo decennio,non sia consistito in altro che nel mantenere ferma una etichetta ideologistica superflua e obsoleta sopra una pratica di piccolo cabotaggio»27. Natta non riuscì, malgrado per oltre tre ore avesse trattato dell’universo mondo e di tutta la storia del Pci, a fugare queste due apparenti maldicenze che probabilmente covavano oramai nelle teste di molti militanti. E soprattutto finì per barcamenarsi, senza scegliere, sia sulla collocazione ideologica e strategica a livello internazionale (con l’Urss e il “socialismo reale” o con le socialdemocrazie europee?) sia su come si potesse arrivare al tanto desiderato (oramai dal 1973) governo del Paese. Sul primo punto Natta riuscì, incredibilmente, a mettere insieme valutazioni lusinghiere su entrambe le pur incompatibili opzioni, e persino a dare analoghi giudizi positivi sulla Cina, malgrado l’oramai annoso conflitto con l’Urss. Vediamoli di seguito.
«Per il compito che sta dinanzi a noi e alla sinistra europea, abbiamo tutti bisogno di un grande rimodellamento programmatico. Ad esso stanno concretamente lavorando ad esempio i socialdemocratici tedeschi, dopo il contributo importante offerto dai socialdemocratici svedesi sotto la guida di Palme, la cui memoria qui noi vogliamo onorare. A tale rimodellamento vogliamo lavorare noi in questo congresso».
«Qualcuno si è stupito che noi abbiamo salutato come positivo il nuovo corso internazionale della politica sovietica, quasi che con ciò sconfessassimo i nostri giudizi di ieri. Al contrario, quei giudizi noi abbiamo confermato: e la visione di ciò che é mutato nella politica estera dell’Urss e l’auspicio di successo non ci porta ad oscurare le dure e irrisolte questioni…(Ma) la ripresa dell’iniziativa da parte dell’Unione Sovietica, dopo così lunga stagnazione, è stata rafforzata dallo svolgimento del Congresso del Pcus: e si è visto quale positivo fattore di movimento essa possa costituire quando sia coerentemente svolta così come è avvenuto anche durante l’ultima crisi nel Mediterraneo».
«La coesistenza pacifica è un obiettivo primario e irrinunciabile, la sicurezza è una necessità collettiva e globale, un bene non ottenibile al di fuori di una grande intesa comune. In tale visione consideriamo anche di grande rilievo la politica estera della Cina, volta a contribuire alla costruzione della pacifica coesistenza, per ragioni che saldano la causa universale della pace ai compiti immensi che quel Paese sta affrontando per elevare e rinnovare la vita di un miliardo di persone».
Anche a proposito della partecipazione del Pci al governo – e va tenuto conto che il Congresso discuteva di prospettive immediate, perché era diffusa la convinzione che il pentapartito guidato da Craxi fosse in crisi e destinato a cadere a breve – nessuna scelta emerse né dalla relazione di Natta né dalle conclusioni. Si affastellarono, come in tutto il periodo berlingueriano, formule generiche e indistinte che lasciavano aperte tutte le strade, dalla alternativa riformatrice alla grande alleanza programmatica, dall’alternativa di programma alla grande alleanza per il lavoro e lo sviluppo, dall’alternativa di programma fino al governo di programma: tutte formule miscelate o alternate in un diluvio infinito di parole e di giravolte, tale da rendere incomprensibile quale fosse la scelta della direzione del Pci. Salvo una distinzione che proprio in chiusura Natta fece: «Per un governo di alternativa democratica, ribadito con forza in questo congresso, gli ostacoli restano molti…e poiché da qui al governo dell’alternativa non c’è una terra di nessuno, per questo abbiamo indicato un governo di programma, sottolineando anche che non vogliamo sottrarci alla responsabilità di affrontare i più urgenti problemi del Paese e favorire il superamento della logica paralizzate del pentapartito». Che, tradotto dal bizantino, poteva voler dirsi disponibili a sostenere un governo che inserisse nel programma qualcosa proposto dal Pci, in attesa che Craxi o la Dc o magari entrambi si decidessero a far entrare al governo anche il Pci. E a tal fine, in conclusione, Natta fece anche professione di modestia per il Pci, forse memore di quanto Scalfari aveva rimproverato, nella famosa intervista già citata, a Berlinguer sulla “diversità” e l’”egemonia”: «Noi non pretendiamo di possedere il vero, o di essere superiori agli altri. Noi sappiamo di essere un’associazione umana fallibile come tutte le altre. E quando Gramsci parlò di egemonia, non intendeva le grossolanità che gli sono state attribuire.. Ma se la parola “diversità” non piace, togliamola pure di mezzo».
Purtroppo per il Pci e per Natta neanche questa disponibilità a tutti gli usi bastò. Il governo Craxi cadde effettivamente il 1 agosto, ma solo per ricostituirsi, e con la stessa formula pentapartitica, una settimana dopo, l’8 agosto e per durare fino al marzo 1987, per dare poi il via ad un alternarsi di presidenti del Consiglio (Goria, De Mita, Andreotti, tutti democristiani ma sempre con un pentapartito di cui Craxi continuò ad essere “socio” di prim’ordine). E dopo questa ennesima delusione un’ulteriore bastonatura il Pci la prese l’anno dopo, nelle elezioni politiche del 14-15 giugno 1987, subendo il più consistente arretramento degli ultimi 25 anni, perdendo il 3,3% e scendendo al 26,5% (sempre dati della Camera) mentre il Psi cresceva del 2,8% e raggiungeva un 14,3% che permise a Craxi di vantarsi di aver preso un partito con a malapena un terzo dei consensi elettorali del Pci e averlo portato ben oltre la metà dei voti dell’ex-“fratellastro”. Dal giorno dopo, su impulso soprattutto di Achille Occhetto, Massimo D’Alema e Goffredo Bettini, a Natta vennero addebitate, anche se non platealmente, colpe non solo sue, visto che aveva seguito fedelmente il solco berlingueriamo, barcamenandosi tra prospettive sempre più divaricanti, nonché il fatto di non avere il carisma (che però aveva coperto una serie di sconfitte) e la capacità di fascinazione, anche verso ambienti lontani dai comunisti, del suo predecessore Berlinguer. Ma il restante gruppo dirigente, dai miglioristi alla corrente di Cossutta fino agli altri ex-berlingueriani, non erano convinti di una sostituzione che avrebbe aggiunto trauma a trauma nella sempre più incerta e dubbiosa base. Però venne colta al volo, in maniera piuttosto spietata, l’occasione che si presentò quando il 30 aprile, durante un’assemblea, Natta ebbe un infarto. Non si trattò di una cosa davvero grave, avrebbe potuto riprendere l’attività. Ma con la scusa della malattia, venne invitato a dare le dimissioni sotto la spinta del cosiddetto patto del garage28 tra D’Alema e Occhetto che, attribuendosi la rappresentanza dei dirigenti più giovani, incontrandosi – dicono alcuni testimoni -nel garage di Botteghe Oscure, si accordarono per sostituire Natta, per “svecchiare” il Pci e per gestirlo con una “staffetta” che prevedeva l’incarico di segretario prima ad Occhetto e poi a D’Alema. Natta si sentì tradito – e lo avrebbe scritto un po’ di tempo dopo – dette le dimissioni abbandonando però ogni attività nel partito; il 21 giugno 1988 Achille Occhetto veniva nominato nuovo segretario del Pci, con alle spalle un presunto gruppo di “giovani” ma in realtà senza aver avviato un lavoro collettivo, bensì in tandem con il “perfido” D’Alema (che a questo aggettivo affibbiatogli da Occhetto – quando nel Pds il sodalizio si sciolse e Occhetto rivisse l’emarginazione di Natta – replicò dandogli dell’”obsoleto”). E sarebbero stati proprio loro l’anno seguente ad avviare lo scioglimento del Pci, con un’insistenza via via più scoperta sul possibile cambio del nome, da utilizzare per la chiusura definitiva con il Pci “sezione italiana del Pcus”. A fare da battistrada comunque fu ancora Napolitano e i miglioristi, gli unici che da anni premevano per abbandonare la barca oramai a rischio di affondamento del “socialismo reale” per approdare sui più sicuri lidi della socialdemocrazia europea e dell’alleanza/unificazione con il Psi.
«Credo che per essere credibili dobbiamo fare i conti, apertamente, con il nostro passato. In ogni caso non mi scandalizzerei di un cambiamento del nome, ma vorrei che fosse legato a dei fatti politici, nel senso di una ricomposizione della sinistra in Italia e in Europa, del superamento pieno delle divisioni e di tutto ciò che di storicamente vecchio e non più sostenibile c’è nella sinistra nel suo complesso… In quanto ad un possibile nuovo nome, il più classico sarbbesenza dubbio “Partiti del lavoro” per un partito della sinistra che, pur rinnovandosi, voglia continuare ad avere una sua connotazione preciso, mentre Partito Democratico sarebbe troppo generico ».29
Certo,un sondaggio del settimanale Epoca sulla proposta di Napolitano non fu per lui molto confortante verificando che non più del 28% dell’elettorato Pci la pensava come il leader migliorista e che la quasi totalità non era disponibile a togliere dal simbolo la falce e martello. Ma Napolitano e i suoi insistettero soprattutto durante il XVIII Congresso del Pci, contando sulla presentazione che dello stesso Congresso – che si tenne a Roma dal 18 al 22 marzo 1989 – fece Occhetto parlando di «un nuovo corso e un nuovo Pci» e di un congresso di «rifondazione, che discuterà anche della possibilità di cambiare nome ma senza accettare diktat altrui. La questione del nome deve essere decisa autonomamente dal partito»30
Solo che quello che doveva essere un Congresso di rinnovamento, rifondazione e soprattutto di precise indicazioni politiche verso un forte avvicinamento alle socialdemocrazie europee e di ricercata sintonia con il Psi, anche in vista di quel famoso governo dell’alternativa da fare insieme, si risolse in una rottura fragorosa propria con il Psi, con Craxi e i suoi che uscirono praticamente furibondi dal Congresso. Si presentò alla tribuna per la relazione introduttiva31 l’Occhetto più ondivago, desideroso di sfoggiare il suo presunto “spessore intellettuale”, quello che nel 1968 parlò alla sua ex-Fgci (di cui era stato segretario nazionale) della «possibile rivoluzione», che a lungo si era pavoneggiato come la sinistra del Pci e che poi, negli anni della sua emarginazione post-1994, arrivò a fare una lista europea con Di Pietro che prese il 2% e nelle elezioni successive dette addirittura indicazione di voto per la lista +Europa della Bonino. Occhetto cercò di volare alto in una relazione di due ore e mezza, trattando a lungo «i grandi temi del destino della civiltà umana..le nuove sfide per la sopravvivenza del pianeta, le sue leggi, le risorse, l’ambiente naturale..la relazione tra ricchezza e povertà in rapporto alla natura…la necessità della coesistenza dei sistemi diversi e la interdipendenza mondiale». Peccato che dopo i voli e svolazzi proto-ecologisti, mondialisti e umanisti, al momento dell’atterraggio Occhetto bruciò in un sol colpo tutto quanto detto nelle settimane precedenti, soprattutto sulla scia dei miglioristi di Napolitano, sulla necessità di impostare un nuovo corso nei rapporti con la socialdemocrazia europea e con il Psi in particolare. Forse preso dall’impulso di non far credere di aver imboccato una strada di subordinazione al Psi, finì per usare toni arroganti e persino sfottenti, ricordando a Craxi (che sedeva, sempre più cupo, in prima fila) che «la chiave dell’alternativa non ce l’ha Craxi…ora tocca al Partito socialista decidere da che parte stare…la definizione dei rapporti di forza tra Psi e Pci è demandata agli elettori»31. E così via. Secca e brutale fu la risposta di Craxi: «Un congresso molto, molto deludente, un progetto politico confuso che non ci riguarda, non ci interessa. Sembra quasi che l’alternativa democratica proposta consista nell’essere tutti contro il Psi. La relazione è stata improntata ad una sostanziale continuità, piena di cose vecchie e perfettamente conosciute, e molto povera e priva di cose nuove, assai poco costruttiva e produttiva ai fini di una significativa evoluzione dei rapporti politici in Italia…Se Occhetto ci dice che i rapporti tra Pci e Psi sono demandati agli elettori, ebbene questa è una sfida che raccogliamo»32.
Occhetto provò a recuperare il clamoroso autogol, non saprei dire quanto involontario o quanto ricercato, ma lo fece con un’intervista della serie “la toppa è peggiore del buco”, addirittura intitolata con una ridicola excusatio non petita «Non è stato il congresso del gelo con il Psi»33.. Ma comunque oramai la frittata era fatta: e tutte le velleità di nuovo Pci e di nuovo corso verso la ricostruzione di un’unità delle sinistre andarono a ramengo. E pochi giorni dopo Craxi metteva un epitaffio sul “gelo” tombale post-Congresso ritornando sul tema del nome:
«Per essere socialisti, bisogna anche chiamarsi socialisti: i latini dicevano che i nomi sono conseguenza delle cose. Invece la risposta data dal Pci nel suo congresso è stata assolutamente deludente: quel partito non sarà più una formazione dogmatica e chiusa ma resta pur sempre incerto e ambiguo, anche a causa di quel ripetere di voler restare comunque comunista»34.
Craxi ottenne poi un viatico decisivo in quelle elezioni europee sulle quali Occhetto aveva sfidato nella relazione congressuale il Partito socialista, affermando che sarebbero stati gli elettori a decidere i rapporti tra Pci e Psi: perché mentre il Pci perdeva quasi 6 punti, scendendo al 27, 5% (anche se va tenuto conto che nelle precedenti elezioni c’era stato l’effetto della morte di Berlinguer), il Psi ne guadagnava 3,6 arrivando ad un suo massimo, il 14,8%. Forte di questo successo, il Psi, per voce di Claudio Martelli, fece appello al Pci affinché confluisse nell’alveo delle socialdemocrazie, e verso l’unificazione della sinistra in Italia:
«Nella giovane guardia comunista c’è disponibilità a cambiare nome al partito, opportunità che va colta. Se si vuole inquadrare il processo di riunificazione nel perimetro della socialdemocrazia europea, allora chiamiamo la nuova formazione unitaria “grande forza socialista riformista” o in qualche altro modo. Non lasciamoci sfuggire l’occasione»35.
Ma non sarebbe stato il Psi ad aiutare “la giovane guardia” a decidere. Il 9 novembre, dopo diverse settimane di manifestazioni e proteste a Berlino Est, il governo della DDR annunciò che le visite a Berlino Ovest e in tutta la Germania sarebbero state consentite. Decine di migliaia di cittadini/e si riversarono intorno al Muro, lo scavalcarono, cominciarono a demolirlo: attività che proseguì indefessamente nei giorni successivi. Era l’inizio della fine del “socialismo reale” in tutto l’Est europeo e poi anche in Urss. E siccome, come dicono gli esperti di diritto o i costituzionalisti, simul stabunt vel simul cadent (“insieme staranno, o insieme cadranno”)…
Solo tre giorni dopo, in beata solitudine e tra la sorpresa generale, dopo mesi di tentennamenti, smentire e ripensamenti, a Bologna, nella sezione Bolognina del Pci, in una riunione di ex-partigiani e militanti, Occhetto annunciò grandi cambiamenti che avrebbero portato al superamento del Pci e alla costituzione di un nuovo partito della sinistra italiana. La coincidenza temporale dei due eventi non sorprese quelli come noi che – come abbiamo cercato di dimostrare e confermare in tutto questo volume – erano stati sempre convinti che il Pci non si sarebbe mai liberato del peccato originale dell’essere nato come creatura sovietica e che non avrebbe mai avuto una reale autonomia ideologica, strategica e politica al di fuori e in conflitto con il campo del “socialismo reale”: e che i fragili tentativi di distacco, condotti in particolare da Berlinguer, non potevano che concludersi con un fallimento, fintanto che la casa-madre in piedi, vigilante e operante. Un vero e completo distacco da quella storia non poteva che significare la resa di fronte all’unico altro progetto di sinistra moderata e riformista rimasto in piedi dopo il Novecento in Europa, abbracciando le sorti della socialdemocrazia storica e rinnegando la ragione sociale della nascita del Pci, quella che aveva provocato la scissione del Partito socialista nel 1921; e che poi aveva portato a replicare la rottura con i socialisti nel 1956 per difendere l’invasione militare dell’Ungheria. Appunto: Urss, “socialismo reale” e Pci, dopo aver vissuto per 70 anni insieme, morivano insieme; e anche in maniera altrettanto ingloriosa, senza dignità e grandezza alcuna, vacua addirittura. Ad Est il “socialismo reale” spariva senza non dico una contro-rivoluzione, un’insurrezione, uno scombussolamento di massa con drammi e tragedie annessi; ma senza neanche la più piccola rivolta per difendere l’esistente, dimostrando inconfutabilmente che quei regimi erano tenuti insieme solo dal controllo ferreo sulla società e che il consenso, malgrado i decenni di propaganda, era pressoché inesistente. Ma anche da noi lo scioglimento, pur con l’opposizione di un terzo del gruppo dirigente e militante e un malcontento diffuso di una parte significativa della base, e senza che venisse data risposta seria alle domande sul perché e sulle prospettive del nuovo partito, dimostrò che alla teoria della “via italiana al socialismo” o all’eurocomunismo o alle altre immaginifiche teorie create negli anni per differenziarsi un po’ dal “socialismo reale” credevano sul serio davvero in pochi. Perché altrimenti, una volta liberatisi del macigno ingombrante del comunismo post-staliniano, non provare a sperimentare la possibilità del tanto vagheggiato e strombazzato “socialismo in una società sviluppata”? O dell’eurocomunismo? Perché liberarsi rapidamente del nome se non perché, senza volerlo ammettere, gran parte del gruppo dirigente da parecchi anni –anche se non aveva mai trovato la forza di sconfessare il peccato originale – aveva smesso di credere nell’attualità non dico del comunismo ma anche di un più prosaico socialismo all’italiana? E che oramai da parecchi anni sapeva bene che la sua funzione era analoga a quella delle più efficaci socialdemocrazie europee, al di là delle falci e martello esibite? E la banalità dell’ingloriosa fine non fu solo dovuta all’inconsistenza ideologica, teorica e culturale offerta dal nuovo gruppo dirigente degli Occhetto e dei D‘Alema, dei Veltroni e dei Fassino, nel momento che avrebbe dovuto essere drammaticamente solenne, visto che si apprestavano a seppellire 70 anni di storia, mentre davano vita ad una nuova creatura lasciandola nella più sciatta e incolore indefinitezza: ma anche nel metodo usato. Per quanto male si voglia parlare dei gruppi dirigenti comunisti italiani del dopoguerra – e noi lo abbiamo fatto senza ipocrisie o indulgenze – un merito va a loro riconosciuto: quello di aver funzionato come un organo plurale e coeso, una sorta di intellettuale collettivo che sbagliò assai spesso ma lo fece insieme, e discutendo molto e riducendo al minimo individualismi, egocentrismi e egolatrie, malgrado l’indubbio culto del leader maximo. E invece nello scioglimento del Pci operarono i più fastidiosi individualismi, egoismi, l’agire da “uomo solo al comando”, con arrivismi e concorrenzialità ben esibiti. Questi micidiali vizi di vacuità, superficialità e cinismo non furono scalfiti dai passaggi, piuttosto penosi e scontati, con cui lo scioglimento del Pci venne sancito; e la nuova creatura il Partito Democratico della Sinistra nacque senza entusiasmo, né forza né convinzione ma con una sorta di “libera tutti” in cui non ci si vincolava ad alcuna opzione teorica o strategia politica precisa ma si dava briglia sciolta a quello che poi sarebbe stato il leit-motiv dei più o meno legittimi “eredi”: la ricerca e il mantenimento del potere allo stato puro, senza vincoli o ingombranti bagagli ideologici, teorici, culturali e morali. Poco o nulla aggiunse a questo panorama liquidatorio e inglorioso il XIX Congresso che si svolse nel marzo 1990, dove le due mozioni che si opposero allo scioglimento e al cambio del nome – quella sostenta da Ingrao, Natta, Tortorella (mentre Pajetta e altri, disgustati, abbandonarono il campo ben sapendo come sarebbe andata a finire), Chiarante, Castellina ed altri/e che volevano il rinnovamento della politica del Pci ma mantenendo il nome; e quella di Cossutta, intenzionato comunque a proseguire il percorso stalinian-togliattiano – raggiunsero rispettivamente il 30% e il 3% dei voti, venendo sonoramente battuti dalla mozione Occhetto- D’Alema (e Veltroni, Fassino ecc.) con il 67% e la riconferma a segretario di Occhetto. Battaglia per puro onor di firma che si ripeté nel ventesimo e ultimo congresso, apertosi il 31 gennaio 1991 a Rimini che sanzionò definitivamente lo scioglimento del Pci a larga maggioranza, nonché la fondazione del Partito Democratico della Sinistra (PDS), avente come simbolo una quercia con alla base la vecchia falce e martello ridotta ad una icona miserella. La pietra tombale su 70 anni di storia venne infine posta nel primo congresso del PDS, dal 31 gennaio al 3 febbraio 1991. Un congresso in sordina, con interventi dedicato in gran parte alla concomitante guerra del Golfo e alle posizioni da tenere nei confronti della presenza militare italiana, dai cui discorsi quasi niente trapelava sul fatto che si stesse compiendo una scelta epocale e la si sarebbe dovuta spiegare con dovizia di argomentazioni e solide pezze d’appoggio per indicare quale sarebbe stato il percorso possibile futuro, con l’Unità (quel giornale che solo 5 anni prima aveva dedicato sei pagine alla relazione congressuale di Natta e poi per quattro giorni altre tre pagine quotidiane agli interventi riportati integralmente) che stavolta metteva il congresso in taglio basso in prima pagina solo il primo e l’ultimo giorno e la relazione e gli interventi in striminziti articoli in pagine interne: quasi che si stesse in una liquidazione di vecchia mobilia di cui ci si dovesse vergognare per la sua vetustà. E sulla pietra tombale l’epitaffio lo mise Occhetto quando – non saprei dire se più con toni grotteschi o surreali – spiegò che il PDS sarebbe stato «un partito aperto, di massa, unito e articolato che si fonderà su quattro aree politico-culturali: le idee del nuovo corso, la tradizione riformista italiana, le idealità comuniste, l’esperienza religiosa»36. Quali idee del “nuovo corso”? Quale tradizione riformista? Quali idealità comuniste? E infine, surreale più di tutto, l’esperienza religiosa sarebbe stata un’area politico-culturale? Eppure ancora una volta la base non più comunista ma pidiessina si bevve l’intruglio. Tranne il gruppo di Cossutta e Garavini che se andarono a fondare quella Rifondazione Comunista, a cui si sarebbe poi aggregato Bertinotti facendo rapidamente fuori il fondatore Cossutta, il quale peraltro non aveva alcuna intenzione di “rifondare il comunismo” perché restava fedele a quello stalinian-togliattiano.
Dunque, amen, una chiusura così ingloriosa non meritava né merita manco una prece. Ma qualcuno/a potrebbe domandarsi: e degli eredi non dite niente? Certo, volendo di potrebbe spulciare e notare che nel cinismo di D’Alema che fa la guerra in Jugoslavia, che cerca l’alleanza con i fascistoidi della Lega spacciati per sinistra e cerca di riscrivere la Costituzione con Berlusconi o che vara la legge di parità tra scuola pubblica e privata, che manco la Dc aveva osato, c’é tutto il D’Alema di prima, quello formalmente comunista. Che negli Zingaretti disposti a governare con chiunque, fossero pure i parassiti scappati di casa e senza arte né parte dei 5Stelle, c’è traccia della doppiezza togliattiana; e che l’incontro desiderato per decenni con i cattolici e la Dc si è realizzata al peggio, con i Renzi, i Franceschini e i Gentiloni, insomma mettendo insieme le ultime file delle due tradizioni. Tutto vero, come anche l’astuzia della ragione preveggente che, all’atto della fondazione del nuovo partito, non lo impegna con nessuna Bad Godesberg, con nessun grande progetto o strategia vincolante, lasciando gli “eredi”, veri o presunti, liberi di agire senza vincoli o legami, liberi di ricercare il potere per il potere, cosa che il PDS e poi i DS e infine il PD hanno fatto senza remora alcuna. Però noi, che pure dalla prima all’ultima pagina di questo libro non abbiamo risparmiato nulla alla “creatura” che male ha vissuto i suoi 70 anni e peggio li ha abbandonati; che siamo stati, credo e spero, severi al giusto, pur tuttavia abbiamo perso la maggioranza delle nostre battaglie politiche, sociali e culturali in più di mezzo secolo di onorevole attività politica, sociale e sindacale. E dunque non amiamo maramaldeggiare: affibbiare ai Longo e ai Pajetta, ai Terracini e ai Natta, ai Berlinguer e agli Ingrao pure la responsabilità delle malefatte dei loro “eredi”, di levatura politica, intellettuale e morale assai inferiori – e pur se ai suddetti in questo libro non abbiamo certo edificato altarini! – sarebbe veramente ingiusto e spietato. Quindi la chiudiamo qui. Quella degli ultimi trenta anni è tutt’altra storia. Alla quale abbiamo partecipato e continuiamo a partecipare intensamente con idee e azioni, buone o meno che siano, ma di cui non potremmo mettere mano qui in un’altra contro-storia degli “eredi”, senza dover produrre un altro libro almeno di uguali dimensioni. E su cui per di più parliamo, scriviamo e agiamo quotidianamente, continuando a lottare contro i nuovi avversari. E chi ne volesse sapere di più non deve far altro che cercarci sui nostri siti o in quelli delle nostre orgaizzazioni37.
Note
1 Fiat, storia di una sconfitta operaia,www.zeroincondotta.org,
2 cfr. Piero Bernocchi, Dal sindacato ai Cobas, Massari Editore, Bolsena, 1993
3 Fiat, storia.., op.cit.
4 l’Unità, 15 settembre 1980
5 Avanti!, 15 settembre 1980
6 Berlinguer replica ai falsi di Piccoli, l’Unità, 27 settembre. Nella stessa edizione, si trova la ricostruzione della giornata di Berlinguer tra i reparti Fiat con le varie affermazioni e impegni presi, in Berlinguer tra gli operai Fiat: «Lotteremo insieme a voi fino in fondo, nessun licenziamento» di Bruno Ugolini.
7 Alfredo Reichlin, Un bene per il paese, l’Unità, 28 settembre 1980
8 S. Ci., Sospesi i licenziamenti Fiat. E’ un primo grande successo, l’Unità, 28 settembre 1980
9 Nel luglio 1980 Umberto Agnelli lasciò ogni incarico operativo alla Fiat, dopo un’intervista (a Repubblica) in cui chiedeva la svalutazione della lira e la libertà di licenziamento come nelle fabbriche estere dei concorrenti. Ma la ragione dell’uscita non fu questa bensì la richiesta di Enrico Cuccia – dal 1949 amministratore delegato di Mediobanca e massimo potere finanziario italiano, vero e proprio guru del capitalismo nazionale – delle dimissioni sue e di Gianni Agnelli. Cuccia, da cui dipendevano buona parte dei finanziamenti alla Fiat, era molto preoccupato per i crescenti debiti che i due fratelli non sembravano più in grado di controllare. Retrocessi i due ad azionisti, seppur di lusso, Romiti, che godeva della fiducia di Cuccia, divenne amministratore delegato unico, separando dunque la direzione effettiva dall’azionariato. E fu lui il conducator della lotta contro gli operai Fiat fino a divenire, dopo averla vinta, un modello per l’intero capitalismo italiano.
10 Stefano Lorenzetto, Arisio: sono pronto a replicare la marcia dei 40 mila alla Fiat di Pomigliano, Il Giornale, 4 luglio 2010
11 Bruno Ugolini, Prima assemblea molto tesa, l’Unità, 16 ottobre 1980
12 Gerardo Chiaromonte, l’Unità, 16 ottobre 1980
13 Aberto Mazzuca, Penne al vetriolo, Minerva, Bologna , pag.550
14 Fiat 1980: le lezioni dei 35 giorni, in www.rivoluzione.red
15 Intervista di Eugenio Scalfari a Enrico Berlinguer, Repubblica, 28 luglio 1981
16 Ricostruire adeguatamente in una nota a pie’ pagina la storia del giornale e del partito fondati da Giannini è impossibile. Comunque per un’informazione sufficiente sull’argomento, possono bastare le ricostruzioni storiche su Wikipedia dove si trova anche una soddisfacente bibliografia.
17 Anche a proposito di Jaruzelski – figura contraddittoria di un militare, divenuto politico, il quale, dopo aver represso Solidarnosc per evitare l’invasione sovietica (così sempre sostenne), le consegnò pacificamente il potere 8 anni dopo – Wikipedia può fornire i riferimenti per una sufficiente informazione.
18 Wojciech Jaruzelski, Stan wojenny w Polsce 1981-1983
19 Lo strappo di Berlinguer con l’Urss, Cinquantamila giorni, Corriere della Sera, pag.74,
20 L’intervento integrale di Cossutta si può leggere nell’edizione del 13 gennaio 1982 de l’Unità.
21 Ugo Baduel, Torna al centro la questione comunista, l’Unità, 7 marzo 1983
22 Il discorso conclusivo del compagno Berlinguer, l’Unità, 7 marzo 1983
23 Ugo Baduel, op.cit.
24 Rocco Di Biasi, Natta: «Tutti tengano conto che il divario non è grande», l’Unità, 11 giugno 1985
25 Giulietto Chiesa, Natta-Gorbaciov, colloqui di grande utilità, l’Unità, 29 gennaio 1986
26 Giancarlo Pajetta, Dopo il viaggio in Urss “La realtà supera le previsioni”, la Repubblica.it, Archivio, 2 febbraio 1986
27 Queste due citazioni e tutte le successive sono tratte dalla relazione di Alessandro Natta al 17° Congresso del Pci, riportata integralmente in l’Unità, 10 aprile 1986.
28 Umberto De Giovannangeli, Occhetto-D’Alema e il “patto del garage”. Retroscena del giorno in cui morì il Pci, intervista a Gianni Cervetti, Il riformista, 11 settembre 2020
29 Giorgio Napolitano, Intervista a Radio anch’io, 12 febbraio 1989
30 Achille Occhetto, Tribuna politica, 16 marzo 1989
31 Relazione introduttiva di Achille Occhetto al XVIII Congresso del Pci, l’Unità, 19 marzo 1989
32 Pasquale cascella, Federico Geremicca, Da Craxi una stroncatura, l’Unità, 19 marzo 1989
33 Intevista a Occetto, l’Unità, 23 mrzo 1989
34 Craxi all’Assemblea degli eurodeputati socialisti a Sorrento, Avanti!, 5 aprile 1989
35 Claudio Martelli, Forza giovane Pci, ti aiuteremo noi a cambiare, Repubblica.it Archivio, 30 settembe 1989
36 Relazione introduttiva di Achille Occhetto al Primo congresso del PDS, l’Unità, 1 febbraio 1991
37 Per quel che mi riguarda, i lettori e le lettrici potranno trovare gran part di quel che ho prodotto almeno negli ultimi 30 anni (e libri e saggi anche precedenti) nel mio sito www.pierobernocchi.it; e sui due siti www.cobas.it e www.cobas-scuola.it tutto il materiale dei COBAS, l’organizzazione a cui appartengo da 32 anni. In quanto a Roberto Massari, oltre alla sua rigogliosissima e brillante casa editrice www.massarieditore.it, il riferimento principale per la sua attività politica è quello di Utopia Rossa, l’organizzazione da lui fondata, il cui sito è www.utopiarossa.org