IL CONFLITTO SIMBOLICO TRA BENE E MALE. La parabola di Cristo e l’Inquisitore

OGNUNO CAINO DI SUO FRATELLO?

L’EGOISMO ALTRUISTA E LA DEMOCRAZIA INTEGRALE: fardello o emancipazione?

RESTIAMO UMANI? Una visione “specista” senza fondamento

Non ho conosciuto personalmente il tanto giustamente compianto, ed eroico, Vittorio Arrigoni. Come tutti/e, al tempo della sua brutale uccisione1 sono rimasto fortemente turbato: cosicché, quando ho appreso quanto usasse l’espressione “restiamo umani” – al punto da renderla una sorta di legge di vita – , data l’ammirazione per la persona e il rimpianto per la sua scomparsa mi è sembrato fuori luogo far notare come non potessi proprio condividerla. Con il passar del tempo, però, la questione – o meglio: la visione dell’umanità che quell’espressione rivela – mi è parsa cruciale, al punto da farmi decidere di affrontarla apertamente, convinto oramai che una visione critica verso di essa non dovrebbe risultare in alcun modo offensiva verso la memoria di Arrigoni. A togliermi le ultime reticenze ha contribuito la recente lettura di un libro che ha come tema-base l’atteggiamento verso l’antropologia o, genericamente, la natura umana, da parte di chi si riconosce nella Sinistra ottocentesca e novecentesca, comunque intesa, in opposizione alla lettura in materia di tutte le Destre conservatrici, liberali o reazionarie, degli ultimi secoli. Il libro è “L’umiltà del male” di Franco Cassano2 ed il tema centrale è esposto fin dalla copertina “Nella partita contro il bene, il male parte sempre in vantaggio grazie all’antica confidenza con la fragilità dell’uomo. Chi vuole annullare quel vantaggio, deve riconoscersi in quella debolezza, invece di presidiare cattedre morali sempre più inascoltate”. Cassano ritiene che le Sinistre storiche in genere non abbiano saputo e non sappiano riconoscersi davvero nelle debolezze umane e tendano a cercare di modificare drasticamente la natura umana per quel che di comune ha mostrato nei secoli; e che invece le Destre abbiano avuto sempre l’abilità di riconoscere e sfruttare le principali caratteristiche “deboli” degli umani. A parte l’uso che Cassano fa delle categorie Bene-Male, lontane dal mio modo di vedere, tale approccio mi pare comunque utile per sondare, entro certi limiti, la relazione tra la politica e la cosiddetta natura umana.

Di sicuro l’estrema fiducia che almeno a parole le varie Sinistre  – dal socialismo utopistico ad oggi – hanno sempre riposto nella potenziale “bontà” della mente umana, quando non violentata da imposizioni sociali deformanti, è fotografata al meglio da quel restiamo umani che presuppone una positività intrinseca dell’umanità. In verità tale presunzione specista 3 la possiamo riscontrare nel linguaggio universale che quasi tutti noi usiamo, magari senza porvi attenzione particolare. “E’ bestiale”, diciamo di comportamenti particolarmente crudeli, ripugnanti o riprovevoli; o con “è un animale”, condanniamo persone macchiatesi di azioni spietate, cattive o antisociali; “ha dato prova di grande umanità”, è il commento che accompagna atti particolarmente meritevoli, generosi e altruisti; e appunto “restiamo umani”, è un invito solenne a tirare fuori un presunto lungo elenco di positività, bontà e pacificità, ritenute da molti/e caratteristiche profonde del genere umano.

All’interno del Lager c’erano sentinelle ogni quindici metri, l’area era coperta da una fitta massa umana, in un fetore disgustoso, sembrava un misto di cadaveri in decomposizione e sterco equino. Le guardie si facevano largo tra i prigionieri colpendoli con i calci di fucile, con l’aria dei pastori che conducono un gregge al mercato. Alla mia sinistra notai il binario che correva lungo il Lager e sui binari era fermo un vecchio treno merci. Le baracche avevano spazio per non più di due-tre mila persone e ogni ‘consegna’ di prigionieri era composta di oltre cinquemila persone. Ciò significava che ogni volta almeno duemila persone si dividevano il poco spazio all’aperto, indifesi sotto il maltempo. Caos, fame, l’orrore era indescrivibile, dominava tutto un fetore bestiale. Dovemmo aprirci un varco attraverso quella massa umana, era una tortura, camminavamo su corpi umani. Due poliziotti arrivarono al cancello con un ufficiale delle SS che urlò un ordine: ‘Silenzio, adesso tutti gli ebrei saliranno su questo treno e verranno portati in un luogo dove il lavoro li aspetta, conservate la calma e non spingete. Chi cercherà di opporsi o causerà panico verrà ucciso sul posto’. All’improvviso e ridendo di cuore, estrasse la pistola dalla fondina e sparò tre volte tra la folla. La sola risposta fu un unico lamento di gente ferita. Lui ghignò, ripose la fondina e riprese a urlare:’Alle Juden, raus, raus’. La folla si accalcava, spinta verso il treno da altri spari, che venivano senza sosta dalle loro spalle. Su ogni vagone del treno c’era posto per una quarantina di persone, ma i tedeschi ne ammassarono centoventi-centotrenta per ogni vagone, spingendo e sparando con i fucili. Il pavimento dei vagoni era cosparso di polvere bianca: i nazisti innaffiarono d’acqua i vagoni già pieni. Capii di improvviso che era calce viva e che c’era un atroce calcolo: la carne umana bagnata a contatto con la calce viva brucia e molti dei poveretti nei vagoni finivano letteralmente bruciati. La calce gli divorava la carne fino alle ossa e così gli ebrei

morivano ‘tra sofferenze atroci, secondo la volontà del Fuhrer’ – come Himmler aveva promesso nel 1942 a Varsavia’. Durò tre ore, finché il treno non fu pieno e partì. Nel Lager rimasero poche dozzine di cadaveri o di moribondi feriti a terra, i poliziotti sparavano qua e là colpi di grazia. Il treno si allontanava tra le grida dei prigionieri che provenivano dai vagoni, quarantasei, li contai tutti; avrebbe viaggiato per circa 130 chilometri, si sarebbe poi fermato in un posto abbandonato in aperta campagna, finché la morte non si fosse diffusa in ogni angolo del suo interno. Durava da tre a quattro giorni. Quando poi calce, soffocamento e ferite avrebbero avuto la meglio sulle ultime urla di dolore, sarebbe venuto un gruppo di giovani ebrei deportati, ancora in forze. A loro toccava eseguire l’ordine di pulire il treno da cima a fondo, svuotarlo dei cadaveri, bruciare le montagne di cadaveri e gettarne i poveri resti in fosse comuni. Durava da uno a due giorni. Intanto arrivavano nel Lager le prossime vittime e tutta la procedura ricominciava” 4.

Questo orripilante brano è stato scritto da Jan Karski, partigiano polacco e agente segreto del governo in esilio per il quale operò in Polonia per organizzare lo Stato clandestino. Con il nome di tenente Witold agì prima nel Ghetto di Varsavia e poi riuscì ad infiltrarsi nel 1942, corrompendo una guardia delle forze ucraine collaborazioniste, nel campo di sterminio di Belzec, il primo Lager, con Treblinka e Sobibor, costruito dai nazisti in Polonia prima che entrasse in funzione quello di Auschwitz. Sembra che sia stato il primo a fornire agli Alleati le prove dell’Olocausto nel Rapporto da cui il brano è tratto, che però venne secretato fino al 1944, quando fu pubblicato a New York. Le forze occidentali non fecero nulla, né diffusero al mondo la notizia dello sterminio in atto. La testimonianza di Karski è stata pubblicata per la prima volta in Germania (e in Europa) l’anno scorso5 e non esiste in edizione italiana. Quando nell’ottobre del 1981 Elie Wiesel lo fece conoscere all’Europa invitandolo ad una conferenza sulla liberazione di Auschwitz, Karski denunciò apertamente la criminale ipocrisia dei governi occidentali che nascosero a lungo l’atrocità di ciò che stava accadendo, pur essendone al corrente. Disse tra l’altro:

Alla fine della guerra mi dissero che né i governi né i politici di alto rango, né gli scienziati né gli scrittori avevano saputo del destino degli ebrei. In realtà lo sterminio di sei milioni di innocenti era rimasto volutamente un orribile segreto. Allora mi sentii ebreo, come i parenti di mia moglie. Ma sono un cattolico praticante. Non sono un eretico però credo profondamente che l’umanità abbia commesso un secondo peccato ‘originale’ e capitale. Obbedendo ad ordini o per assenza di sentimenti, per egoismo o ipocrisia o persino per freddo calcolo, questo peccato perseguiterà l’umanità fino alla fine del mondo” 6 .

Si può discutere sulle dimensioni degli innumerevoli altri orrori di cui significative parti dell’umanità si sono macchiate nei secoli e di cui ci restano segni indelebili, senza contare tutti quelli di cui le tracce saranno sparite magari per sempre; e su eventuali e atroci scale di criminalità tra di essi. Di certo, però, la particolare orripilanza dell’Olocausto colpisce non solo per la vicinanza temporale e geografica a noi occidentali del Novecento, o per la quantità delle vittime, ma forse ancor più per le modalità dello sterminio. La descrizione di Karski testimonia non solo di una crudeltà, di un sadismo e di una ferocia che basterebbero da soli a chiudere ogni discorso specista sull’umanità, come superiore e distante dalla “bestialità” degli altri esseri viventi. Ma l’intera vicenda dell’Olocausto agghiaccia e dovrebbe togliere ogni illusione buonista sugli umani anche per l’enorme e incredibile macchina burocratica che gestì gli stermini; per l’estrema facilità con la quale centinaia di migliaia di nazisti, di collaborazionisti e cittadini qualsiasi parteciparono in prima persona (e spesso con un certo piacere, come traspare dal racconto di Karski e da un’infinità di testimoni dell’epoca) allo sterminio o ne furono complici senza scrupoli; per l’orrendo impegno con cui buona parte di loro contribuì a rendere quanto più alta possibile la sofferenza di milioni di ebrei, omosessuali, nomadi e “diversi” che non avevano partecipato alla guerra come nemici del nazismo. Sull’Olocausto non è possibile mobilitare le solite categorie politiche e psicologiche di tanti altri più ridotti massacri. Non entra in gioco la semplice ferocia della guerra e dei suoi professionisti: sei un nemico, ti devo eliminare con tutti i mezzi. Né la psicopatologia più sadica e disturbata: godo della sofferenza altrui perché in passato (nell’infanzia) mi è stata riservata. Né l’intervento di manipoli di criminali incalliti: la gran parte degli esecutori, nazisti e non, era composta da gente “normale”, del tutto integrata fino a prima della guerra nelle rispettive società, probabilmente stimata come mite, gentile e inoffensiva da parenti e conoscenti; e improvvisamente mutatasi in spietati torturatori e burocratici esecutori della cancellazione quotidiana di migliaia di esseri umani che non avevano mai incontrato prima, e che non avevano recato loro alcun danno o offesa.

Si possono riscontrare però alcune delle caratteristiche della carneficina degli ebrei (seppure non tutte insieme né con tali dimensioni quantitative, né con analoghi caratteri di sterminio burocratico) in altri orrori recenti della storia umana. Nel milione di massacrati in Ruanda, nella guerra tribale tra Hutu e Tutsi, c’era un analogo desiderio di genocidio: la tribù a me ostile deve sparire totalmente dalla faccia della Terra e non faccio differenza tra adulti e bambini, vecchi e giovani, donne e uomini. Gente che fino a poco prima aveva convissuto con intrecci amicali o comunque si era tollerata reciprocamente, di botto prese a farsi a pezzi, anche se magari, a differenza di quanto accadeva nei Lager, senza tener conto del numero di scarpe o di denti d’oro recuperati dai cadaveri. Pure qui la quantità di persone coinvolte in stragi, torture e stupri fu talmente elevata che pensare a soli psicopatici o ad assassini professionali sarebbe escamotage puerile. Immediatamente a ruota nella ripugnante classifica dei crimini collettivi degli ultimi decenni, potremmo collocare le stragi di centinaia di migliaia di cittadini della Cambogia di Pol Pot per volere di un gruppo dirigente che, educato in buona parte in rinomate Università europee, riuscì a creare nel giro di pochissimi anni – e in un paese di formazione spirituale buddista e non-violenta – un vortice di terrificante odio sociale, spingendo anche decine di migliaia di giovanissimi ad essere protagonisti di massacri efferati di una marea di cittadini colpevoli per lo più di avere un qualche decente livello culturale o di possedere piccole proprietà agricole e cittadine o di non essere totalmente succubi di un manicomiale modello sociale che ha gettato sulla parola “comunismo” almeno tanto discredito quanto l’Inquisizione ne ha provocato al cattolicesimo. Ma al di là del ruolo nefasto di tale gerarchia “comunista”, anche la Cambogia conferma la possibilità di far emergere a livello di massa pulsioni crudeli e sadiche oltre ogni limite e ondate di odio parossistico in popolazioni fino al giorno prima apparentemente pacifiche fino alla innocuità più manifesta. 

Nella disgregazione dello Stato jugoslavo le dimensioni dell’orrore sono state quantitativamente più limitate: ma pure qui l’estrema ostilità tra le etnie e le differenti popolazioni fu alimentata e si ingigantì in tempi rapidissimi, agendo su milioni di individui che avevano vissuto in buona coabitazione dalla fine della Seconda guerra mondiale, senza particolari prevaricazioni o violenze da parte di serbi su croati, o sloveni su bosniaci o macedoni. La capacità di crearsi in poco tempo un nemico così ripugnante da meritare ogni sadismo e ogni sofferenza dovrebbe lasciare quantomeno interdetti coloro che ritengono che “restando umani” faremmo un grande affare. Potremmo gettare infine uno sguardo alla Argentina dei generali golpisti: paese “di italiani che si credono inglesi e parlano spagnolo”, come ironicamente gli argentini sono stati spesso definiti. Una popolazione per lo più benestante fino agli anni Sessanta e per decenni vissuta mediamente in un discreto agio – almeno in un raffronto con la restante America Latina – attraversata dalla dolce malinconia dei musicisti e ballerini di tango, dalle melodie tristi e sensuali, e fino ad allora mai coinvolta in stermini di massa o equivalenti orrori sociali, scoprì da un giorno all’altro la passione diffusa verso la tortura più efferata non di cittadini considerati “alieni” – per colore della pelle, etnia, religione, nazionalità – ma dei propri figli (o padri, o fratelli e sorelle), che si divertì persino a gettare vivi dentro l’Oceano da aerei in volo. E anche qui la netta maggioranza dei torturatori o assassini a freddo non aveva in precedenza un curriculum vitae che potesse far presagire una tale trasformazione, né le “offese” sociali ricevute o la modestissima attività guerrigliera di pochi militanti erano state tali da lasciar supporre una simile ferocia di massa. Si potrebbe continuare a lungo, ma gli eventi citati dovrebbero bastare per una prima conclusione generale.

Attribuire tale consapevole crudeltà di massa e tale sorta di piacere diffuso nel procurare morte, torture e sofferenze atroci ai propri simili solo al capitalismo, alle società classiste, ad una educazione repressiva, ad una religione più integralista delle altre, a disfunzioni nella formazione individuale o a degenerazioni psichiche non meglio definite, mi sembra una inconsistente auto-illusione buonista sull’umanità: il comprensibile tentativo di erigere una barriera razionale di fronte a questi orrori partorisce l’autoconvinzione illuminista che mutando l’organizzazione sociale tutto ciò sparirebbe e la bontà umana prevarrebbe sulla passione per la morte e la sofferenza altrui. E’ altamente probabile – molte cose lo fanno pensare, ed è sacrosanto e doveroso lavorare per questo, come molti/e di noi cercano di fare – che società egualitarie e davvero democratiche, ove la giustizia sociale ed economica mettesse tutti/e in condizioni di effettiva parità di convivenza, ed educazioni rispettose della crescita individuale nella maggior libertà di scelta possibile, condite di sana affettività e cura del singolo e del collettivo, potrebbero ridurre di molto tra gli umani la crudeltà, la voglia di morte, il sadismo, la sopraffazione e la cattiveria verso gli altri/e. Ma guai a illudersi sulla esclusiva storicità di questi comportamenti e sul loro derivare solo da una distorta e malsana socialità, dovuta a classismo, diseguaglianze e repressione. Non si può negare che, ripetutamente nel corso della Storia fino ai nostri giorni, un numero assai elevato di uomini ha esercitato una violenza inaudita su altri uomini, provocando loro sofferenze indicibili, non perché costretti, o per ignoranza, o per vendetta: ma per il puro piacere di sottomettere fino all’impossibile i loro simili, distruggendoli fisicamente e mentalmente e godendo di questa distruzione.

In natura praticamente non esistono casi (o sono molto rari e comunque ben difficilmente possono essere catalogati con tale chiave di lettura) di animali che torturino altri esemplari della propria specie e che, per di più, sembrino trarre piacere da tale pratica. Non c’è alcun sadismo nella azione del leone che cattura e sbrana la gazzella: equivale al nostro agire, peraltro neanche indispensabile essendo noi onnivori, quando ci nutriamo di carne e pesce senza per questo provare ostilità verso l’animale che mangiamo, né piacere nell’infliggergli sofferenza. Ma il leone non fa cose del genere ai propri simili. Per esso e per tantissimi altri animali, anche lo scontro per il potere e per il predominio territoriale è per lo più ritualizzato e nella grande maggioranza dei casi non prevede l’uccisione dell’avversario e mai la tortura e la sofferenza gratuita di esso. Si potrebbe sindacare che i gatti a volte sembrano trarre un qualche godimento quando giocano con i ratti come, appunto, “gatto con il topo”. Ma nessuno ha mai assistito a qualcosa di analogo tra gatto e gatto. Dunque, tutto fin qui testimonia come il cervello umano, capace di costruire cattedrali e astronavi interplanetarie, di ideare i computer e le arti più affascinanti ed emozionanti, abbia comunque anche l’orrenda abilità di inventare, procurandosene anche piacere, le modalità più varie, sofisticate e crudeli: dal palo che lentamente attraversa il corpo del torturato dall’ano fino alla gola, alla Vergine di Norimberga le cui punte acuminate penetrano lentamente nel corpo provocando una agonia terrificante; dai cavalli lanciati in direzione opposta che squartano la povera vittima all’interramento con il viso coperto di melassa e divorato dalle termiti; e alle altre migliaia di diavolerie similari nei secoli di storia umana per infliggere morte e massima sofferenza ai propri simili, cose estranee a qualsiasi altra specie vivente sulla Terra. Quindi, direi che lo specismo del “restiamo umani” – come se i connotati principali dell’umanità risultassero la bontà e il rispetto verso i propri simili, mentre la crudeltà, al ferocia e il più efferato sadismo fossero invece caratteristiche animali – non sembra avere alcun fondamento, con tutto il rispetto per le ottime intenzioni di chi attribuisce, almeno potenzialmente, la propria spiritualità e visione dell’umanità a tutti i propri simili.

Il conflitto simbolico tra Bene e Male

A proposito di natura umana, mi addentrerò ora nell’analisi del conflitto simbolico tra Bene e Male attraverso il quale assai spesso si affrontano cruciali conflitti antropologici e sociali, anche se, nel mio intento, sarà soprattutto un esame della diffusa sottomissione di massa al Potere e delle ragioni principali di tale subordinazione e delle sue implicazioni politiche, seguendo alcune tracce del libro di Cassano, che a sua volta fa riferimento a celebri testi sul comportamento della grande maggioranza degli umani di fronte al Potere. Il leit-motiv del libro è, come recita appunto il titolo, la tesi dell’umiltà del Male e dei “cattivi”, contrapposta alla presunzione del Bene e dei “buoni”. Tale tesi ha una proiezione politico-sociale interessante per la nostra analisi, visto che Cassano attribuisce alla Destra politica degli ultimi secoli la capacità di rappresentare con piena accettazione  le parti riprovevoli e cattive degli umani, senza allontanarsene con sdegno, anzi quasi giustificandole e sublimandole nell’azione politica; e di contro, legge nella Sinistra in toto una sorta di aristocratico distacco e incomprensione/cancellazione rispetto alle parti oscure e talvolta ripugnanti del comportamento umano. Dal ché ne conseguirebbe una maggiore capacità e empatia della Destra nel rappresentare politicamente i più vasti settori della popolazione meno colta e meno sofisticata nelle sue auto-rappresentazioni sociali e culturali.

La trattazione di questa cruciale materia viene svolta dall’autore in una sorta di dialogo a distanza con due opere letterarie memorabili e con un celebre dibattito filosofico-politico: a) il capitolo dei Fratelli Karamazov che Dostoevskij dedicò alla figura del Grande Inquisitore; b) la parte de I sommersi e i salvati in cui Primo Levi trattò lo sconvolgente tema della cosiddetta zona grigia nei comportamenti dei deportati nei Lager nazisti; c) la polemica pubblica, radiofonica, tra Theodor Adorno e Arnold Gehlen sull’agire umano e la sua fonte primaria (natura o cultura? genetica o formazione intellettuale?). I due parametri di riferimento per questa disamina, nella prima parte del libro, sono per l’appunto il Bene e il Male: entità a mio avviso inappropriate nella trattazione antropologica, ma che per ora non contesterò, poiché le argomentazioni di Cassano hanno un valore che consente comunque una buona analisi del tema malgrado le categorie simboliche usate.

L’ipotesi iniziale del libro è che oggi il Male, nella sua lunga sfida contro il Bene, parte con un margine di vantaggio difficile da annullare…che dipende in primo luogo dalla sua ‘umiltà’, da un’antica confidenza con la fragilità dell’uomo, che gli permette di usarla per i propri fini. Del resto chi lavora sulle tentazioni non può non conoscere le nostre debolezze. Il Bene, invece, è così preso dall’ansia di raggiungere le sue vette che spesso finisce per voltare le spalle all’imperfezione dell’uomo. Chi ha gli occhi fissi solo sul Bene, spesso ha deciso di guardare altrove: l’urgenza di giudicare, di misurare l’essere sul metro del dover essere, lo porta a guardare con impazienza chi rimane indietro e tale mancanza di curiosità lo porta alla sconfitta. Il Male approfitta della distrazione e della boria del Bene per mettere le tende e costruire alleanze”7.

Cassano inizia a supportare questa tesi con il primo dei riferimenti letterari del libro, la figura dostoevskiana del Grande Inquisitore – come narrata da Ivan al fratello Alioscia – che ingaggia un  confronto-scontro con il Cristo, ri-sceso in Terra per aiutare l’umanità8. Il racconto parte da una piazza della Siviglia del XVI secolo dove erano stati bruciati dall’Inquisizione più di cento eretici e dove la folla pregava affinché a salvare l’umanità tornasse il Cristo: il quale, mosso a compassione, si ripresenta nella piazza con lo stesso corpo raffigurato nell’iconografia, attirando così la folla che chiede miracoli che egli concede. La scena viene osservata dal Grande Inquisitore, un vecchio novantenne ancora forte nel fisico che, riconosciuto il Cristo, lo fa arrestare senza che la folla succube faccia la minima resistenza. E poi, nella notte, si reca a far visita al prigioniero e, dopo avergli annunciato che lo manderà al rogo la mattina seguente, avvia nei suoi confronti un monologo (il Cristo non risponde mai) accusatorio.

In un straordinario e sorprendente rovesciamento dei ruoli, Cristo non è prigioniero di un potere avverso o estraneo alla religione cristiana, ma di un prelato che deriva la propria autorità dalla sua predicazione e dalla fedeltà ad essa. Questo rovesciamento è il cuore della Leggenda e il Grande Inquisitore darà una lucida e risentita spiegazione delle sue buone ragioni…E’ soprattutto sulla concezione della fede proposta da Cristo che l’Inquisitore ha un rimprovero durissimo da muovere: consegnando la fede ad un atto di libertà, egli ha proposto agli uomini un compito del tutto superiore alle loro forze. Gli uomini, dice il vecchio prelato, non sono fatti per la libertà perché non ne sono all’altezza…E’ una concezione aristocratica che può essere fatta propria solo da una ridotta schiera di eletti, ‘dodicimila per ciascuna generazione, capaci di sopportare decine di anni di nudo deserto nutrendosi di locuste e radici’ 9, mentre gli uomini sono nella loro grande maggioranza molto inferiori alle pretese del Cristo. Noi, afferma l’Inquisitore riferendosi alla Chiesa cattolica, ci siamo preoccupati non degli eletti dalle doti spirituali superiori, ma della stragrande maggioranza degli uomini che non sono dotati delle loro capacità” 10.

Questo il cuore della critica dell’alto prelato al Cristo e, nel contempo, la rivendicazione del comportamento della Chiesa cattolica che, proprio perché terrebbe conto della debolezza della grande maggioranza degli umani, secondo l’Inquisitore saprebbe amarli molto più realisticamente.

Che colpa hanno tutti gli altri, i deboli, se non sono stati capaci di sopportare quello che hanno sopportato i forti? Che colpa ha un’anima debole se non è in grado di accogliere in sé doni tanto tremendi?…Tu sei orgoglioso dei tuoi eletti, ma con te ci sono solo gli eletti, mentre noi diamo la pace a tutti” 11.

Un uomo normale – getta in faccia l’Inquisitore al Cristo – si sarebbe immediatamente accordato con Satana (si riferisce alle tentazioni del Cristo nel deserto, da parte del diavolo), accettando di buon grado il potere sul mondo e la capacità di trasformare la materia inerte in cibo e beni consumabili, nonché il supporto permanente degli angeli in suo soccorso nelle necessità.

Libertà e pane terreno a sufficienza per ciascuno non sono concepibili insieme, perché giammai sapranno farsi le giuste parti tra loro…e gli uomini non potranno mai essere liberi perché sono deboli, pieni di vizi, inconsistenti e sediziosi” 12.

Da tale scontro dialettico tra visioni opposte della natura umana, Cassano trae questa conclusione:

Il ruolo della Chiesa nasce da una visione dura e spietata dell’uomo, da una ricognizione delle sue debolezze, dalla convinzione che egli sia incapace di vivere con la libertà, da cui, sostiene l’Inquisitore, l’uomo ricava solo incertezza, angoscia e smarrimento. Egli non ha la tempra per affrontarla, cerca beni diversi, vuole sicurezza, certezze a cui appoggiarsi, vuole ‘il miracolo, il mistero e l’autorità’13, esattamente quei beni che Cristo ha rifiutato nel deserto, vuole il pane terreno e non quello celeste…In altre parole, il magistero della Chiesa è il corrispettivo della insuperabile fanciullezza degli uomini, della loro impossibilità di diventare liberi e autonomi, rispondendo alla loro richiesta di assumere su se stessa l’insopportabile onere della decisione…Alla base c’è una concezione spietata e pessimistica della natura degli uomini: essi vogliono essere liberati dalla loro libertà” 14.

Effettivamente Dostoevskij descrive con la figura del Grande Inquisitore un tratto cruciale della ideologia delle gerarchie cattoliche: e Cassano sembra farsi portavoce del grande scrittore russo. Da questa duplice lettura emergerebbe una religione sì pessimistica e cinica, ma in qualche modo costretta per necessità, per limitare i danni all’umanità, a mentire sistematicamente e a privare gli umani della libertà per il loro stesso bene. In realtà, Cassano parrebbe trascurare in questo caso il ruolo dell’ideologia come falsa coscienza: e cioè il fatto che la Chiesa cattolica, gigantesco apparato di potere terreno, fornisca, sia nella formulazione dell’Inquisitore sia nelle varie teorie elaborate dal papato nei secoli, semplicemente una falsa e auto-assolvente lettura del reale che ne giustifichi l’assunzione del massimo – in quanto a continuità e invadenza universale – potere temporale negli ultimi quindici secoli. Insomma, a parer mio non abbiamo a che fare con spietatezza e cinismo “a fin di bene”, e men che meno con compassione e intenti umanitari, bensì con una pluri-secolare ideologia del Potere. Una religione che fondasse davvero la propria azione su un tale giudizio drastico degli umani, cioè di quello che viene presentato come il principale prodotto divino, non potrebbe evitarsi, se in buona fede, una opinione altrettanto miseranda del Dio creatore che avrebbe messo al centro dell’universo un’opera così deficitaria: si tratterebbe, quantomeno, di un Dio sadico, che gode di una creatura debole, sottomessa, incapace di autonomia e libertà, sofferente e sbandata. Saremmo di fronte ad un orrendo papocchio morale, filosofico e intellettuale. Però qui non ci interessa la disamina del ruolo della Chiesa: e alla fin fine neanche troppo a Cassano, che vi fa riferimento per un discorso più ampio.

C’è qualcosa di vero in questa descrizione? Essa è solo una miscela di aspirazione al potere, di disprezzo e strumentalizzazione della debolezza degli uomini o lascia intravedere un problema che va al di là della semplice polemica di Dostoevskij contro la Chiesa cattolica? Rappresenta solo una forma di potere o è qualcosa di più, è la radice che alimenta ogni potere?” 15.   

Per Cassano la risposta è palesemente la seconda: è il Potere terreno, in genere, il vero destinatario del messaggio. In effetti tutte le Destre politiche ed economiche – intese come le forze che nei secoli hanno gestito società classiste basate sulla diseguaglianza sociale e dei poteri, sull’assenza di una democrazia tra eguali – religiose o atee, ad Oriente come ad Occidente, nel capitalismo o nelle fasi precedenti dello sviluppo umano, hanno più o meno tutte fornito una lettura del mondo e degli umani assai simile a quella che l’Inquisitore sbatte in faccia al Cristo muto di Dostoevskij. E, suggerisce tra le righe Cassano, proprio (o soprattutto) per questo hanno finito per vincere nella grande maggioranza dei casi. Perché dall’altra parte della barricata, ci continuano ad essere i corrispettivi politici del Cristo narrato da Ivan: quelle variegate Sinistre che invece, almeno a parole, vorrebbero cambiare il mondo e le teste, ma guidate dallo stesso aristocraticismo etico del Cristo di Dostoevskij, metafora di un diffuso atteggiamento degli spiriti più “elevati” (o che si presumono tali).

L’errore che il Grande Inquisitore rimprovera a Cristo è comune a tutti coloro che, mossi da una forte spinta ideale, si gettano impetuosamente in avanti, scoprendo poi dolorosamente non solo di non avere più amici alle spalle, ma di essere circondati dall’indifferenza se non addirittura dall’ostilità. Il vantaggio dell’Inquisitore, che gli ha permesso nel corso di quindici secoli di occupare ed usurpare lo spazio della predicazione evangelica sostituendo ad essa una macchina di potere, sta tutto nella sua visione più realistica dell’uomo, nella scelta di attenderlo non alle grandi imprese edificanti, ma nel momento della debolezza e del bisogno, perché crede che la verità dell’uomo risieda soprattutto nella sua perenne e insanabile immaturità…La ‘Leggenda’  illumina il rischio, che costantemente circonda gli spiriti più elevati, di essere così davanti e più in alto rispetto ai propri simili da rimanere soli, poche decine di migliaia contro innumerevoli decine di milioni..lasciando un enorme spazio ad un potere lucido e disincantato, interessato ad esaltare e assecondare la debolezza degli uomini per farne l’alimento della propria esistenza e stabilità” 16.

L’Inquisitore non appare solo uomo di potere interessato alla sua pura conservazione. Egli mette in estrema difficoltà il Cristo – e con esso coloro di cui egli rappresenta una metafora, gli spiriti “eletti” e le autonominatesi avanguardie intellettuali, morali e politiche dell’umanità – facendogli seccamente notare come la sua “predicazione rivolta proprio agli ultimi e agli umili, lungi dal dedicarsi ai più deboli ha di fatto proposto una gerarchia al cui vertice sono gli eletti, i più puri e i più forti17. Non sembra anche una fotografia del percorso di tante avanguardie comuniste e rivoluzionarie del Novecento e in particolare dei nuovi poteri dei “socialismi realizzati”? E non è anche una efficace descrizione di come il Potere, temporale o spirituale, riesca ad isolare le leadership dalle masse agognate, che vorrebbero difendere illuminandole con il proprio pensiero (da Platone a Lenin, dal Partito dei Custodi agli innumerevoli Partiti simil-bolscevichi) ma da cui si ritraggono e si separano quando non corrispondono al modello ideale prodotto dalle menti degli “scienziati” sociali e politici e dal loro aristocraticismo?

La ‘Leggenda’ ci consegna un quadro preciso del modo in cui il potere lavora alle spalle degli uomini più integri, mirando ad interrompere le comunicazioni tra essi e quelli meno forti, più esposti all’insidia dei bisogni terreni, tra i migliori e tutti gli altri, riuscendo ad avvelenare i pozzi, lasciando gli eletti senza eserciti e arruolando la grande maggioranza degli uomini alle proprie dipendenze..Il segreto del Grande Inquisitore è tutto qui, è il segreto di una passione per il potere che non è fine a sé stessa, ma nasce da una infinita e realistica sfiducia negli uomini e da un fastidio per l’arroganza degli eletti” 18.

Però l’Inquisitore, come tutti i poteri terreni che si comportano come lui, modifica e violenta la realtà umana e sociale. Se tra il desiderio di autonomia e libertà e quello di sottomissione e dipendenza c’è una intera gamma di variabili, è indubbio che il Potere che gioca sulle debolezze umane opera brutalmente e assiduamente per ingigantirle e renderle immodificabili.

Il Grande Inquisitore lavora a dividere gli uomini migliori dagli altri, a presentarli come un’aristocrazia boriosa e innamorata della propria perfezione. Lo scarto su cui lavora è reale, ma egli lo esaspera, lo accentua, lo porta ben oltre il punto in cui lo aveva trovato, coltiva e alimenta la debolezza dell’uomo, perché è il fondamento della sua forza. Egli si è alleato con la debolezza degli uomini, la moltiplica e la usa come uno scudo contro i migliori tra essi. Il suo pessimismo è in realtà una guerra antropologica preventiva ed efficacissima contro la speranza” 19.

Dunque, uscendo dalla dicotomia Bene-Male, possiamo arrivare ad una prima conclusione per quel che riguarda il conflitto tra chi vuole migliorare la società – rendendo vincenti la solidarietà, l’eguaglianza e la giustizia sociale tra gli umani e dunque modificando profondamente i poteri esistenti basati su gerarchie, diseguaglianze, ingiustizie e sul dominio del profitto e della mercificazione a scapito delle più vere esigenze umane – e chi la vuole conservare così come è, e a tal fine utilizza e accentua le divisioni, le debolezze, le paure degli individui. Se ribellarsi è giusto, la cosa più difficile è come comportarsi con chi – quasi sempre un’ampia maggioranza – quotidianamente non si ribella e subisce: e di certo, l’errore più clamoroso è quello di esaltare la propria diversità e coerenza, disprezzando i  comportamenti di massa ma finendo per compiacersi della propria idealità e rischiando così l’impotenza, l’isolamento e l’emarginazione.

OGNUNO CAINO DI SUO FRATELLO?

Per cercare di guarire dalla presunzione e dall’aristocraticismo etico è altrettanto utile della parabola dostoevskijana l’ammirevole rigore con cui Primo Levi – il secondo riferimento del testo di Cassano – contrasta in I sommersi e i salvati20 qualsiasi forma di “pigra presunzione del bene”, scarnificando spietatamente le impressionanti contraddizioni del comportamento umano emerse nell’esperienza estrema dei Lager nazisti.

Il cuore del libro non mira a relegare l’Olocausto in una assoluta incomparabilità con altri crimini di genocidio, quasi a segnare una sorta di elezione al rovescio del popolo ebraico. Al contrario Levi vede nell’esperienza del Lager una sorta di paradigma esemplare…che sta nel fatto che al suo interno non era possibile alcuna forma di resistenza, che qualsiasi ostacolo all’esercizio totale del potere era liquidato preventivamente…Quel sistema costituisce la versione più pura e perfetta del potere, quella che è riuscita ad eliminare ogni attrito e a ridurre la resistenza al suo grado zero. Qui il potere può tutto…E quel che è avvenuto nei Lager, ammonisce Levi, può accadere di nuovo dappertutto” 21.

Nel suo libro Levi descrive con precisione chirurgica i meccanismi con i quali nei Lager veniva distrutta la dignità e il rispetto dell’essere umano, fondamentali ostacoli agli abusi del Potere e molle essenziali di ogni forma di resistenza e ribellione. Quelli che Levi chiama i rituali di ingresso (vedi l’atroce testimonianza iniziale di Karski) nel Lager furono decisivi per estirpare ogni senso della propria dignità finanche dalla memoria dei deportati, ma anche per eliminare subito i migliori, o più precisamente coloro che più di altri/e reagivano ai soprusi e alle violenze. Ribellarsi nei Lager, ci ricorda Levi, significava “suicidarsi, morire di una morte solitaria ed atroce, davanti agli occhi di tutti e contemplando l’assoluta inutilità di un gesto coraggioso, che non solo non indebolisce il sistema, ma lo perfeziona perché conficca ancora più in profondità nelle coscienze un sentimento di assoluta impotenza22.

Ne conseguirebbe un insegnamento amaro da non dimenticare – sembra dirci Levi – neanche in circostanze meno tragiche, a proposito della ribellione e della rivolta, dei suoi effetti nelle varie situazioni sociali e soprattutto in quelle ove il Potere si esercita in forme spietate. In tali contesti, non è per nulla scontato che l’atto ribelle e rivoltoso produca effetti positivi o imitativi. Se esso infatti ottiene come reazione “una punizione esemplare e umiliante, perfeziona il sistema23. Levi non invita alla rassegnazione e alla passività, ma nell’analizzare i comportamenti del Potere e delle vittime in un caso estremo, è soprattutto preoccupato di mandare all’umanità un monito cruciale: e cioè che nei Lager, e in genere nei casi di massima libertà di azione del Potere, sono proprio i più coraggiosi e i più combattivi ad essere eliminati per primi, mentre chi si salva è colpito, se conserva una qualche sensibilità e coscienza di sé, dalla profonda vergogna di essere sopravvissuto al posto di “un uomo più generoso, più sensibile, più savio, più utile, più degno di vivere…I ‘salvati’ del Lager non erano i migliori. Sopravvivevano di preferenza i peggiori, gli egoisti, i violenti, gli insensibili, i collaboratori della ‘zona grigia’, le spie24.

O più semplicemente chi, capendone le conseguenze mortali, non se l’era sentita di ribellarsi e magari aveva collaborato in qualche forma con i nazisti, aprendo un micidiale processo in cui l’autodifesa “biologica” del proprio Io finiva per distruggere ogni solidarietà tra gli oppressi e per consegnare qualcun altro nelle mani degli oppressori e dei torturatori.

Ci si accorgeva subito che il nemico era intorno ma anche dentro, il ‘noi’ perdeva i suoi confini, i contendenti non erano due, non si distingueva una frontiera ma molte e confuse…e nel Lager ognuno diveniva il Caino di suo fratello…mille monadi sigillate, impegnate tra loro in una lotta disperata, nascosta e continua25.

Levi scava lucidamente in animi umani messi nella più estrema delle condizioni ma segnala anche una modalità, quella per cui ognuno diventa il Caino di suo fratello che, seppure in situazioni meno tragiche, nella storia dei conflitti sociali si è ripetuta innumerevoli volte e che nella terminologia comunista abbiamo denominato eufemisticamente contraddizioni in seno al popolo. Nel Lager, secondo Levi, la forma di alleanza prevalente non era quella tra detenuti, in contrapposizione agli aguzzini nazisti, ma la coalizione degli “anziani” contro le “matricole”, gli ultimi arrivati su cui veniva rovesciata una parte della violenza già subita dai nazisti.

La folla disprezzata degli anziani tendeva a ravvisare nel nuovo arrivato un bersaglio su cui sfogare la sua umiliazione, a costruirsi a sue spese un individuo di rango più basso su cui riversare il peso delle offese ricevute dall’alto26.

Questa dinamica micidiale, che pure in contesti non così tremendi i comunisti del Novecento hanno sempre catalogato ottimisticamente tra le “contraddizioni in seno al popolo”, è ad esempio dello

stesso tenore di quella lotta tra ultimi e penultimi, tra salariati stanziali e migranti a cui assistiamo in Europa (e non solo) oramai da decenni e di cui ho parlato in tanti dei miei scritti: ma più in generale ritorcere i soprusi, le umiliazioni e le aggressioni non verso il Potere che te li infligge ma verso chi sta ancora peggio di te, pare che sia una dinamica umana ultra-secolare che travalica sistemi sociali, forme di potere, latitudini ed epoche storiche. Ed il Potere, da sempre profondo conoscitore delle debolezze umane che sfrutta appunto per edificarsi e conservarsi, usa da almeno una trentina di secoli questa dinamica per consociare alle proprie malefatte il maggior numero di vittime.

Il potere non sta fermo, ma contagia e corrompe, mira a coinvolgere nelle proprie trame anche chi in un primo tempo è estraneo ad esse: reclutando collaboratori tra le vittime, esso ne ferisce a morte le anime…La cancellazione degli esempi nobili è da sempre uno degli atti di insediamento di un potere maligno. Laddove il potere fosse più blando, intervengono altre strategie, quelle della denigrazione e dell’isolamento che mirano a screditare i migliori, a infettare il loro esempio per tenerli lontani da tutti coloro che potrebbero imitarli. Nel Lager invece la pena è massima e il suo effetto è quello di rendere tutti i superstiti più nudi e deboli di prima, più pronti a piegarsi e a collaborare. Sta forse qui il punto di contatto tra la nozione leviana di ‘zona grigia’ e quella di ‘banalità del male’di Hannah Arendt 27 28.

Questa considerazione finale di Cassano è stata avanzata in primis dallo stesso Levi:

La tesi della ‘banalità del male’ assomiglia a quello che sto dicendo. Cioè, non si parla di mostri. Io di mostri non ne ho visto neanche uno 29.

Ma Levi fa anche una netta e severa distinzione tra vittime e carnefici, polemizzando aspramente con Liliana Cavani – regista, tra gli altri, di Il portiere di notte – che, a proposito di Bene e Male, se ne era uscita con questa affermazione: “Siamo tutti vittime e assassini e accettiamo questo ruolo volontariamente. Solo Sade e Dostoevskij l’hanno compreso bene”.

In essa c’è una malattia morale o un vezzo estetistico o un sinistro segnale di complicità; è soprattutto un prezioso servigio reso ai negatori della verità…So che vittima incolpevole sono stato ed assassino no30.

Insomma, Levi non assolve ma neanche condanna i deportati, triturati nella macchina infernale dei Lager, umanità “media” che non poteva comportarsi come “i santi e i filosofi stoici”: egli li considera non passibili di giudizio, in quanto immessi in una situazione estrema. Ma da tale stato intollerabile Levi trae una conclusione più generale, che dovrebbe essere sempre tenuta presente nell’azione di chi vuole cambiare la struttura della società, battendosi contro i poteri che impongono l’ingiustizia sociale ed economica.

Sull’uomo Levi ricorda il giudizio di Thomas Mann: è ‘una creatura confusa’, nella quale la confusione cresce in proporzione alle tensioni che su di essa si esercitano. Bisogna sottrarsi al lato più perverso del disegno nazista: aver coinvolto nel suo disegno una parte delle sue vittime, spostando su di esse la propria colpa. A questo gioco non si può stare, e parlare dell’esistenza di una zona grigia non significa confondere vittime e carnefici, ma mostrare invece la debolezza degli

uomini, la loro indecifrabilità quando si trovano di fronte a situazioni estreme, in una situazione di totale subordinazione all’arbitrio altrui…Ogni essere umano è indecifrabile anche a se stesso, non sa quale sia la sua riserva di forza” 31.

Considerazioni condivisibili queste di Cassano, che interpreta bene il pensiero di Levi. A cui aggiungerei, però, che tale debolezza non scatta solo in situazioni estreme o di totale subordinazione, ma  spesso pure nei conflitti “normali” con il Potere e con il dominio altrui: cioè in quegli scontri tra potenti e subordinati, che riguardano tutta l’attività sociale, sindacale e politica di chi vuole affermare i diritti degli sfruttati, dei deboli ed indifesi. E poiché i temi della paura, della debolezza, delle ambiguità umane e della sottomissione, non entrano in ballo solo in situazioni simil-Lager ma sono moneta corrente nei conflitti, è bene che coloro che si battono per cambiamenti egualitari nella struttura sociale non li dimentichino mai, e non pensino che sia sufficiente un corretto approccio politico, obiettivi condivisi e una riconosciuta leadership nelle lotte dei movimenti, dei salariati e delle classi popolari perché il conflitto vada a buon fine e le insicurezze e paure dei singoli nei confronti del Potere spariscano di botto. E tra le debolezze e le ambiguità della mente e dei comportamenti umani non va mai dimenticata quella che è forse la tentazione più forte che può corrompere ogni animo e che motiva ad esempio tanti ribaltamenti di pensiero e di comportamento da parte di organizzazioni e singoli impegnati nei progetti di trasformazione sociale: l’esercizio del Potere. Scrive Levi a tal proposito:

Il potere esiste in tutte le varietà dell’organizzazione sociale umana, più o meno controllato, usurpato, investito dall’alto o riconosciuto dal basso, assegnato per merito o per solidarietà corporativa o per sangue o per censo: è verosimile che una certa misura di dominio dell’uomo sull’uomo sia inscritta nel nostro patrimonio genetico di animali gregari 32.   

E, aggiunge Levi, non è detto che il Potere sia intrinsecamente nocivo alla collettività e forse, in una certa misura, è pure inevitabile nell’organizzazione della vita sociale. Solo che esso rappresenta nello stesso tempo un fortissimo pericolo per il mutamento dello status mentale del singolo e del gruppo (politico o sociale che sia) se non viene controllato e ostacolato grazie ad una opera soggettiva e collettiva di coscienza e contrasto.

Il potere è come la droga: il bisogno dell’uno e dell’altra è ignoto a chi non li ha provati, ma dopo l’iniziazione, che può essere fortuita, nasce la dipendenza e la necessità di dosi sempre più alte, il rifiuto della realtà e il ritorno ai sogni infantili di onnipotenza 33.

Facile dire che l’esperienza del “socialismo realizzato” e di buona parte del comunismo novecentesco – partita da progetti epocali di emancipazione, eguaglianza sociale e democrazia reale e poi tradottasi o, ad Est, nell’imposizione di società antidemocratiche e oppressive o, ad Ovest, in clamorose trasmigrazioni di partiti e sindacati di estrazione marxista e comunista nel campo capitalistico – costituisce l’ennesima conferma della validità storica – che travalica i secoli e le latitudini – del severo richiamo di Levi ai punti deboli del comportamento umano, così come ci è apparso finora, mediamente, dalla storia di almeno trenta secoli di organizzazione sociale collettiva.

L’EGOISMO ALTRUISTA

Quanto fin qui detto, riprendendolo da Dostoevskij/Cassano, sulla cosiddetta umiltà del Male, sull’aristocraticismo del Bene e sulla maggior aderenza del primo a ciò che ho definito in termini generali e storici natura umana, va  approfondito per ragionare non già sulla dicotomia Bene-Male, che non rientra di per sé nella mia visione del mondo e degli umani, ma sul conflitto con il Potere e sulla democrazia auspicabile e possibile in una società benicomunista, o comunque positivamente trasformata. Mi sembra che il modo più utile per farlo sia in primo luogo quello di uscire dalle polarità Bene-Male e Cattivi umili-Buoni aristocratici, per provare invece a sviscerare la contraddizione che a me pare essere alla base di queste categorie morali e che è insita in ognuno degli individui del pianeta,  indipendentemente dalla collocazione sociale o dagli orientamenti politici, ideologici, culturali, morali e religiosi di essi: quella tra egoismo e altruismo, o più precisamente tra difesa del Sé (individuale) e difesa del Noi (collettiva);  o anche, come segnala Eugenio Scalfari in una recensione del libro di Cassano, tra amore di sé e amore degli altri 34.

Su cosa reggono i concetti di Bene, di Male, di peccato? Una risposta interamente laica potrebbe riferire quei concetti alla società: è Bene ciò che aiuta la società a crescere e a durare ed è Male ciò che minaccia di distruggerla. Salvezza e redenzione scompaiono da questa polarità puramente terrena. Al posto della salvezza si installa il concetto di felicità. E’ un bene perseguire una felicità puramente individuale e immediata, mirante alla soddisfazione degli istinti, oppure una felicità di lunga durata, valida per i propri figli e nipoti e connessa alla solidità delle istituzioni? Si pone a questo punto la domanda di quali siano le istituzioni più idonee a costruire e guidare una società giusta e partecipata. Entra in scena il concetto di democrazia 35.

Una volta trasferito su questo piano il conflitto tra Bene e Male, distinguere ciò che “aiuta la società” (l’azione buona, dunque il Bene) da ciò che “minaccia di distruggerla” (l’azione cattiva, quindi il Male), comporta l’inevitabile traslazione sul piano dell’agire politico e sociale e dei processi di decisionalità democratica, unici elementi per far giudicare le popolazioni su ciò che migliora le proprie società organizzate e su ciò che le danneggia, e dunque sulla distinzione non più tra gli astratti Bene-Male ma tra concrete azioni utili o dannose. Però la democrazia, per quanto la si voglia prefigurare ampia, giusta ed egualitaria, deve sempre fare i conti – una volta accantonata, come suggerisce laicamente Scalfari, l’idea di salvezza divina, cioè di un fine extra-terreno e di un senso metafisico della vita e delle società – con una fondamentale contraddizione della mente umana e della condizione dei singoli individui.

Il Bene e il Male sono concetti elaborati dalla nostra mente per dare un fondamento etico ai nostri comportamenti e un senso alla nostra vita. Gli altri esseri viventi ignorano che cosa sia l’etica, non possiedono un’identità consapevole, non hanno capacità di pensare se stessi e il mondo. Noi l’abbiamo quella capacità e proprio per questo siamo una specie drammaticamente infelice… (Ma) il senso c’è se il nostro pensiero si rassicura sull’esistenza di un destino, e la religione – scrisse Pavese – consiste nel credere che tutto quello che ci accade è straordinariamente importante: il che però è un semplice esorcismo creato da noi stessi per combattere l’idea della morte. La realtà è che non esiste alcun senso ultimo della vita: siamo noi che ce lo inventiamo per rassicurarci…Esistono invece l’amore verso se stessi e l’amore verso gli altri. Due istinti che convivono dialetticamente, e la cui agitata e straordinariamente fertile convivenza tesse il racconto della vita individuale e la storia delle società… Ciò che ci accade dipende in gran parte dalla modulazione di quei due amori, e per il resto dal caso…L’amore per gli altri e l’amore per se stessi (‘il dover essere’ e ‘l’essere’, secondo Cassano, che li considera ‘regni eterogenei’) convivono e non sono eterogenei, perché sgorgano dal comune istinto di sopravvivenza. Sono entrambi necessari. Il primo mira alla sopravvivenza della specie, il secondo a quella dell’individuo. Questa è la condizione umana che coincide con la vita” 36.

Seppure con il ricorso discutibile alle categorie “dell’amore per sé e per gli altri”, ci avviciniamo al cuore del problema che riguarda la possibilità di realizzare una vera democrazia in una società egualitaria, solidale e basata sulla giustizia sociale ed economica, affrontando, in particolare, la contraddizione-base, che sembrerebbe insita naturalmente nel comportamento umano in ogni tempo e latitudine, tra spinte ed istinti – per Scalfari non eterogenei ma, direi, neanche facilmente conciliabili – verso la difesa del Sé o verso la protezione del Noi, del collettivo, che sia esso gruppo familiare, di affinità di classe/ceto o politica, ideologica, culturale o che riguardi addirittura l’intera umanità. Ho usato fin qui la dizione generica “natura umana”: ma credo che nulla di certo si possa dire su quanto dei comportamenti e delle modalità di pensiero più diffusi tra gli esseri umani di ogni epoca e collocazione geografica dipenda dall’ambiente, dalla organizzazione sociale e politica, dalle culture dominanti e quanto invece abbia base biologica irredimibile. In linea di massima, però, si può supporre con ragionevole certezza che se idee e comportamenti umani sono il frutto delle dinamiche sociali, delle forme educative collettive, dei rapporti di classe e di ceto e dell’influenza dei poteri costituiti, pur tuttavia resti un quid che non è spiegabile solo con questi elementi collettivi ma che attiene alla singolarità biologica di ognuno/a: insomma, “le idee non passeggiano nel cielo”37 ma neanche sono il prodotto meccanico delle sole condizioni sociali. Il che rende plausibile l’ipotesi che la malleabilità e duttilità (e dunque, trasformabilità) degli umani, delle loro menti, idee e soprattutto comportamenti abbia dei limiti, e quindi che donne e uomini non siano ri-plasmabili  ad libitum – tramite un cambiamento radicale e positivo delle regole del gioco sociale e politico –  per ri-orientarli culturalmente e moralmente verso la piena solidarietà, la giustizia sociale, l’eguaglianza, l’amore per gli altri e per il loro benessere più che per se stessi.

L’analisi dello sviluppo umano, svolta dalle più diverse correnti filosofiche, spirituali, artistiche e religiose nel corso dei secoli, sembra rimandare sempre a quella contraddizione che Dostoevskij e molti altri/e attribuiscono alla dicotomia Bene-Male, e per tanti invece riguarda il conflitto tra “dover essere” e “essere” o nello Scalfari qui citato (anch’esso in larga compagnia) il rapporto non eterogeneo tra l’amore per sé e quello per gli altri. A mio modesto avviso, però, tutte queste terminologie abbelliscono un contrasto che sembra avere in realtà una fonte biologica e naturale inevitabile e non circoscrivibile con strumenti ideologici, filosofici o morali. Gli umani, come tutti gli altri esseri senzienti, hanno necessariamente inscritto in sé un codice di autotutela, di protezione e difesa da qualsiasi cosa che presumano, a torto o a ragione, dannosa, che si tratti di esseri viventi della stessa specie o di altre specie, di oggetti inanimati o di situazioni a rischio. Fin dai primi contatti con il mondo esterno (ma molte correnti di pensiero sostengono che, almeno per l’uomo, si inizi già nella fase pre-natale) gli esseri viventi cominciano a percepire una differenza tra i propri (o presunti tali) simili, con i quali sentono geneticamente o sviluppano con le prime esperienze una particolare affinità, e gli altri, siano di specie diverse o individui della stessa, ma percepiti come non affini o non-parentali: da qui, presumibilmente, un allentarsi delle difese naturali e istintive nei confronti dei primi e un accentuarsi delle stesse verso i secondi.

La condizione umana però è del tutto specifica: perché il nostro meccanismo cerebrale ed emozionale assai sofisticato, ma anche delicatissimo, dà immediatamente al neonato/a – forse per garantirne la massima protezione – il senso dell’instabilità, della fragilità, dell’insicurezza dell’essere. E questo, almeno all’inizio, parrebbe aver poco a che fare con la struttura sociale o con la divisione in classi, con lo sfruttamento economico o il potere ineguale: la quasi totalità dei nascituri parte con una esperienza traumatica nella fuoriuscita dall’utero materno. Che si nasca in un ospedale o più tranquillamente in una casa privata, è considerato talmente ovvio che si venga, come si dice, “alla luce” piangendo e gridando che, quando non succede, gli astanti sono più preoccupati che compiaciuti. E cioè: la luce improvvisa, i rumori, i getti massicci di bruciante ossigeno nei polmoni sono un insieme di sensazioni sgradevoli per gli umani alla nascita, che presumibilmente trasmettono subito la sensazione dei pericoli insiti nel mondo esterno.

Successivamente, e in misura ben più accentuata che negli altri esseri, i primi passi degli umani sono condizionati da una ricerca della sicurezza che si concentra spasmodicamente sugli individui più prossimi, a partire dalla madre, con cui si cerca egoticamente un rapporto esclusivo, solo lentamente trasferibile, e comunque parzialmente, su altri esseri percepiti come “propri” e affini. Ma l’esclusività del rapporto con la madre o con l’adulto più prossimo e amoroso, se in prima battuta appare rassicurante e scaccia momentaneamente la paura della sofferenza già provata entrando in un mondo ignoto e incomprensibile, in un secondo momento rafforza la presa di coscienza dell’instabilità e insicurezza dell’esistenza, che probabilmente fin dai primi giorni si installa nella mente, la quale in tale consapevolezza parrebbe assai più sensibile e delicata di quella “media” animale, almeno sulla base delle conoscenze attuali.

Il bambino/a, alla ricerca di rassicurazioni continue, via via finisce per notare che il soggetto rassicurante (che sia la madre o altre figure parentali che svolgano funzioni analoghe) è a sua volta relativamente instabile nella auspicata fissità e garanzia assoluta del rapporto. In altri termini, dopo un po’ – seppur recalcitrando, piangendo o urlando per richiamare l’esclusività – l’umano/a alle prime esperienze deve prendere atto dolorosamente che il mondo non ruota intorno a sé e che gli altri non esistono solo per servirlo e rassicurarlo, ma anche per deluderlo, lasciarlo solo, non comprenderlo o non assisterlo come se fosse l’unico essere vivente al mondo. Questa forma di megalomania biologica presumibilmente dipende assai poco dal contesto sociale e culturale: perché sembra che si sia ripetuta con poche varianti più o meno ovunque, apparendo perciò una sorta di inevitabile esigenza costituente dell’individuo e del suo Ego in formazione. Mentre per la gran parte delle altre specie, il distacco da tale megalomania – dalla pretesa cioè che la madre, il padre e la cerchia parentale siano tutti dedicati all’infante, e che esso sia il centro dell’universo esterno – pare rapido e comunque di breve durata (un gattino o un cucciolo di cane tolti dalla madre dopo un paio di mesi e accuditi adeguatamente da esseri umani non sembrano risentire del distacco né manifestare traumi particolari), per gli uomini e le donne questo conflitto tra la cura del Sé e gli interventi perturbanti degli Altri, che sembrano togliere assistenza e sicurezza garantita al proprio Ego crescente, dura invece a lungo, forse per tutta la vita.

Si può dunque seriamente ipotizzare che la radice del conflitto tra l’Io e il Noi sia da addebitare a tutte le forme di educazione degli umani usate dalle civiltà più sviluppate negli ultimi trenta secoli? O non, piuttosto, che le particolari caratteristiche del cervello umano accentuino di molto la crescita del senso del Sé e tendano dunque a mettere naturalmente in potenziale conflitto, e da subito, l’Ego con gli altri Ego? Non credo ci possano essere, almeno alla luce delle nostre attuali conoscenze, risposte univoche e definitive. Ma una cosa mi sembra plausibile: e cioè che il rapporto tra “l’amore per sé” e “l’amore per gli altri” abbia una componente eterogenea e conflittuale almeno in partenza: e che questa sia smussabile solo con un forte intervento collettivo, sociale e culturale, che crei le migliori condizioni per attenuare un contrasto che, almeno all’origine, parrebbe avere una significativa base biologica. In altri termini, l’essere umano ai suoi primi passi probabilmente subisce una scissione interiore forte tra il tentativo di difendere solo (o soprattutto) se stesso, come gli comandano gli istinti genetici, e la constatazione che egli, per sopravvivere e poi per vivere decentemente (e dunque essere anche difeso), ha bisogno degli Altri, dalla madre/padre in giù, pur se essi/e non lo collocano, come pure vorrebbe, al centro del mondo. Se così è, tale bambino interiore è destinato – e anche questa appare una caratteristica pressoché esclusiva degli umani rispetto alle altre specie – a rimanere per tutta la vita all’interno di ognuno/a di noi, influenzando in maniera significativa i comportamenti, i pensieri, le azioni. Per alcuni ricercatori spirituali o studiosi della mente umana38, il bambino interiore in panico sarebbe addirittura per tutta la vita fonte della maggioranza delle nostre risposte verso quegli stimoli esterni che consideriamo negativi o pericolosi. E cioè, il ricordo ben radicato nella mente di tutte le paure, vergogne, umiliazioni, abbandoni, subiti nella realtà oggettiva o nella percezione durante i primi rapporti con coloro che ritenevamo i nostri protettori e difensori, finisce per essere riesumato, e vissuto con la stessa intensità, ogni volta che da adulti si ricreano condizioni che sembrano attaccare o colpire l’Io, che è maturato nel frattempo ma che resta sensibile al riaprirsi di vecchie ferite.

Conseguentemente parrebbe molto improbabile ipotizzare una forma educativa e di sviluppo umano che possa davvero eliminare i conflitti tra gli Ego cresciuti, indipendentemente dalla collocazione di classe o di ceto, o dalle forme di organizzazione sociale. Il senso del Sé e il desiderio di espanderlo non può che essere limitato, in qualsiasi società, dalla doverosa constatazione che non siamo noi il centro del mondo. Dopodiché, però, la collocazione di ognuno/a nella società sollecita comunque l’aspirazione ad avere le attenzioni, la stima, l’amore e le considerazioni del mondo esterno in una “gara” difficilmente evitabile con gli analoghi desideri altrui: e questo, credo, anche laddove non esista proprietà privata dei mezzi di produzione o sfruttamento economico o soprusi eclatanti dei potenti verso i deboli. Non c’è bisogno di scomodare Foucault o Bourdieu39 per sottolineare come le forme di potere si installino in ogni ambiente e comunità umana e come dominio e sottomissione facciano parte comunque del gioco umano anche oltre le dicotomie di classe e di ceto.

Qualcosa del genere si può dire per sentimenti considerati negativi e dannosi come la paura o la vergogna o l’umiliazione: tali pur sgradevoli sensazioni sembrano non solo inevitabili ma necessarie nello sviluppo umano. Ritengo che la paura in tutte le sue accezioni sia addirittura il sentimento umano più forte e di certo quello su cui da sempre si fondano tutti i poteri di alcuni umani su altri. Però, la paura è una sensazione così decisiva nella conservazione dei viventi che, se per incanto ne fossimo privati, la nostra vita durerebbe pochissimo, perché compiremmo atti così inconsapevolmente rischiosi da venir spazzati via in poco tempo. Anche vergogna, umiliazione e senso di colpa, pur essendo sensazioni abrasive e che ognuno/a vorrebbe evitare, segnano percorsi di vera e propria iniziazione nei rapporti dell’Ego con gli altri umani, indispensabili per porre limiti alla potenziale megalomania biologica dell’individuo. Per certi versi equivalgono alle forme, a volte cruente, che tante specie animali usano per stabilire i rapporti nel gruppo, per testare le varie chances nella vita associata, per limitare l’invadenza del singolo, per dare un monito ad ognuno su ciò che è in grado di fare o meno. Che questo meccanismo di limitazione reciproca sia fondamentale, lo si può vedere per uomini e donne quando una improvvisa espansione del proprio potere personale, economico, politico o sociale, rimetta l’individuo, improvvisamente elevato ad un alto grado di potenza, nella condizione infantile del bambino megalomane che vorrebbe essere al centro del mondo. La Storia, e anche la politichetta nostrana di questi anni, è stracolma di testimonianze sul vero e proprio obnubilamento che il Potere determina nella quasi totalità degli individui che fino ad un momento prima sembravano equilibrati e consapevoli del giusto rapporto tra l’espansione del proprio Ego e gli spazi necessari per la collettività. Il ché, in merito alle possibili forme di una vera democrazia, mi porta alle seguenti considerazioni.

1) Il termine egoismo non può di per sé avere una accezione negativa: è piuttosto il suo eccesso o la mancanza di equilibrio tra la cura del Sé e l’attenzione verso il necessario mondo circostante ad essere dannoso. Donne ed uomini devono necessariamente formare e curare il proprio Ego, tutelare e rafforzare la propria integrità fisica e mentale, vivendo non solo la parte solidale con l’Altro ma anche quella conflittuale: si tratta di facce coesistenti della stessa realtà, complessa ma non aggirabile. Un Ego che viva di solo conflitto sarebbe altrettanto squilibrato e destinato alla sofferenza e all’autolesionismo di uno assolutamente impreparato ai contrasti e capace di vivere solo in un’atmosfera di totale protezione, tutela e solidarietà benevola. Il vero obiettivo, dunque, non è l’eliminazione di uno dei due poli della contraddizione, ma la ricerca di una sintesi superiore che tenga in buon equilibrio l’individuo tra i due stati dell’essere e del rapporto sociale.

2) Una parte significativa dei comportamenti considerati a-sociali e a-collaborativi – nel solco dell’ “ognuno è Caino a suo fratello” – è comprensibile riferendoci a quelle forme di egoismo che sono  espressioni di pura autodifesa. La lettura è lampante per contesti estremi come quelli dei citati Lager o di luoghi e situazioni dominati da poteri tirannici, laddove l’Io non vede possibilità di salvezza se non piegandosi totalmente al Potere. Per certi versi, in tale contesto la difesa dell’Ego vale paradossalmente anche per coloro che sfidano il Potere e ne vengono travolti. Per essi, il senso della dignità personale e il rifiuto dei soprusi e della sottomissione sono talmente radicati nell’Ego che il loro rinnegamento sarebbe un tale colpo mortale alla mente da far preferire il proprio annullamento fisico sotto i colpi della repressione più brutale: e in tale spirito si può leggere ad esempio la tragica esperienza dello stesso Levi,  ferito a morte nell’animo non solo dall’avere assistito a tanta crudeltà e abiezione umana ma anche all’esserne quasi “colpevolmente” scampato; nonché la dolorosa trafila di coloro che nelle varie Resistenze armate ai Poteri hanno ceduto per debolezza fisica agli aguzzini, trascinando nella repressione compagni ed amici.

3) Anche il sottrarsi al conflitto ordinario – non quello cruento e tragico degli esempi precedenti ma relativo allo scontro politico, sociale e sindacale tra interessi contrastanti – ha pressoché sempre una motivazione auto-protettiva: non confliggo con un Potere perché penso che me ne vengano più danni che benefici, perché ritengo che la mia parte non sia abbastanza forte per vincere, perché non mi fido del collettivo che sfida il Potere, perché non credo che affermare un ideale mettendo a rischio alcune posizioni materiali che bene o male mi sono conquistato sia un buon affare ecc. 

4) Gran parte di questi comportamenti non sono perciò etichettabili, a mio parere, in base a connotati psichici come la ricercata sudditanza, il bisogno di essere guidati, il “gusto” della subordinazione che sarebbero dominanti nell’animo umano “medio”. Direi più semplicemente che si tratta di tattiche sviluppate per meglio difendere la propria incolumità, vera o presunta: prova ne sia che tutti i grandi Poteri, quelli che sembravano godere della massima sintonia con le popolazioni subordinate, del loro cosciente gregarismo, affetto, ammirazione o benevolenza, sono stati rapidamente abbandonati e ripudiati dalle masse stesse con grande noncuranza (solo per il Novecento, basti la parabola del fascismo mussoliniano, del franchismo spagnolo, del nazismo, dello stalinismo e del “socialismo” sovietico).

5) Pure gran parte della violenza e dell’odio razziale, politico o etnico potrebbe ancora essere inclusa in una degenerata visione della difesa del Sé: di fronte a qualcosa che viene vissuto come una possibile minaccia ai caratteri fondanti, culturali, morali o materiali, del mio Ego e di quello di coloro che assimilo a me, reagisco anche con il razzismo per eliminare ciò che vivo come un potenziale pericolo. Questa malformazione dell’Ego non sembrerebbe spiegare, però, la vera e propria passione, manifestatasi innumerevoli volte nella Storia umana e ripetutamente anche nel secolo scorso, per la sofferenza altrui, anche quando l’oggetto delle torture e delle violenze più sadiche non aveva in alcun modo minacciato l’individuo torturatore e massacratore: il ché parrebbe convalidare l’ipotesi di un fondo oscuro di pulsione di morte e sopraffazione che, lungi dal costituire una forma estrema di difesa del Sé, soddisferebbe un pauroso bisogno autogeno di infliggere danno e dolore ad un proprio simile. C’è però un’altra ipotesi da non sottovalutare: l’ingigantimento dell’Io, seppur in una forma spaventevole, potrebbe passa anche attraverso queste forme ferocissime di sopraffazione dell’Altro. Senza voler escludere del tutto la tematica freudiana della “pulsione di morte”, disporre totalmente della vita altrui, al punto da poter “giocare” crudelmente con il corpo di un individuo o di larghe masse, potrebbe far sempre parte, seppur in modo estremo, della megalomania del bambino interiore che – come nell’esplosione di cupidigia di potere e di possesso che colpisce individui “normali” in casi di improvviso potenziamento del proprio ruolo, rivelandone l’esaltato desiderio di essere al centro del mondo – ricava da questo totale potere di vita e di morte una sorta di massima, seppur terrificante, realizzazione dell’Ego. E’ come se, nel modo più feroce, l’assassino, il torturatore, il massacratore e lo stragista si facessero Dio, non costruttori ma pur tuttavia distruttori a loro piacimento di vite e di mondi. Se questa ipotesi fosse giusta, neanche queste orripilanti manifestazioni della natura umana andrebbero attribuite solo a crudeli psicopatologie individuali, legate magari ad infanzie particolarmente deviate, ma incluse tra le più orribili varianti, in grado di colpire a largo raggio, dei più pericolosi desideri di ingigantimento dell’Ego. Per inciso. Anche per il santo, per il martire, per il rivoluzionario che danno la propria vita per la collettività, c’è un ritorno di potenziamento dell’Ego senza il quale, credo, tali imprese sarebbero impossibili: ma in questo caso l’estensione dell’Io avviene tramite l’identificazione con il Noi e dunque mediante un’impresa positiva per la collettività, all’opposto degli esempi precedenti, distruttivi per la socialità. Ciò malgrado, però, neanche tale modello andrebbe prospettato come possibilità generale, perché resta sacrosanto l’aforisma “beata quella collettività che non ha bisogno né di santi né di eroi”, non essendo la santità e l’eroismo pratiche generalizzabili e permanenti a livello di massa.

6) Tornando infine al necessario equilibrio tra difesa/cura del Sé individuale e del Noi collettivo,  ritengo che la via da seguire dovrebbe essere quella di una permanente sollecitazione di ciò che chiamo egoismo altruista (ma l’ossimoro può essere esposto anche al contrario: altruismo egoista) e che qualcuno, più o meno con lo stesso intento, chiama egoismo lungimirante. Esso non è un prodotto naturale, spontaneo o automatico dell’Ego né può essere indotto facilmente dall’esterno. Si tratta di creare le condizioni migliori affinché i singoli individui possano verificare che ciò che soddisfa e tutela la propria incolumità, autodifesa e autorealizzazione (egoismo) non contrasta e può anzi coincidere con ciò che avvantaggia  la collettività sociale che li include (altruismo). Però tali condizioni: a) non possono essere solo dichiarate ideologicamente o politicamente, ma devono essere liberamente verificate e scelte da ognuno/a senza imposizioni; b) non sono comunque mai date una volta per sempre; i conflitti sociali e tra individui non spariranno mai del tutto, ci saranno sempre contraddizioni in una collettività; vaticinare una presunta Età dell’Oro, in cui esisterà una totale Armonia Sociale, può solo provocare la negazione delle contraddizioni, il loro occultamento e, alla fine, la repressione di esse e dei suoi protagonisti più deboli; l’obiettivo è la risoluzione il più possibile democratica – e dunque con la piena partecipazione dei diretti interessati – dei conflitti stessi, non il loro mascheramento; c) non vanno elargite da Potenti a Sudditi, ma devono poter essere controllate e gestite direttamente anche dall’individuo interessato: dal ché il valore supremo della democrazia integrale che consenta di partecipare e influire su questo delicato equilibrio di egoismo altruista in azione socialmente; e la non-realizzabilità di esso in un contesto in cui la democrazia è appaltata a professionisti del Potere che hanno loro interessi propri e distinti da quelli della collettività e della cura benicomunista del patrimonio collettivo.

E’ evidente ad esempio che nessuna possibilità di equilibrio esisteva nei Lager come in tutti i casi di esercizio del Potere assoluto. Ma del tutto squilibrate, guardando alla storia del conflitto tra capitalismo e anticapitalismo, risultano anche le storie sociali del neoliberismo predatorio degli ultimi decenni europei e occidentali, così come quelle del “socialismo reale”: nel primo caso il riferimento continuo e assillante al cosiddetto homo homini lupus, (peraltro offensivo nei confronti del lupo, animale non meno sociale dell’uomo e di certo meno brutale con i propri simili), alla lotta e alla concorrenza spietata di tutti/e contro tutti/e, non poteva e non può di certo consentire la conciliazione e l’equilibrio tra i due poli – difesa dell’Io e del Noi – della contraddizione umana; ma anche nel secondo caso, il tentativo di provocare forzosamente l’annullamento dell’interesse individuale in un presunto interesse collettivo sociale – determinato unilateralmente e senza possibilità di contestazione dal Partito Unico e dalla borghesia di Stato “socialista” – non poteva che provocare un equivalente squilibrio manifestatosi clamorosamente appena il potere delle gerarchie “socialiste” è venuto meno per più generali motivazioni economiche e politiche. Di fronte all’impotenza causata dal monopolio del potere, la grande maggioranza degli individui ha via via reagito con la non-collaborazione economica e sociale, il disinteresse verso il proprio lavoro e la partecipazione al presunto “sforzo comune”, il boicottaggio vero e proprio, la coltivazione dei propri piccoli spazi di autonomia personale e lavorativa, provando a salvaguardare gli “orticelli” personali e non preoccupandosi affatto dell’andata in malora del sistema generale. Dal ché, ad esempio, la totale assenza di solidarietà verso il Potere “socialista” dell’Est europeo dopo il crollo del Muro di Berlino e della colossale avventura sociale e politica intrapresa dal 1917.

D’altra parte la feroce competizione capitalistica, anche quando comporta per sé vantaggi materiali significativi, logora assai non solo i più deboli e indifesi. Ne è la riprova l’elevata insoddisfazione sociale che si manifesta pure nelle nazioni che, saccheggiando anche le ricchezze altrui, hanno potuto godere finora del maggior grado di benessere economico diffuso. Istintivamente, anche dove il dominio dell’ideologia del Capitale è onnipresente, milioni di individui percepiscono che Noi potrebbe essere meglio che Io: e cioè che la continua lotta per emergere e sopraffare l’altro non solo è estenuante ma alla fine non dà alcuna garanzia di duratura autotutela. Però, bisogna vedere che cosa viene presentato come Noi: ossia, se il modello di collettività proposto può salvaguardare davvero il singolo e la comunità o se è un espediente ideologico per subordinare tutti al potere di chi sostiene di lavorare per il bene comune, mentre sta costruendo le proprie fortune personali.

DEMOCRAZIA INTEGRALE: fardello o emancipazione?

Se riteniamo che il prendere in mano le proprie sorti da parte di ognuno/a, esigendo ed offrendo la partecipazione ai processi decisionali democratici, sia la via maestra per garantire che il cambiamento vada nella direzione della maggiore giustizia sociale ed economica possibile e che consenta il massimo equilibrio realizzabile tra l’Io e il Noi, dobbiamo – alla luce dei dilemmi esposti mediante la parabola del Grande Inquisitore e lo studio dell’esercizio del potere nei Lager – provare a rispondere ad una serie di spinose questioni riguardanti la gestione della democrazia. Del tipo: quanto è intrinseco alla antropologia l’atteggiamento verso il Potere e verso l’esercizio democratico, inteso come diretta assunzione di responsabilità, impegni stabili, doveri ed eventuali colpe? Cambiando le condizioni sociali, tale attitudine può mutare con grande flessibilità o ci sono delle rigidità antropologiche di base, attinenti al rapporto tra difesa dell’Io e disponibilità verso l’Altro e non facilmente superabili? E la partecipazione ad una vera democrazia – che attribuisca ad ognuno/a gli onori ma anche gli oneri dei processi decisionali – è davvero un’esigenza sentita e desiderata diffusamente, oppure è per lo più considerata un peso da far portare ad altri e da scansare il più possibile? Insomma: la democrazia integrale e partecipata è in genere considerata un fardello da evitare o l’emancipazione da ricercare con forza e convinzione?

Per provare a rispondere a tali ponderosi quesiti, mi avvarrò ancora del lavoro di Cassano e in particolare della terza parte del suo libro che riguarda l’attualizzazione storica dell’apologo del Grande Inquisitore e il trasferimento delle grandi domande sul Bene e il Male nell’ambito dell’esercizio democratico, della partecipazione collettiva a tale diritto/dovere e del ruolo che in questa dinamica giocano il potere economico e politico e la forza delle istituzioni costituite. Cassano riprende un celebre dibattito radiofonico tra Theodor Adorno, massimo esponente della  Scuola di Francoforte40, e Arnold Gehlen41, concernente il rapporto tra sociologia e antropologia o, più precisamente, tra Potere e Natura umana. L’operazione di accostamento tra la leggenda del Grande Inquisitore e il dibattito tra Adorno e Gehlen era stata compiuta da Rolf Wiggershaus in uno studio sulla Scuola di Francoforte42, ove la traslazione era stata effettuata assegnando ad Adorno più o meno il ruolo che nella Leggenda Dostoevskji attribuiva al Cristo e a Gehlen quello del critico –  non più invasato portavoce della potenza terrena della Chiesa ma razionalista antropologo e filosofo della natura umana – dell’aristocratica superbia e del velleitarismo del Cristo.

Secondo Gehlen l’uomo è sprovvisto, a differenza degli animali, di quegli schemi preordinati di comportamento che sono forniti dagli istinti e quindi è ‘un essere organicamente manchevole’. Egli ha infatti un costante bisogno di istituzioni, che gli consentano di rendere stabile la sua condotta, sottraendolo all’imprevedibilità che nasce da quella profusione di stimoli che lo rende più esposto rispetto agli animali…(Così) le istituzioni, pur nascendo dalla azione umana, divengono una sorta di ‘seconda natura’ che agevola la vita dell’uomo immettendola nei binari della routine e dei ruoli e consentendogli di agire senza ogni volta dover tornare a scegliere e pensare…Mentre Adorno vede in questa esteriorizzazione e oggettivazione delle istituzioni un’alienazione, una patologia storico-sociale che l’uomo deve combattere per conquistare la propria libertà, per Gehlen la funzione vitale delle istituzioni sta proprio nella loro capacità di liberare le spalle degli uomini dal fardello di dover prendere decisioni su tutte le questioni della loro vita. Esse aiutano gli uomini in quanto producono un esonero dai rischi che nascerebbero se si affidassero alla loro autonomia” 43.

Seppure l’ostilità di Adorno contro l’alienazione che le istituzioni tendono a produrre in coloro che sono sottoposti al loro potere abbia validissime ragioni, resta da domandarsi quanto nell’instaurarsi del Potere dipenda anche da una sorta di complicità di massa, che lo rende interprete di pulsioni ampiamente diffuse nella società. Limitandoci ad esempio a dare uno sguardo nel nostro cortile di casa dell’ultimo ventennio, potremmo riscontrare nella sbalorditiva ascesa al potere di partiti come Forza Italia e la Lega, e di inverosimili personaggi come Silvio Berlusconi e Umberto Bossi, spinte e sostegni popolari che sembrerebbe dar ragione a Gehlen quando sostiene che la funzione del Potere e delle istituzioni è sovente quella di “liberare le spalle degli uomini dal fardello di dover prendere decisioni e assumersi rischi”. Né Berlusconi né, men che meno, Bossi avevano dalla loro, al momento dell’avvento, un così grande potere economico e politico da consentire loro di sottomettere agevolmente le masse “alienate” di cui parla Adorno. Le tesi, i programmi, i riferimenti culturali e le loro azioni in realtà interpretavano pulsioni, desideri ed esigenze, spesso inconfessabili, di milioni di persone che, più che essere soggiogate dai loro poteri (del tutto inesistenti, ai primordi, per quel che riguarda la Lega e Bossi), sono sembrate voler far uso dei due partiti e dei loro leader per  affermare contenuti programmatici e forme politiche fino ad allora inaccettabili nella società italiana. Ad esempio il razzismo nel Nord Italia era abbondantemente presente anche negli anni ’50 tra i salariati e i settori popolari settentrionali al momento dell’afflusso in massa di lavoratori dal Sud Italia (che all’epoca veniva definita Bassa Italia), quei “terroni” nei cui confronti gli accenti privati del popolo del Nord non erano meno aggressivi di quanto in questi anni la Lega e il suo popolo lo siano stati verso i migranti extracomunitari. Solo che allora questi temi – così come quello ricorrente del Sud che viveva alle spalle del Nord – potevano essere trattati al bar o nei conciliaboli e nei mugugni privati ma venivano stroncati dai principali partiti e sindacati dell’epoca, se espressi pubblicamente.

Lo sdoganamento da parte della Lega delle peggiori pulsioni razziste, xenofobe e anti-solidali di vasti strati sociali del Nord, settori popolari in prima fila, convinti di poter ottenere vantaggi  significativi da un separatismo che mantenesse a Nord i soldi “settentrionali” o da forme di discriminazioni etniche che costringessero i migranti alla più infima delle subordinazioni – nel quadro di quella che ho tante volte definito la lotta dei penultimi contro gli ultimi – non è stata opera solo di un potere arrogante e discriminatorio che avrebbe sottomesso gli individui alienandoli e obnubilandoli. Direi piuttosto che la leadership di quel partito ha utilizzato e incanalato forti e diffuse pulsioni di massa che non sono venute meno neanche quando il carisma di Bossi è stato minato alla radice dai mali fisici che lo hanno reso palesemente lontano mille miglia dalla figura del dittatore minaccioso che coarta i propri seguaci. E qualcosa di simile si può dire anche di un Berlusconi, certamente circondato da un potere ben più vasto e pre-esistente rispetto a Bossi, ma pur tuttavia anch’esso interprete di una vasta e spesso popolana Italia, impastata di corruzione, clientelismo, familismo amorale, mafiosità organizzata o spontanea, egoismo proprietario, rozzezza culturale e sociale, maschilismo e patriarcato. In tutti questi casi, comunque, sembra che lo strapotere si sia consolidato non sulla sopraffazione e sull’alienazione dei “sudditi”, ma su forme di loro delega consensuale e scarico di responsabilità per l’esecuzione di malefatte sociali e politiche tali da far preferire che altri se ne occupassero, svolgendo il “lavoro sporco” in vece loro. 

Per Gehlen ogni appello ad una libertà che critica e trascende le istituzioni è inutile e dannoso, perché riconsegnerebbe l’uomo all’indeterminazione, a quella profusione di stimoli che erode il legame sociale…E’ l’esteriorità delle istituzioni che, dando vita ad un mondo comune oggettivo, rende stabile quell’ordine sociale di cui ogni aggregato umano ha bisogno… E’ un bene che una parte rilevante della vita sociale sia sottratta al dubbio, alla revoca, alla contestazione, perché il poter contare su alcune certezze di fondo rende la vita più agevole…Gehlen, proprio come il Grande Inquisitore, pensa che gli uomini siano deboli e limitati e quindi che l’esercizio dell’autonomia non sia da loro praticabile. Con un riflesso tipico del pensiero conservatore, Gehlen tratteggia scenari catastrofici per ogni prospettiva di ampliamento della sfera di autonomia degli uomini. Si tratta di una vera e propria avversione per l’aspirazione dell’Illuminismo a rendere maggiorenne l’uomo, affrancandolo progressivamente da tutte le tutele. Ma questa diffidenza, sottolinea Gehlen, non nasce da un pregiudizio bensì dall’osservazione scientifica: la natura dell’uomo mostra che esso non solo non è oppresso dai legami ma che al contrario viene liberato dalla loro esistenza, che egli è bisognoso di tutela e non impaziente di liberarsene” 44.

Effettivamente c’è una forte analogia tra questo pensiero pesantemente critico verso la natura umana – disegnata come imbelle fuori dall’alveo delle istituzioni – e quello dell’Inquisitore. E’ anche assai simile il ricorso alla categoria della debolezza umana, la cui origine però non viene indagata ma inserita nel dualismo Coraggio-Viltà. All’interno di questi parametri sembra muoversi anche Cassano, quando, pur prendendo le distanze da Gehlen, mette in luce le contraddizioni e la  fragilità dell’illuminismo neo-marxista di Adorno e della Scuola di Francoforte.

Il programma dell’emancipazione radicale di tutti gli uomini è un programma esigente che lo stesso Adorno sa essere molto lontano dall’umanità concreta che, dal canto suo, sembra beatamente irretita dalle mille seduzioni della cultura e della produzione di massa, gli odierni equivalenti del ‘mistero, miracolo ed autorità’ della Leggenda. Tra gli uomini e l’emancipazione c’è, ora come allora, un ostacolo pesantissimo, la loro debolezza, che li spinge a scegliere una vita meno alta e consapevole…All’uomo autonomo, capace di autogoverno e protagonista della sfera pubblica, si contrappone il circuito più semplice e lineare del consumatore che ha come unico programma quello dell’accrescimento del proprio benessere privato. E’ una dinamica di cui già Toqueville, con profetica sagacia e chiarezza, aveva sottolineato i pericoli: ‘Se cerco di immaginarmi il nuovo aspetto che il dispotismo potrà avere nel mondo, vedo una folla innumerevole di uomini uguali, intenti solo a procurarsi piaceri piccoli e volgari con i quali soddisfare i loro desideri’ 4546.

Qui Cassano riprende l’assai prolifico filone, avviato dalla Scuola di Francoforte – ed in primis da Adorno e Horkheimer a partire dal loro testo più famoso e rilevante sull’argomento, la Dialettica dell’Illuminismo – della critica alla cultura di massa post-bellica e più precisamente all’industria culturale47 che la Scuola indicò come nuova e potentissima arma capitalistica per indurre consumo e passivizzazione di massa.

La ‘Dialettica dell’Illuminismo’, proponendo l’adozione dell’espressione ‘industria culturale’ al posto di ‘cultura di massa’, ha profondamente segnato gli studi sulla comunicazione nella società contemporanea, incrinando in modo irrimediabile l’ingenua convinzione che il carattere di massa attribuito a quella cultura potesse essere riferito ad un ruolo attivo dei consumatori nella sua creazione. Attraverso il riferimento all’industria culturale, Adorno e Horkheimer non fanno che sottolineare l’enorme sproporzione di potere esistente tra il singolo consumatore ed un apparato esteso e sofisticato, costantemente impegnato a governare i gusti, un ‘gigantesco meccanismo economico che tiene tutti sotto pressione nel lavoro e nel riposo che gli assomiglia’4849.

Pur segnalando la grande importanza teorica e politica dell’analisi adorniana sull’industria culturale, Cassano sottolinea la contraddizione in cui ricade tale analisi a proposito della emancipazione sociale dei consumatori.

Questa celebre analisi è affetta da un grave contrappasso perché, proprio nel momento in cui mette a nudo la grande potenza manipolatrice dell’industria culturale, finisce per mostrare in controluce la straordinaria debolezza della prospettiva dell’emancipazione, la sua costante difficoltà, di fronte alla capacità del capitalismo dei consumi di conquistare, tranne che in brevissimi periodi, la grande maggioranza delle coscienze. Se nell’esperienza europea la sconfitta di quella prospettiva poteva essere imputata alla dinamica apertamente repressiva del totalitarismo, nel caso dell’esperienza americana il capitalismo dei consumi e dell’industria culturale non ha bisogno di travolgere le istituzioni liberali. Due sconfitte, in contesti così diversi, rivelano l’esistenza di un problema. Se poi ad esse si aggiunge il clamoroso insuccesso del socialismo realizzato, diventa legittimo chiedersi se la prospettiva dell’emancipazione non sia condannata a rimanere confinata per sempre all’interno di un piccolo cerchio minoritario” 50.

Tale contraddizione è lampante e fa bene Cassano a metterla in evidenza. Come già per la disamina del conflitto dostoevskjiano  Bene-Male, o quello trattato da Levi tra Potere e individui, credo sia buona cosa smarcarsi da alcuni parametri usati, sia quello della debolezza umana, sia quello dei piaceri piccoli e volgari, stigmatizzati da Toqueville, a cui si abbandonerebbe la maggioranza dell’umanità nella “società dei consumi”, sia infine la presupposta rinuncia all’emancipazione personale e all’autogoverno della propria esistenza di fronte a quella che Cassano chiama “grande potenza manipolatrice dell’industria culturale”. Appartengo alla generazione definita sessantottina – permanentemente impegnata, in buona parte dei suoi esponenti, nel conflitto politico e sociale italiano e internazionale durante gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso – e da oltre un ventennio ad una organizzazione come i Cobas che hanno fatto, come raramente in precedenza in Italia, della passione per gli oggetti sociali, per le cose del mondo, insomma per la vita quotidiana delle collettività organizzate, il loro Alfa e Omega, la bussola della propria vita sociale e privata, l’asse della propria esistenza. Pur tuttavia, a distanza di circa 45 anni da quando feci questa scelta onnivora (nell’estate del 1966, per l’esattezza) e per certi versi totalizzante, devo riconoscere che la pretesa – forse aristocratica o avanguardista e magari segnata da un errore analogo a quello attribuito da Dostoevskji al suo ipotetico Cristo – che tale passione fosse (e sia) universalmente condivisa e che l’emancipazione e l’autogoverno politico possano o debbano stare al primo posto nei pensieri e negli atti umani, purché se ne creino le condizioni, risulta per ora più un desiderio o una speranza che una realtà suffragata in questi decenni da prove significative.

Oggi direi che probabilmente c’è una forte manchevolezza in questa pretesa, e che la non-realizzazione di essa non va attribuita né a una genetica debolezza né ad una volgarità della grande maggioranza dell’umanità, sempre che, in materia di interessi, si accetti che ognuno/a sia il miglior giudice della validità dei propri. Oggi, la chiave di volta di tanti comportamenti umani mi pare quella che ho già sottolineato: la contraddizione tra le strategie di difesa del proprio Io e il rapporto con la collettività altra da Sè. Dal che la necessità di stimolare non tanto interessi “alti e nobili”, o presunti tali, attraverso una ideologizzazione collettivista contrapposta all’individualismo consumista “volgare”: ma di creare il più possibile situazioni sociali e politiche che sollecitino e favoriscano quello che ho chiamato egoismo altruista.

La società dei consumi, come il Grande Inquisitore, è indulgente nei riguardi delle debolezze dell’uomo…Vive bene nella sua mediocrità e guarda con scetticismo se non con timore tutti quelli che vorrebbero metterla a dieta seguendo le tabelle della perfezione spirituale..Ride alle spalle delle nobili figure e vuota le piazze che un tempo erano affollate per ascoltarle, riempiendo i centri commerciali dove l’unica etica da rispettare in modo ferreo è quella di pagare il biglietto” 51.

Esattamente come per il Potere in generale, anche per il dominio che l’industria culturale e il culto dei consumi eserciterebbero sulla grande maggioranza degli individui, si dovrebbe correggere interpretazioni unilaterali che, a mio parere, finiscono solo per deresponsabilizzare le masse alienate. Se ad esempio ritorniamo alle già citate miserie politiche nazionali degli ultimi anni, ribadisco la convinzione che nella presunta sudditanza di decine di milioni di persone al potere esercitato da due satrapi come Berlusconi e Bossi c’è stato qualcosa di ben più ambiguo di una passività di massa, provocata da debolezza, ignoranza o fideismo. L’egoismo proprietario alla Berlusconi, che prometteva impunità non solo a sé ma anche a tutti quelli che non rispettano le leggi, non pagano le tasse e vivono di abusi e soprusi, non ha affascinato solo i grandi capitalisti, i redditieri e le professioni più lucrose, ma tutti coloro (davvero molti in Italia) che nel ribellismo individualista verso le regole e la collettività hanno ritrovato l’affermazione di umori e interessi che in precedenza non avevano mai potuto esprimere liberamente per timore di penalizzazioni sociali. E nel razzismo e nella xenofobia della Lega, milioni di persone hanno visto sdoganata la volontà, prima indicibile, di combattere da penultimi gli ultimi arrivati, quei migranti percepiti come minaccia di retrocessione economica e politica da vasti settori salariati e popolari autoctoni; nonché teorizzata la speranza di tenere per i “nordisti” la totalità di quella ricchezza che, secondo la propaganda leghista, verrebbe “prodotta a Nord e dilapidata a Sud”.

Nel momento in cui Berlusconi e Bossi hanno liberato ed esaltato l’egoismo sociale e l’individualismo da battaglia, hanno ricevuto ampia delega da chi desiderava da tempo vedere in opera programmi così sfrontati ma non osava agire in proprio per timore delle conseguenze di teorie e impostazioni pratiche fino ad allora valutate con riprovazione culturale e sociale. Perché la delega  e la de-responsabilizzazione personale (la fuga dall’emancipazione, insomma) hanno questi due vantaggi per l’Ego: ti fanno godere di una parte dei successi ottenuti, finché le cose vanno bene, da coloro – partiti, sindacati, forze economiche e sociali – che hai delegato; e ti esimono da penalità e punizioni dirette quando invece arrivano le sconfitte e le “retrocessioni” nei Parlamenti, nelle istituzioni e nella società. Insomma, puoi avvalerti dei benefit dell’essere berlusconiano o bossiano finché il vento è a favore, ma scaricare il Cavaliere o il Senatur e il figliol Trota una volta caduti in disgrazia, garantendoti anche il lusso di esprimere delusione e riprovazione per le clamorose magagne dei tuoi ex-leader, fingendo addirittura di non averne avuto alcun sentore.

Qualcosa di questa complicità partecipata e opportunista del singolo individuo – apparentemente debole e sottomesso, ma in realtà bene attento a cercare il meglio per sé – si ritrova anche a proposito della presunta sottomissione alla macchina ammaliatrice dell’industria culturale e dei consumi di massa. Anche qui l’Ego pare alla ricerca di vantaggi per sé e non sembra così  incosciente e plagiato come nelle descrizioni adorniane. E, seppure  in un quadro di pensiero apertamente conservatore, Gehlen, replicando ad Adorno, fa notare lo scarto dei comportamenti di massa reali rispetto alle analisi dei critici dell’industria culturale:

Lo slogan della personalità minacciata dalla cultura di massa è esatto solo per metà..Non si è mai avuta al mondo tanta soggettività finemente differenziata e ricca di espressione come oggi 52.     

Il secolo del livellamento di massa si manifesta come quello in cui le apparizioni casuali più stravaganti della soggettività pretendono riconoscimento e considerazione da parte del pubblico, e con successo53.

Con il risultato di ritrovarci tutti/e in “un mondo esterno trasformato dall’industria, tecnicizzato in tutte le sue fibre, in cui si muovono milioni di uomini egocentrici, consapevoli di sé e preoccupati di arricchire la propria esperienza psichica: e per i quali l’emozione momentanea, non impegnativa, provocata da stimoli ed impressioni di qualsiasi genere non presenta problemi, non ha nulla di precario, è modus dell’evidenza54. Gehlen va in direzione opposta alle ipotesi dei francofortesi che vedono aggirarsi nelle società moderne moltitudini di individui sottomessi inconsapevolmente alla dittatura delle merci e al potere affabulatorio dell’industria culturale:

Per Gehlen il tratto fondamentale della società contemporanea non è la manipolazione della soggettività ad opera dell’apparato culturale del capitalismo, ma al contrario l’affermarsi del ‘bisogno di far valere la propria personalità’, che è diventato ‘onnipresente con una intensità..che non ha precedenti nella storia’. Più che la scomparsa di un soggetto autonomo ad opera di un potente apparato culturale, Gehlen vede l’affermarsi di un nuovo soggettivismo, il generalizzarsi dell’’ambizione di essere qualcuno’. Quella soggettività che Adorno giudica falsa ed ammaestrata per Gehlen è invece un potenziale motore di crisi, l’affermarsi di una dinamica che rende sempre più difficile la coesione sociale. Su questo punto, pur nella sua ambiguità, Gehlen sembra avere una freccia in più al suo arco, perché riconosce uno spazio reale e non simulato di esistenza alla soggettività e non fa di essa un semplice burattino nelle mani dell’industria culturale. Al contrario la cultura di massa è attraversata in profondità da una forte aspirazione al protagonismo e all’espressione di sé e da un’erosione della legittimità di tutte le istituzioni. L’impressione generale è che Adorno, anche perché legato ad una determinata fase storica del capitalismo, sopravvaluti invece la capacità di governo e di amministrazione dall’alto dell’industria culturale” 55.

E Gehlen esprimeva queste considerazioni ben prima dell’esplosione del web, dei social network e della spasmodica ricerca di protagonismo da parte di centinaia di milioni di persone tramite i vari Facebook, Twitter, You Tube, Instagram, Whatsapp e siti e blog più disparati, ove un numero senza precedenti di uomini e donne si fanno partito e cercano di presentare una loro visione del mondo, dell’agone politico e dei conflitti sociali, degli orientamenti culturali, ideologici, religiosi e morali, a tutto campo, mettendo in primo piano, anche se sovente con stili rozzi e volgari, proprio un forte soggettivismo, facilitato dall’agone virtuale che la telematica offre e che non esige un altrettanto intenso impegno nel campo della reale conflittualità sociale, economica e politica. Ed è fuor di dubbio che, come vaticinato da Gehlen e non previsto invece da Adorno e dalla Scuola di Francoforte, tale volontà dilagante di essere qualcuno/a – giocata tutta sul piano individuale, seppure agevolata dai meccanismi della società dei consumi, dello spettacolo e dell’industria culturale – non può che erodere la legittimità delle istituzioni dominanti, oltre che indebolire ulteriormente la coesione sociale, tanto più in una fase in cui tale legittimità e tale coesione hanno perso ogni aura sacrale e un diffuso riconoscimento e rispetto sociale.

Le istituzioni della società moderna si sono ridotte al funzionale…perdendo il loro carattere significativo e simbolico…e aprendo la strada ad uno smodato estendersi dell’arbitrio56.

Se milioni di persone dedicano tante energie ad esibire il proprio Ego privato, con estensioni sociali, culturali e politiche, sui social network e sui blog individuali piuttosto che impegnarsi in imprese collettive come negli anni ’60 e ’70 in Italia e in Europa, la causa principale è assai probabilmente l’insufficienza della proposta del Noi rispetto a quella dell’Io. Un fenomeno del genere, con tali dimensioni, non si riscontra ad esempio in quei paesi dell’America Latina ove nell’ultimo decennio si è assistito ad una esplosione dei movimenti sociali e ad un loro forte impatto sulle istituzioni politiche, che ne sono uscite trasformate e in alcuni casi rigenerate.

L’esaltazione della soggettività, del ‘bisogno di far valere la propria personalità’ e dell’’ambizione di essere qualcuno’, messa a fuoco da Gehlen, è oggi il cuore del processo di spettacolarizzazione del Sé, di quel processo di vetrinizzazione sociale57 che sembra contrassegnare il passaggio alla ipermodernità e che segna la deformazione caricaturale e mercificata di quella democratizzazione che pretende di essere58.

Deformazione caricaturale e mercificata della democratizzazione? Forse si può bollare così il dilagante diffondersi della vetrinizzazione e spettacolarizzazione del Sé. Però non trascurando il fatto che, a differenza dei luoghi del mondo ove i nuovi movimenti sociali vanno estendendo la loro capacità di influenza sulle istituzioni politiche e governative, laddove invece, come nella estenuata e declinante Europa, la politica istituzionale non ha mutato nulla delle proprie caratteristiche castali,  gattopardesche e corrotte – e neanche le varie opposizioni, comprese quelle anticapitalistiche, hanno dimostrato vera consistenza, capacità di progettualità alternativa, garantendo l’affermazione del protagonismo individuale all’interno di un programma di trasformazione collettiva e generale, come avvenne in Italia negli anni ’60 e ‘70 –, la scelta individuale finisce, né solo perché succube della macchina dei consumi e dell’industria culturale, per prevalere. Oltretutto, il comportamento dell’aristocraticismo etico – che sia quello del Cristo dostoevskijano o di Adorno e dei francofortesi o del comunismo leniniano e di tutti i teorizzatori della coscienza che viene insufflata dall’esterno nel corpore vili proletario e popolare – nei confronti del desiderio di protagonismo individuale che mette in evidenza l’Ego nelle modalità ritenute più opportune, è stato e continua ad essere sovente schizofrenico. Ad Adorno lo fece notare ad esempio proprio Rolf Wiggershaus, al momento di dare una valutazione sul dibattito radiofonico tra lui e Gehlen. Dopo aver segnalato la conservatrice indisponibilità di Gehlen a prendere almeno in considerazione la possibilità che l’emancipazione democratica di massa si possa realizzare anche fuori (o contro) le istituzioni esistenti (“Proprio lui, il filosofo empirico, non è disposto ad azzardare un esperimento”), Wiggershaus così bollava la contraddizione di Adorno e di una intera scuola di pensiero:

Proprio lui che credeva nella capacità degli uomini di autodeterminarsi, non credeva che essi si prendessero semplicemente la libertà di farlo, ma pensava piuttosto che tale libertà occorresse darla loro59.

In altri termini, Adorno, pur essendo come gran parte della Scuola di Francoforte assai critico verso tutti gli aspetti degenerativi della democrazia sovietica e del “socialismo reale”, non è riuscito a evitare di ricadere nel peccato originario marxista e poi leninista (ma più in generale di quasi tutta la Seconda e Terza Internazionale) dell’intellettualità (borghese) che ha la presunzione di portare alla classe operaia o più estesamente alle masse popolari la coscienza dall’esterno. Naturalmente la Scuola di Francoforte è stata ben lontana da appoggiare la didattica monocratica del Partito-Stato che pretende di decidere per le masse popolari quali debbano essere i loro interessi, i loro desideri e le loro volontà, esautorandoli da ogni potere decisionale “per meglio difenderli e proteggerli”.

Adorno aveva ben presente i rischi connessi a questa strada…Le vittorie della rivoluzione ottenute con protesi ortopediche incaricate di correggere la renitenza della storia si sono dimostrate tutte restie a disfarsi di quegli strumenti correttivi. Anzi, esse hanno enfatizzato il ruolo degli apparati repressivi fino al punto di non poter essere distinguibili dalla loro logica autoritaria…Se chi si batte per l’emancipazione costituisce una minoranza si troverà sempre costretto ad oscillare tra la melanconia dell’impotenza e la disinvolta requisizione della libertà altrui 60.

Però, pur lontano dalla tremenda pedagogia dittatoriale di stampo staliniano, anche la più brillante intellettualità neomarxista post-bellica europea per lo più non è mai riuscita ad accettare che la rinuncia da parte di milioni di persone a battere la strada impervia della emancipazione democratica collettiva – sostituita magari con l’esaltazione di un soggettivismo e di una auto-affermazione che certo non modifica la realtà generale, ma a volte migliora la propria – faccia pur parte di una scelta, discutibile ma non incomprensibile, non necessariamente coatta e etero-indotta. Per parte mia,  propongo alcune prime sommarie conclusioni sulle possibilità che una democrazia integrale, partecipativa e reale, possa essere un fattore emancipativo collettivo di cruciale importanza per ogni radicale mutamento sociale, e non un fardello o un compito troppo oneroso da scansare con cura: e lo faccio evitando il ricorso alle dicotomie Bene-Male, amore per Sé-amore per gli Altri, Potenza dei pochi- Debolezza dei tanti.

1) La lotta per l’affermazione di una giustizia sociale ed economica per tutti/e – che necessariamente passa per l’opposizione ad un sistema dominato da classi e ceti che gestiscono la produzione di profitto e di merci subordinando ad essa masse enormi di salariati ma anche la natura intera e le sorti del pianeta – necessita del massimo sviluppo del conflitto con i poteri esistenti ma anche, a pari grado, dell’estensione della reale democrazia, cioè di un processo emancipatorio che spinga la grande maggioranza dei ceti e delle classi subordinate a reclamare il diritto di decidere sulle proprie sorti e su quelle dell’intera società, piuttosto che delegarlo a professionisti della politica, che ne fanno uso indiscriminato per difendere interessi, benefici e profitti privati.

2) Tale passaggio cruciale deve però fare i conti non solo con i rapporti di forza tra classi e ceti e con la paura motivata (non, dunque, generica debolezza, fragilità o incostanza della natura umana, ma comprensibile istinto biologico di difesa del Sé) di un conflitto che avvenga in condizioni di forte disparità di strumenti di difesa e di offesa. Ma anche con la contraddizione interiore che ognuno/a deve affrontare tra la difesa dell’Io e quella dell’Altro, del Noi, della collettività. Come sottolinea Pascal, “Ognuno è a se stesso un tutto, perché lui morto, tutto è morto per lui. Per questo ognuno crede di essere tutto a tutti61. Tra questa sensazione di totalità del Sé e la constatazione della necessità dell’Altro, anche per la difesa della propria individualità, permane una ineliminabile dialettica che può evolvere positivamente o meno a seconda delle condizioni esterne.

3) Non ci si può illudere che tale contraddizione svanisca per la sola somiglianza delle condizioni di vita che gli appartenenti a ceti e classi subordinate si vedono imporre da quelle dominanti. Nel corso di questo e di altri miei scritti, ho fatto riferimento assai sovente alle cosiddette contraddizioni in seno al popolo: ma ancor più ho cercato di dimostrare – fin dalla contestazione verso Marx e il marxismo a proposito della spiritualizzazione e assolutizzazione del Proletariato Unico – quanto possa essere idealistico ed astratto considerare classi salariate e ceti popolari come un unico blocco cementato dal conflitto contro le classi e ceti dominanti. Senza arrivare agli estremi dello sbranamento reciproco tra i deportati nei Lager, descritto così crudamente da Levi, quella che ho definito lotta tra penultimi e ultimi – e cioè tra migranti da una parte e lavoratori e settori popolari stanziali dall’altra – nell’Italia e nell’Europa degli ultimi anni, dimostra a sufficienza che non basta affatto avere una teoria lineare sul conflitto tra Capitale e Lavoro, o tra sfruttatori e sfruttati, per convincere tutti i senza proprietà e senza potere a collocarsi da una stessa parte nello scontro sociale con i detentori del potere. Come ho analizzato dettagliatamente in Alcuni conti con Marx e Classi, ceti e conflitti di classe e altri scritti sul tema, lo stesso Marx, nei suoi ultimi anni di vita e di produzione teorica, arrivò addirittura alla conclusione che la classe operaia inglese, quella che aveva presa per decenni a riferimento del suo modello di lotta di classe, fosse oramai integrata nel sistema capitalistico al punto da spingerlo a riporre le speranze rivoluzionarie e anticapitalistiche piuttosto in quella irlandese, che subiva il doppio sfruttamento di un lavoro salariato a condizioni infime e dell’oppressione colonialista dell’imperialismo britannico.

4) Non è necessario mobilitare il concetto di integrazione nel sistema di settori di aristocrazia operaia per giustificare i conflitti “in seno al popolo”. La verità è che il popolo unito è un concetto astratto laddove le condizioni di vita e di lavoro, ma anche i punti di partenza di esse, non sono affatto omogenee. Non è incomprensibile, ad esempio, che i salariati del Nord Italia che lavorano in piccole imprese industriali – ove la lotta frontale con i piccoli imprenditori può significare semplicemente il crollo di aziende legate spesso a lavoro nero, evasione fiscale e cattivi rapporti con le casse politiche del capitalismo di Stato e con le banche – piuttosto che scontrarsi con quello che considerano il loro datore di lavoro, si preoccupino di più di difendere le loro posizioni di penultimi dall’ascesa sociale degli ultimi, quei migranti che, partendo da condizioni infime di reddito, sono disponibili ad accettare forme di lavoro e retribuzioni che di fatto indeboliscono la forza contrattuale degli stanziali: operazione capitalistica identica a quella delle delocalizzazioni, ove la concorrenza scatta tra lavoratori del Primo e del Terzo Mondo, con la conseguente ascesa dei secondi e calo dei primi. Non c’è da meravigliarsi troppo, dunque, se in queste o analoghe condizioni scatti in tanti lavoratori una malintesa difesa del Sé e della propria identità e che, piuttosto che imbarcarsi in un’impresa che appare ai più, almeno nella contingenza attuale, assai improba – cioè costringere il Capitale e i Poteri mondiali ad elevare le condizioni di vita di ultimi e penultimi al contempo -, si cerchi di impedire ciò che viene percepito come declassamento.

5) Quindi, oltre ai conflitti di classe e ceto bisogna tenere sempre al centro dei ragionamenti e dell’agire la contraddizione tra l’interesse individuale alla prioritaria difesa del Sé e la necessità di ricorrere agli Altri per garantirsi questa difesa. Affinché i due poli della dialettica siano il più possibile armonizzati, ogni intervento politico e sociale dovrebbe cercare di creare le condizioni per l’affermarsi dell’egoismo altruista: e cioè assicurarsi al meglio che gli obiettivi e le modalità del conflitto convincano il singolo individuo, desideroso di giustizia sociale, economica e politica, che la collettività organizzata gli garantisce lo scenario più favorevole per il successo delle proprie rivendicazioni, diritti, esigenze. E nel contempo bisogna riuscire a mettere in campo forme e strutture di contropotere che, evitando di fare appelli superomisti al Coraggio da contrapporre alla Paura dei danni per il Sé, diano una ragionevole certezza di rapporti di forza adeguati all’entità del conflitto. Non dunque manipoli di coraggiosi avanguardisti con elitaria visione dello scontro politico e sociale, ma la creazione di ambiti conflittuali che sappiano gestire e contenere il probabile emergere del freno della Paura rispetto alle minacce al Sé che ogni forma di conflitto può effettivamente determinare.

6) Da questi punti di vista le modalità di organizzazione della democrazia in itinere e della partecipazione ai processi decisionali – non solo per la fase post-capitalista ma ancor più, qui ed ora, nei processi di trasformazione e transizione per il superamento della società fondata sul profitto e mercificazione globale – sono assolutamente decisive. Non si può neanche sperare di sanare, o gestire al meglio, la contraddizione tra la difesa del Sé e quella degli interessi collettivi se non consentendo costantemente ad ognuno/a di potersi sentire ed essere realmente parte attiva, considerata e ascoltata, dei processi decisionali quotidiani. E’ l’esperienza-chiave, direi, che come Cobas abbiamo vissuto intensamente nei circa 25 anni di esistenza. Al punto da venire addirittura insultati pesantemente, a suo tempo, da alcuni gruppi “leninisti” che ci accusavano di cretinismo democraticista, perché a loro avviso eravamo “ossessionati dalla costante e maniacale preoccupazione“ di garantire i processi democratici all’interno dell’organizzazione, al punto da “preferire una cattiva decisione presa all’unanimità dopo certosino ed estenuante dibattito piuttosto che una buona decisione presa però non rispettando tutti i formali passaggi democraticisti”. Seppure intrise di strumentale astio, queste brutali critiche però segnalavano involontariamente un fatto cruciale: e cioè la convinzione, dominante nei Cobas, che cattivi mezzi producano cattivi fini, e viceversa. Non si può seriamente pensare che si possa far strame dei processi democratici nella fase di trasformazione e di transizione, e poi partorire miracolosamente una società post-capitalista in cui la democrazia integrale si materializzi d’incanto. E per di più la mia e nostra esperienza e verifica quotidiana ci conferma che la massima partecipazione volontaria alla trasformazione dell’esistente non può avvenire senza la valorizzazione del ruolo attivo e cosciente di ognuno/a nell’agire collettivo e senza la conseguente armonizzazione tra la difesa individuale dell’Io e quella del Noi.

NOTE

1  Nato a Besana nel 1975, Vittorio Arrigoni è stato assassinato per motivi non ancora davvero chiariti a Gaza il 15 aprile 2011. Era reporter, scrittore ma soprattutto militante totalmente impegnato nella cooperazione pacifista e umanitaria dalla parte dei più deboli, oppressi e sfruttati, ovunque nel mondo ci fossero ingiustizie, violenze e soprusi. Con particolare passione, Arrigoni era a fianco della lotta dei palestinesi, subendo per questo non solo la repressione dei militari israeliani ma anche l’avversione da parte di un integralismo islamico che non ha mai sopportato la presenza dei cooperatori e pacifisti occidentali. Rapito da un gruppo salafita che avrebbe richiesto in cambio della sua liberazione la scarcerazione di un loro leader, è stato ucciso a così breve distanza dal rapimento da far dubitare dell’obiettivo dichiarato. Delle reali intenzioni del gruppo dei rapitori, a parole sconfessato anche dalla dirigenza salafita (che lo definì “cellula impazzita”), neanche il processo susseguente ai possibili autori dell’assassinio è riuscito a fare piena luce.

2  Franco Cassano, L’umiltà del male, Laterza, Bari, 2011. Cassano insegna Sociologia dei processi culturali all’Università di Bari ed è autore di una dozzina di libri che sono analisi sociologica ma anche culturale e politica del nostro Paese e dei nostri tempi.

3  Per specismo si intende una quasi inavvertita forma di razzismo sviluppato dalla maggioranza degli umani nei confronti delle altre specie viventi, viste non solo come inferiori, ma sovente anche come dedite alla crudeltà, alla ferocia e alla spietatezza e incapaci di quella positività di comportamento che invece viene attribuita d’ufficio alla gran parte del genere umano.

4   Jan Karski, Così ho scoperto l’Olocausto, La Repubblica, 10 luglio 2011, pp.28-9.

5   J. Karski,  Mein Bericht an die Welt. Geschichte eines Staates im Untergrund (Il mio rapporto al mondo. Storia di uno Stato nella clandestinità), Edizioni Verlag Antje Kunstmann, Monaco.

6  Ibidem.

7  Franco Cassano,  op.cit. prologo pag.VIII.

8  F. Dostoevskij,  I fratelli Karamazov, Einaudi, Torino,1981, vol.I, libro quinto, pp. 332-3.

9  F. Dostoevskij, op.cit. pag.342. Qui il Grande Inquisitore si riferisce al racconto evangelico delle tre tentazioni che Satana avrebbe rivolto al Cristo ritiratosi in meditazione nel deserto, offrendogli tra l’altro il potere di trasformare le pietre in cibo e l’intervento degli angeli per convincere gli umani, nonché il dominio assoluto del mondo. Il rifiuto del Cristo rivelava, secondo l’Inquisitore, una presunzione aristocratica perché egli non voleva usare il potere ma rivolgersi alla coscienza umana affinché scegliesse liberamente, di fatto indicando agli umani una via troppo esigente, basata su una fortissima spinta mentale e spirituale, alla portata di pochissimi.

10  F.Cassano, op.cit. pp.9-10. 

11  F. Dostoevskij, op.cit. pp.342-4.

12  Ibidem, pag.338.

13  Ibid., pag.340.

14  F. Cassano, op. cit. pp.11-14.

15  Ibidem, pag.15.

16  Ibid., pp.15-16.

17  Ibid., pag.18.

18  Ibid., pp. 20-21.

19  Ibid., pp.23-24.

20  Primo Levi,  I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino, 1986.

21  F. Cassano, op. cit. pp.28-29.

22  Ibidem, pag.31.

23  Ibid.

24  P. Levi, op. cit. pp.62-63.

25  Ibidem, pag.25.

26  Ibid., pag.27.

27  Hannah Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano, 2001.

28  F. Cassano, op. cit. pp. 37-38.

29  P. Levi, Conversazioni e interviste, a cura di M. Belpoliti, Einaudi, Torino, 1997, pag.279.

30  Ibidem, pp.34-35.

31  F. Cassano, op. cit. pp.40-41.

32  P. Levi, I sommersi e i salvati, op. cit. pag.32.

33  Ibidem, pag.51.

34  Eugenio Scalfari, L’invenzione del Bene e del Male, La Repubblica, 23 giugno 2011, pag.43.

35  Ibidem.

36  Ibid.

37 E’ una espressione di Pierre Bourdieu, che si rifà all’Iperuranio di Platone, fantasioso “mondo delle idee” ove gli umani vivrebbero prima della incarnazione terrena.

38  Su questo tema ampi riferimenti si possono trovare ad esempio in A tu per tu con la paura, di Krishnananda (Thomas Trobe) e Amana (Gitte Demant Trobe), Feltrinelli, Milano, 2010.

39  Pierre Bourdieu (1930-2002), sociologo e filosofo francese di formazione teorica marxista e strutturalista, si è occupato in particolare di sociologia dei processi culturali e della “violenza simbolica” dei processi educativi e di quelli scolastici in particolare. Tale violenza dei simboli per Bourdieu agisce in permanenza in tutti i processi culturali ed educativi di massa ed ha la funzione di conservare e riprodurre il sistema di potere e l’ideologia imperanti, costringendo anche i dominati a confermare, avallare e legittimare gli schemi del dominio.

Michel Foucault (1926-1984), sociologo, psicologo, filosofo e storico francese, uno dei più grandi ed originali intellettuali del Novecento, ha studiato in particolare l’esercizio e lo sviluppo del Potere non solo nei tradizionali ambiti economici, politici e istituzionali ma in tutti i settori della società, anche nei più trascurati dal pensiero storico classico, nelle scuole, nelle prigioni, negli ospedali e nell’uso della sessualità. Si può dire che abbia realizzato il desiderio di Nietzsche, che si lamentò della assenza di una storia della follia, del sesso e del crimine. Ha sviluppato quella che chiamò microfisica del potere, osservando e analizzando con precisione da alta chirurgia il funzionamento del biopotere diffuso, visto non come statico o esclusiva proprietà di questa o quella classe o ceto, ma come un elemento mobile, fluido, che circola costantemente e si rinnova, coinvolgendo in qualche modo tutte le parti in causa, funzionando in modo reticolare, a catena. Tale biopotere, mezzo per controllare e sorvegliare l’umanità, è pervasivo e riproduttivo, e con continuità plasma i corpi, i desideri, i modi di vita. Pur essendo stato certamente influenzato dal marxismo, intellettualmente e pure nella sua costante attività politica – iniziata anche prima del movimento del’68 a cui partecipò e che sostenne – in ambiti vicini alla sinistra radicale e antagonista, non riconosceva il connotato palingenetico del marxismo e del comunismo, e in particolare l’idea-base del potere liberatorio per l’umanità posseduto dal proletariato e delle classi sfruttate e potenzialmente rivoluzionarie, e tanto meno da una loro ipotetica dittatura o presa del potere.

40 La cosiddetta Scuola di Francoforte (il termine non veniva usato dai suoi appartenenti) è una scuola di pensiero filosofico e sociologico che si può definire neomarxista, le cui origini risalgono all’”Istituto per la ricerca sociale” operante in Germania dal 1923 nell’Università di Francoforte. Il gruppo originario (Adorno, Horkheimer, Habermas e altri) lasciò la Germania all’avvento del nazismo e vi ritornò dopo la guerra per fondare un nuovo Istituto che ha avuto nei decenni post-bellici una grande influenza sul pensiero di trasformazione sociale, marxista e non, in Europa e nel mondo, anche spesso in polemica o contrasto con le correnti comuniste legate all’URSS. Tra gli altri suoi esponenti più famosi Marcuse, il più letto e seguito all’interno dei nuovi movimenti anticapitalisti degli anni ’60, Sohn-Rethel, Negt, Wittfogel, Benjamin.

41 Per saperne di più sulla antropologia del filosofo tedesco Arnold Gehlen si può leggere il suo libro più famoso e cioè L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Feltrinelli, Milano, 1983. 

42  Lo studio è stato pubblicato in italiano nel 1992 da Bollati Boringhieri con il titolo La Scuola di Francoforte. Storia. Sviluppo teorico. Significato politico.

43  Franco Cassano, op. cit. pp.52-54.

44  Ibidem, pp. 56-59.

45  A. de Toqueville, La democrazia in America, Rizzoli, Milano, 1992, pp.732-3.

46  F. Cassano, op. cit. pag.60.

47 Una trattazione organica del concetto di “industria culturale” è sviluppata da Adorno in particolare in uno scritto, così titolato, del 1963, che è stato pubblicato in italiano in una raccolta curata da E. Donaggio,  La Scuola di Francoforte. La storia e i testi, Einaudi, Torino, 2005, pagg. 224-233. Per il resto si può fare riferimento alla Dialettica dell’Illuminismo, Einaudi, Torino, 1997.

48  T.W.Adorno, M.Horkheimer  La dialettica dell’Illuminismo, op. cit. pag.134.

49  F. Cassano, op. cit. pag.61.

50  Ibidem, pp. 61-62.

51  Ibid., pag.63.

52 Arnold Gehlen, L’uomo nell’era della tecnica. Problemi socio-psicologici della civiltà industriale, Sugar, Milano 1967, pag.197.

53  Ibidem, pag.103.

54  Ibid., pag.106.

55  F.Cassano, op. cit. pp.66-67.

56  A.Gehlen, op.cit. pp.200-1.

57 Una ampia trattazione dell’argomento si può trovare nel libro di Vanni Codeluppi, La vetrinizzazione sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società, Bollati Boringhieri, Torino 2007.

58  F. Cassano, op. cit. pag.69.

59  R.Wiggershaus, La Scuola di Francoforte, op. cit. pag.604.

60  F. Cassano, op. cit. pp.72-3.

61  B.Pascal,  Pensieri, a cura di Paolo Serini, Einaudi, Torino 1962, pag.121.